Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Trump e Netanyahu: gelo fra i due Analisi di Davide Frattini
Testata: Corriere della Sera Data: 10 maggio 2025 Pagina: 24 Autore: Davide Frattini Titolo: «Trump scavalca Bibi: tregua immediata e via agli aiuti per Gaza. Il gelo tra i due amici»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/05/2025, a pag. 24, con il titolo "Trump scavalca Bibi: tregua immediata e via agli aiuti per Gaza. Il gelo tra i due amici" l'analisi di Davide Frattini.
Davide Frattini
Anche Netanyahu si sta rendendo conto che Trump è incostante e inaffidabile. Prima ha annunciato che vuole trattare con l'Iran. Poi ha annunciato unilateralmente la pace con gli Houthi nelle Yemen (mentre questi continuano a colpire Israele). Adesso, in vista del suo viaggio in Medio Oriente, annuncia la volontà di una lunga tregua a Gaza, senza neppure chiedere il disarmo di Hamas. Il tutto senza nemmeno consultarsi con Netanyahu.
Da leader internazionale che quest’anno ha varcato più di tutti gli altri i cancelli della Casa Bianca, da autodefinito suggeritore che ha ridotto le complessità del Medio Oriente a livello di un campo da golf, adesso Bibi sospetta di aver preso le misure sbagliate all’amico Donald. La taglia del presidente rientrante alla Casa Bianca sembra più abbondante, trabocca di prese di posizione e di prese alle spalle: mosse a sorpresa che agguantano anche i più i navigati come Benjamin Netanyahu.
Il premier israeliano è rimasto ammutolito sulla poltrona a fianco, quando agli inizi di aprile Trump ha annunciato da Washington i negoziati con gli iraniani, accantonando per ora l’ipotesi di un bombardamento sui siti nucleari. È stato lasciato spettatore anche pochi giorni fa: l’alleato ha dichiarato la tregua con gli Houthi senza preoccuparsi che restasse fuori Israele, dallo Yemen i ribelli sciiti hanno continuato gli attacchi e ieri le sirene sono risuonate a Tel Aviv.
Così sui giornali israeliani appaiono retroscena attorno alla «frustrazione reciproca»: si basano su fonti globali (americane) e parlano al pubblico locale. Perché Netanyahu teme che «il grande annuncio» promesso da Trump prima del viaggio nei Paesi del Golfo possa prenderlo ancora una volta alla sprovvista. Meglio sfruttare le indiscrezioni e lasciar trapelare attraverso i tanti sostenitori nel partito repubblicano a Washington che il presidente «pensa agli interessi americani» ed è ormai «deluso dalla lentezza» del primo ministro nel prendere decisioni risolutive, soprattutto sulla guerra a Gaza, dove i palestinesi uccisi hanno superato i 52 mila. Vorrebbe una tregua ai 581 giorni di conflitto prima di atterrare in Medio Oriente e — dicono i media arabi — non pretenderebbe più il disarmo di Hamas da subito.
È toccato a lui dire la verità da lontano ai famigliari degli ostaggi: 21 sono in vita, 3 in meno rispetto ai 24 calcolati dal governo a Gerusalemme, tra loro due stranieri e un israeliano. Il premier lo ha ammesso dopo l’ammissione dalla Casa Bianca. È toccato a lui «dare l’ordine» — spiega Mike Huckabee, l’ambasciatore americano — che gli aiuti umanitari entrino al più presto nella Striscia: «Abbiamo un nostro piano perché il cibo venga distribuito». Di fatto Netanyahu deve sottomettersi a Trump e accettare di sbloccare l’embargo che da due mesi ha affamato ancora di più i palestinesi. I ministri fanatici già scalpitano.
Il presidente pronostica svolte — prima e durante la visita in Arabia Saudita, Emirati e Qatar — che potrebbero essere strade senza uscita per la coalizione di estrema destra. Le dicerie sulla lite permettono al premier di proclamare: «Possiamo difenderci da soli dagli Houthi, se gli Stati Uniti partecipano tanto meglio». È difficile che possa ripetere lo stesso slogan se dal vertice a Riad emergesse un’intesa regionale che coinvolge l’Iran: l’aviazione di Tsahal non è in grado — perché il raid sia davvero incisivo — di bombardare i siti nucleari sviluppati dal regime islamico senza il supporto del Pentagono. Di sicuro — rivela l’agenzia Reuters — Washington è pronta a firmare un patto con i sauditi senza vincolarlo alla normalizzazione delle relazioni con gli israeliani: Riad otterrebbe il via libera al programma atomico civile, abbastanza per inquietare il governo a Gerusalemme.
Quello che emerge pubblicamente è ancora più sconcertante per il primo ministro degli umori presidenziali svelati dalle fonti anonime: dal vice JD Vance che loda entusiasta la trattativa con gli ayatollah alla vaghezza di Trump sui punti fondamentali di una possibile intesa sull’atomica come lasciare o meno le centrifughe per l’arricchimento nelle mani degli iraniani. Fino a Pete Hegseth, il capo del Pentagono, che ha cancellato all’ultimo la visita prevista a Tel Aviv.
Il banditore Donald alza la posta a parole, vuol piazzare prodotti diplomatici che magari sono soltanto una sua idea, un prototipo di accordo. Abbastanza per spingere analisti attenti come Ian Bremmer a speculare sui social media: «E se in Arabia Saudita incontrasse il presidente iraniano Masoud Pezeshkian?». Un’ipotesi-scommessa che dura il tempo di leggere il tweet, ma che ai tempi di Trump nessuno può escludere.
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