Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Con gli USA serve trattare Commento di Daniele Capezzone
Testata: Libero Data: 09 maggio 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Capezzone Titolo: «La lezione di Londra: con gli Usa serve trattare»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 09/05/2025, a pag. 1, con il titolo "La lezione di Londra: con gli Usa serve trattare ", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Regno Unito e Usa siglano un accordo di libero scambio dopo la minaccia dei dazi americani. Segno che con Trump serve trattare, nonostante il primo impatto brutale non ci si deve fare intimidire. E magari si ottiene qualcosa di meglio.
Ieri è arrivato nuovo e abbondante materiale per la riflessione delle persone ragionevoli e – all’opposto – per la crisi isterica dei soliti noti. O, se vogliamo metterla in un altro modo, abbiamo avuto la plastica rappresentazione di cosa fare e di cosa non fare rispetto all’offensiva trumpiana sui dazi.
Era infatti scontato che, dopo una fiammeggiante pars destruens, e cioè la minaccia americana di imporre dazi elevati, sarebbe arrivata da Washington la pars construens, ovvero la disponibilità a realizzare accordi convenienti e di buon senso.
Da prima – dunque – erano possibili due diversi atteggiamenti da parte degli interlocutori del Presidente Usa. Per un verso (scelta saggia ad esempio caldeggiata dal governo italiano), si poteva manifestare disponibilità a trattare, e contestualmente cercare di togliere dal tavolo le barriere (tariffarie e non) elevate da anni contro i prodotti americani: un modo per mostrarsi aperti e anche per offrire a Trump una sorta di disarmo bilaterale. Per altro verso (scelta isterica), si poteva – come si è fatto in Ue – cominciare a far volteggiare nell’aria le parole “bazooka”, “vendetta” e “rappresaglia”. Esercizio tuttora in pieno corso, come vedremo tra poco.
I risultati dei due opposti approcci sono da ieri sotto gli occhi di tutti. La Gran Bretagna, dialogante e non aggressiva, ha siglato un buon accordo con gli Usa, il primo grande “deal” concluso dagli Stati Uniti in questa fase. Risultato? Borse su, aziende e consumatori rassicurati, ed effetti positivi per due governi – a Londra e a Washington – di segno politico opposto. Naturalmente restano zone d’ombra e perplessità, e alcuni aspetti dell’intesa appaiono ancora parziali (accordi più dettagliati verranno discussi nelle prossime settimane, ed è ad esempio immaginabile che gli allevatori inglesi non saranno contenti dell’azzeramento dei dazi sull’import in Uk di carne americana): ma è di sicuro un passo positivo e importante nella direzione del libero commercio.
Al contrario, l’Ue continua a sparare a palle incatenate in modo insensato. L’altro ieri (come Libero è stato l’unico a notare ieri mattina) il documento Macron-Merz conteneva una parte apertamente provocatoria verso gli Usa («garantire risposte decise ad azioni avverse che colpiscano l’Europa»), in palese contrasto con i toni ultraconcilianti del testo franco-tedesco verso Pechino. Quindi, una carezza ai cinesi e una gomitata in faccia agli americani: il che non sembra un buon modo di porsi rispetto a un tipo come Trump.
E ieri Bruxelles ha addirittura rincarato la dose, minacciando – in caso di mancato accordo – l’imposizione di tariffe aggiuntive sulle importazioni dagli Usa, mettendo nel mirino migliaia di beni di tutti i tipi (auto, aerei, moto, alcoolici, elettrodomestici, prodotti agricoli). Esattamente il contrario di una tattica negoziale conciliante nel metodo e liberale nel merito: in quest’ultimo caso, si sarebbero spazzati via i propri dazi e le proprie barriere, per indurre la controparte a fare altrettanto. E invece no: si minaccia di fare ancora peggio, innescando una specie di escalation. E, per rendere l’operazione ancora più surreale, nel mega-elenco diffuso dalla Commissione Ue dei prodotti che potrebbero essere oggetto di ritorsione sono stati inseriti pure gli smartphone: un dito nell’occhio degli Usa e un altro nell’occhio dei consumatori europei.
Ma il masochismo bruxellese è qualcosa di inimmaginabile: nell’elencone sono stati inseriti anche vino e whisky americani. Piccolo dettaglio: l’Ue importa alcool dagli Usa per appena 300 milioni di euro l’anno, mentre esportiamo lì beni dello stesso tipo per un valore di 5 miliardi l’anno (di cui circa 2 dall’Italia). Ha senso imbarcarsi in una guerra in cui chi ha così tanto da perdere siamo noi?
E questo ci porta inevitabilmente a un ulteriore confronto con la Gran Bretagna: il Regno Unito si trova in una posizione migliore non solo in virtù della storica “relazione speciale” con gli Usa, ma pure grazie a Brexit, che l’ha disancorata dalle follie Ue. Da questo punto di vista, pur senza uscire dalla gabbia bruxellese, anche noi in Italia dovremmo cercare di essere più flessibili: lavorare insieme all’Ue quando è possibile, negoziare da soli quando è necessario o più conveniente.
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