Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il rapimento e la decapitazione del giornalista ebreo americano Daniel Pearl, nel 2002, segna l'inizio del nuovo antisemitismo di matrice islamica. Che in Europa è sempre più diffuso ed è sostenuto dalla sinistra post-comunista e ancora antisionista (come ai tempi dell'Urss).
In quasi 30 anni di articoli e dibattiti sull'antisemitismo globale, mi è stato chiesto più di una volta se sia possibile individuare con precisione il momento in cui questa attuale ondata di odio ha iniziato a manifestarsi. È una domanda che assume un significato ancora più profondo alla luce del pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 in Israele, l'evento che continua a portare il tema dell'antisemitismo in cima alle notizie di tutto il mondo. Naturalmente, l'antisemitismo non è mai svanito del tutto, come la maggior parte degli ebrei sa fin troppo bene.
I decenni successivi alla vittoria degli Alleati sulla Germania nazista, di cui abbiamo celebrato l'80° anniversario la scorsa settimana, hanno inaugurato un'epoca di emancipazione senza precedenti per il popolo ebraico. Nella maggior parte della diaspora (l'Unione Sovietica e gli Stati arabi rappresentano lampanti eccezioni), i diritti civili e politici delle comunità ebraiche erano ormai sanciti, rafforzati dal tabù ampiamente condiviso sulla retorica e le attività antisemite, che si è consolidato insieme alle rivelazioni dell'orrore dei campi di concentramento nazisti.
Ancora più importante, per la prima volta in due millenni, è che gli ebrei hanno finalmente realizzato un proprio Stato, con forze armate che si sono dimostrate perfettamente capaci di sconfiggere le minacce all'esistenza di Israele provenienti da tutta la regione. Eravamo stati, per usare le parole dei primi teorici del sionismo, “normalizzati” – o almeno così pensavamo. L'era della legittimazione non fu un'età dell'oro. Gli ebrei che ancora languivano nell'Unione Sovietica furono perseguitati e fu loro proibito di fare l'aliyah. Il fiorire di molteplici organizzazioni palestinesi armate dopo la guerra del 1967 sottopose israeliani ed ebrei della diaspora ad atrocità terroristiche, tra cui dirottamenti aerei e attacchi armati contro sinagoghe. Le Nazioni Unite, la cui Assemblea Generale approvò una risoluzione nel 1975 che equiparava il sionismo al razzismo, divennero il principale incubatore dell'odio rivolto a Israele. La breve luna di miele del dopoguerra tra ebrei e sinistra politica terminò più o meno nello stesso periodo, sostituita dalle frecciate diffamatorie sull’ “apartheid” e sul “razzismo sionista” che ancora oggi ci affliggono. Ciononostante, all'inizio del secolo, si verificò un notevole deterioramento. Per gran parte degli anni Novanta, il conflitto tra Israele e i palestinesi sembrava prossimo alla risoluzione, simboleggiato dalla breve stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra il defunto Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat. Ma nel 2000, cinque anni dopo l'assassinio di Rabin a Tel Aviv, Arafat lanciò una seconda intifada contro Israele e le vecchie posizioni intransigenti furono ripristinate. Gran parte del mondo seguì l'esempio di Arafat, come dimostrato dalla conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo del 2001 a Durban, in Sudafrica, tenutasi pochi giorni prima delle atrocità di Al-Qaeda negli Stati Uniti l'11 settembre. Lì, ONG e governi attaccarono Israele e i delegati ebrei furono sottoposti a quel tipo di sopruso (“Hitler aveva ragione”) che è diventato fin troppo comune al giorno d'oggi. Parallelamente al crollo delle relazioni tra Israele e i palestinesi, l'antisemitismo è tornato con veemenza, soprattutto in Europa, fomentato da un'alleanza innaturale tra organizzazioni islamiste radicate nelle diverse comunità musulmane del continente e da un'estrema sinistra che invocava a gran voce il sangue israeliano e quello americano dopo l'11 settembre. Fu in Pakistan, tuttavia, che avvenne l'omicidio che diventò il simbolo di questa nuova realtà. Alla fine di gennaio del 2002, il giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl, ebreo americano, fu rapito da un hotel di Karachi da terroristi islamisti. Pochi giorni dopo, apparve online (all'epoca la tecnologia era ancora una novità) un video della brutale esecuzione di Pearl. Dopo aver pronunciato le sue ultime parole – “Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo” – Pearl fu decapitato davanti alle telecamere dai suoi aguzzini. A mio avviso, il suo tragico destino ha segnato l'avvio ad una nuova tendenza che gli ebrei si trovano ancora oggi ad affrontare. Lo dico perché non si è trattato di una retorica sgradevole o di graffiti, di una vetrina rotta o persino di un ignaro passante ebreo preso a pugni in faccia. Si è trattato di un omicidio a sangue freddo, guidato da motivazioni ideologiche, che ha messo in evidenza la violenza letale che si annida in ogni convinto odiatore di ebrei. La scorsa settimana, uno dei terroristi coinvolti nel rapimento e nell'omicidio di Pearl sarebbe stato eliminato durante i raid aerei indiani sul Pakistan, condotti in risposta all'uccisione di 26 civili da parte di terroristi sostenuti dal Pakistan in Kashmir il 26 aprile.
Abdul Rauf Azhar era un leader dell'organizzazione terroristica Jaish e-Mohammad che collaborò al rapimento di Pearl insieme ad altri terroristi, tra cui Khalid Sheikh Mohammed, uno degli ideatori degli attacchi dell'11 settembre, e Omar Saeed Sheikh, un cittadino pakistano cresciuto in Inghilterra che aveva studiato brevemente presso la mia alma mater, la London School of Economics, prima di abbandonare gli studi. Oltre all'omicidio di Pearl, Azhar fu responsabile del dirottamento di un aereo passeggeri indiano nel 1999, nonché degli attacchi al parlamento indiano e a una base militare indiana rispettivamente nel 2001 e nel 2016. L'importanza dell'eliminazione di Azhar ora, in un momento in cui l'antisemitismo imperversa con un'intensità ben maggiore rispetto al momento dell'omicidio di Pearl, non dovrebbe passare inosservata a nessuno. Durante i 23 anni che separano la morte di Pearl da quella di Azhar, gli ebrei hanno subito insulti e vandalismi, aggressioni e persino omicidi. Gran parte di questi eventi ha seguito le fasi più acute e dolorose del conflitto in Medio Oriente, in particolare la Seconda guerra del Libano nel 2006 e le precedenti guerre a Gaza nel 2008-2009, 2014 e 2021. Non tutte le manifestazioni antisemite sono così strettamente collegate. Alcuni dei peggiori episodi di odio e violenza, come la tortura e l'omicidio di Sarah Halimi, un'anziana donna ebrea che viveva da sola in un alloggio popolare a Parigi, nel 2017, non si sono verificati in un periodo di conflitto insolitamente intenso in Medio Oriente. Piuttosto, sono stati una conseguenza dei luoghi comuni di demonizzazione e delle false affermazioni sugli ebrei che si sono radicati nella nostra cultura nel corso di questo secolo. Dovremmo provare un profondo senso di soddisfazione alla notizia che Azhar è morto e quindi non può rovinare la vita di altri innocenti come Daniel Pearl.
Tuttavia, questo non equivale a una piena giustizia, che implicherebbe invece una resa dei conti completa da parte di politici, influencer e opinion leader dell'antisemitismo che ha macchiato la nostra cultura e la nostra civiltà. Più o meno sappiamo dove tutto questo è iniziato. Quello che non sappiamo è dove e quando finirà.