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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.09.2003 Hamas, l' Unione Europea, 100 milioni di dollari
Tre giornalisti collegano oggi il terrorismo, le decisioni europee ed il destino infelice di chi abbandona Allah

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 settembre 2003
Pagina: 8
Autore: Guido Olimpio - Gianna Fregonara
Titolo: «Magdi Allam, Guido Olimpio, Gianna Fregonara: Hamas, l'Islam, l'Europa»
Un Corriere della Sera straordinariamente ricco di informazioni, quello di oggi.
Magdi Allam scrive delle "nuove catacombe degli islamici convertiti", fornendoci una immagine inquietante della situazione in cui si trova chi, da musulmano, decide di abbandonare Allah per aderire ad una religione diversa. E da oggi sappiamo che potrebbe pagare con la vita questa sua scelta.
Nella pagina interna (la pagina 8) due ottimi articoli si occupano di Hamas in relazione all'imminente riunione dei ministri degli Esteri dell'Unione Europea che ne dovranno decidere il destino, ci forniscono per merito di Guido Olimpio e di Gianna Fregonara una serie di informazioni e di collegamenti a proposito di Hamas, dei suoi legami con Arafat, della montagna di denaro (100 milioni di dollari all'anno) che raccoglie in occidente e nel mondo arabo, dell'uso che fa di questo denaro e dei legami occulti (ma non molto, per la verità) fra il "braccio politico" e quello "militare" (terroristico) dell'organizzazione. Del primo è a capo quel Rantisi che si è esibito pochi giorni or sono sul periodico di Hamas in una denuncia della malvagità ebraica, che si è inventata la Shoah e tiene in ostaggio il mondo intero per i suoi loschi scopi, come ha affermato citando con orgogliosa simpatia i negazionisti dello schieramento neonazista occidentale.
L'unico lato del problema che i due giornalisti hanno taciuto è quello dei flussi di denaro che provengono da un canale diverso da quello delle organizzazioni islamiche utilizzate da Hamas: il canale a capo del quale sta Arafat personalmente, e che non è meno preoccupante ed insidioso di quello visibile.

Il primo dei tre articoli sopracitati è firmato da Gianna Fregonara, dal titolo: "L'Europa alla prova di Hamas"

Il tema sarà all’ordine del giorno nel vertice informale dei ministri degli Esteri che si apre dopodomani a Riva del Garda: si tornerà a parlare di quali provvedimenti potrebbe e dovrebbe prendere l’Unione Europea nei confronti del braccio politico di Hamas. Il tema non è nuovo, ma gli attentati delle ultime settimane e la rottura della tregua proclamata nell’ambito della road map rendono più urgente un confronto tra i partner dell’Unione. Che la Ue «faccia la sua parte», del resto, lo ha chiesto ieri in una intervista al Corriere anche il ministro della Sicurezza palestinese e braccio destro di Abu Mazen, Mohammed Dahlan. E’ per tutto ciò, oltre che perché la posizione del governo Berlusconi è stata in questi due anni sempre la più dura nei confronti anche dell’organizzazione politica di Hamas e in generale della vecchia leadership palestinese, che Frattini ha deciso di inserire la questione tra gli argomenti da affrontare a Riva del Garda. Difficile immaginare che la posizione fin qui intransigente dell’Italia possa diventare la posizione europea: alla Farnesina non si fanno illusioni. L’opposizione alla linea più severa è guidata dalla Francia e ha fatto diversi proseliti. E per poter deliberare su un tema di politica estera in sede di Consiglio europeo - almeno fino a quando la Costituzione europea da approvare non cambierà il sistema - occorre l’unanimità.
E infatti a Palazzo Chigi e alla Farnesina in questi giorni protestano proprio sulla difficoltà del metodo che prevede l’accordo di tutti e il diritto di veto anche di un solo Stato: «Queste sono materie sulle quali non basta formare una maggioranza. Si tratta di un freno che può portare anche a forme di paralisi e in ogni caso richiede pazienza e mediazione», spiegano al ministero degli Esteri. Il fatto che l’Italia sia presidente di turno ha indotto infatti la diplomazia ad assumere una posizione più temperata, «alla ricerca di un risultato pratico», che potrebbe rischiare di deludere le aspettative di americani e israeliani, che contano proprio sulla severità della posizione italiana. «Magie - insistono alla Farnesina - su un tema come questo non ne possiamo fare». Anche Silvio Berlusconi, negli ultimi giorni, ha ammorbidito la sua posizione nei confronti di Arafat, dicendosi pronto, «nell’ambito delle iniziative per far ripartire la road map», a incontrarlo.
Dall’altra parte la consapevolezza che, senza un colpo d’ala contro il terrorismo, la road map e la situazione in Medio Oriente siano sull’orlo del collasso, si sta facendo strada presso la maggioranza dei governi europei. Tanto più che anche la Commissione Ue, dopo l’ultima serie di attentati, potrebbe valutare di cambiare la sua posizione nel conflitto mediorientale per assumere una linea più filoamericana. E proprio l’atteggiamento da tenere sul riconoscimento di Hamas e sull’eventuale blocco delle risorse dell’organizzazione in Europa potrebbe essere la cartina di tornasole.
Due sono le opzioni che verranno discusse a Riva del Garda. La prima, quella politicamente più forte e finora meno condivisa in Europa, è quella dell’inserimento tout court del braccio politico di Hamas nella lista nera del terrorismo, nella quale sono già tra gli altri le Brigate Al Aqsa, la Jihad Islamica e l’organizzazione militare di Hamas. Se ne era già discusso anche nell’ultimo vertice del semestre greco, a giugno. Nel vertice Usa-Ue di giugno il presidente americano George Bush aveva esplicitamente chiesto a Romano Prodi di considerare tutta la struttura di Hamas come uno dei soggetti del terrorismo mondiale. Anche la diplomazia israeliana preme da tempo perchè ciò avvenga basandosi sull’affermazione che «la distinzione tra ala politica e ala militare di Hamas è fittizia e artificiale».
C’è anche una seconda strada, di mediazione, che la Farnesina vuole percorrere: politicamente meno forte, ma probabilmente molto più efficace sul piano pratico. Senza prendere decisioni su Hamas, si potrebbero dichiarare «terroristiche» le singole organizzazioni di solidarietà e raccolta fondi che operano in Europa in collegamento con Hamas, alcune delle quali sono sotto inchiesta in diversi Stati.
Ma al momento, per ragioni diverse, sui due progetti ci sono molte riserve a livello europeo. Nel fronte dei contrari a inserire il braccio politico di Hamas nel novero dei terroristi, oltre alla Francia, ci sono la Grecia, l’Irlanda, il Belgio, la Finlandia e anche la Spagna. Il governo di Madrid non ha tanto riserve di natura politica, essendo uno degli Stati più vicini alla linea americana sul Medio Oriente, quanto di natura più tecnica, sugli effetti della messa fuori legge di tutta l’organizzazione di Hamas, dall’arresto dei suoi uomini alla confisca dei beni. E persino gli inglesi all’inizio non erano del tutto convinti dell’operazione, temendo di essere così i più esposti ad attacchi terroristici in Europa.
Ma i più determinati risultano essere i francesi. Due le ragioni del loro no: il ricordo storico della guerra d’Algeria, dove proprio i francesi hanno combattuto il terrorismo, ma dialogato con il braccio politico delle stesse organizzazioni, sembra a Parigi un insegnamento valido anche per il Medio Oriente; senza contare che se, dopo il bando europeo, Hamas si presentasse alle elezioni e ne uscisse con un buon risultato, diventerebbe praticamente impossibile qualsiasi mediazione da parte della Ue.
Dal vertice di Riva del Garda non usciranno documenti nè prese di posizione. Ma almeno, spera Frattini che oggi è in partenza per New York per incontrare Kofi Annan e Colin Powell, un passo avanti nel dialogo tra i Quindici. Lo si capirà dal tenore dell’appello (o ultimatum?) ad Hamas che verrà fatto nella conferenza stampa finale.
Il secondo, "Tra omicidi mirati e divisioni interne il gruppo per la prima volta ha paura", è di Guido Olimpio
Hamas non ha mai goduto di tanto seguito. I suoi militanti, inquadrati sotto lo stendardo delle Brigate Ezzedine Al Kassam, non sono stati mai così letali. Il braccio politico, durante il periodo della «hudna», la tregua provvisoria, è diventato un interlocutore rispettato. Eppure il principale movimento islamico palestinese ha più di un problema. Israele ha dichiarato «guerra totale», vuole polverizzare uno dopo l’altro capi, quadri e soldati semplici. Negli ultimi 10 giorni ne sono stati uccisi sei. Otto, se si aggiungono l’esponente della Jihad fatto fuori nel nord e un guerrigliero deceduto per le ferite riportate in un omicidio mirato. Una campagna che ha spinto i vertici del partito a nascondersi, a cambiare vita e tattica. «Sono scesi nelle catacombe», racconta la stampa israeliana. Persino la guida spirituale, lo sceicco Ahmed Yassin, ha ridotto le sue apparizioni nel timore di essere sorpreso da un elicottero «Apache».
Tempesta anche sul fronte internazionale. L’Unione Europea discute del congelamento dei fondi e, misura più severa, del possibile inserimento dell’ala politica nella lista nera del terrorismo. L’Egitto ha esercitato nuove pressioni e ha sollecitato l’Arabia Saudita, dove Hamas pesca buona parte del suo budget (100 milioni di dollari), a ridurre i fondi.
Senza denaro, gli islamici non possono gestire il loro enorme e generoso apparato sociale. Scuole, asili, ambulatori, centri per il cibo, piccoli club sportivi da Gaza alla Cisgiordania. Un aiuto fondamentale per migliaia di civili, abbandonati al loro destino dalla Autorità palestinese. Una distribuzione di risorse equa e non macchiata dalla corruzione. Ma al tempo stesso un bacino di raccolta di consensi, un polo d’attrazione, in altre parole la base per il reclutamento.
Il punto di crisi è stato raggiunto con il massacro di Gerusalemme (19 agosto, 20 vittime), quando l’imam di Hebron Raid Abed El Hamid ha smesso di predicare e ha indossato la cintura da kamikaze. E’ salito su un bus pieno di israeliani e si è fatto saltare. Una strage che ha mandato per aria la tregua temporanea, un attacco che ha trasformato l’intera gerarchia in un bersaglio.
La leadership di Hamas è rimasta quasi sorpresa dall’azione, ma non ne ha preso le distanze in modo chiaro. Perchè non poteva. Se avesse rinnegato l’attentatore suicida avrebbe svenduto il suo spirito di lotta. E dimenticato quanti hanno perso la vita per mano di Israele durante il cessate il fuoco. Con abilità e un tocco di ipocrisia, i dirigenti hanno fatto trapelare che: lo «shahid» venuto da Hebron ha agito su ordine di una cellula locale; il suo gesto era un atto individuale per vendicare l’uccisione da parte di Israele di un parente; l’organizzazione non gli ha tributato «onori ufficiali».
Al pari di altre formazioni, il movimento ha subìto, a causa dell’azione di Israele, una frammentazione delle sue linee: la struttura di comando resiste con difficoltà, all’interno emergono spinte autonome, spesso sollecitate da «ufficiali» che vivono all’estero. L’apparato terroristico, guidato da Mohammed Deif, sfuggito a tre tentativi di omicidio, obbedisce alla strategia del braccio politico, però mantiene rapporti sospetti con forze straniere (Hezbollah, Iran) che hanno agende e programmi diversi. L’idea stessa della hudna è stata accettata dagli uomini delle Brigate Ezzedine Al Kassam soltanto dopo lunghe trattative. Più costrizione che convinzione. Nelle riunioni la parola d’ordine era la seguente: «Dovete essere un livello operativo in grado di mandare un kamikaze nell’esatto momento in cui il cessate il fuoco crollerà».
Sfumature irrilevanti davanti alle decine di vittime, ma che sarebbe un errore trascurare. Si è sempre detto che Hamas è l’unica a saper «leggere» il termometro della situazione: lancia gli attacchi quando pensa di avere l’appoggio della popolazione, si ferma quando ritiene siano controproducenti. Questa volta invece i capetti di Hebron hanno commesso un errore in quanto l’attentato rischia di bruciare le ultime due carte rimaste in mano ai palestinesi. Quella di Abu Mazen: il premier, se non dimostra di controllare la situazione, se ne deve andare. Quella di Arafat: il presidente è a un passo dall’espulsione, «dovremmo decidere sulla sua sorte entro l’anno», ha ammonito ieri il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz. Senza contare che ogni atto di violenza si riverbera sulla faida in corso tra le sbrecciate pareti della Mukata, a Ramallah.
Non che Hamas abbia grande considerazione dei due, ma il movimento, pur senza rinunciare alle operazioni armate, ha sempre evitato lo scontro totale. Per non dover sacrificare la sua cassaforte. Potrebbe infatti ripetersi lo scenario degli anni ’90 quando, dopo una serie di attentati, Yasser Arafat decise di fermare l’apparato sociale e quindi il tesoro di Hamas. Allora contarono molte le pressioni internazionali.
Oggi il partito - affermano gli esperti - ha tre possibilità. Ripone i sacchi bomba e accetta di dare un’altra possibilità al dialogo. Riprende l’intifada andando incontro a un destino incerto. Oppure insiste nella «teoria del circolo» dove si presenta come attore politico senza rinunciare a scambiarsi colpi mortali con Israele.
Scelta quasi perfetta per far convivere negoziato e guerra.



Ora segue una breve intervista all'ambasciatore israeliano, Dore Gold: «Dahlan ha cominciato ad agire Ma ci vuole tempo per verificare», sempre di Guido Olimpio

L’ambasciatore israeliano Dore Gold è un esperto di gruppi islamici. Nell’intervista al Corriere Mohammed Dahlan ha descritto la sua strategia contro Hamas e ha ricordato l’importanza di congelare i fondi.
«Ha iniziato a fare qualcosa, però ci vuole tempo per comprendere i risultati. E’ un’area di intervento difficile da misurare».
Ma è una mossa sufficiente?
«Certamente è decisivo fermare il flusso di denaro che arriva in gran parte dall’Arabia Saudita. Però l’Autorità palestinese deve anche smantellare la struttura del terrore».
Si può distinguere in Hamas tra l’ala militare e quella politica?
«E’ una separazione artificiale. Loro organizzano, ad esempio, dei campi estivi e scuole che qualcuno in Europa definisce "attività sociali". Invece abbiamo dei ragazzi ai quali viene insegnato come condurre la Jihad, ad altri come prepararsi all’azione suicida. Inoltre molte delle società legate ad Hamas sono una copertura per il denaro destinato ai militanti».
Come mai l’Occidente sta assumendo una posizione più dura sui fondi di Hamas?
«Perché molti governi hanno capito che il sistema di finanziamento del gruppo palestinese è identico a quello usato da Al Qaeda».
Ed infine il reportage di Magdi Allam dal titolo: "Le nuove catacombe degli islamici convertiti"

Un viaggio nelle nuove catacombe d'Italia. Alla scoperta dei neocristiani del Terzo millennio. Incontri segnati dalla paura. Un incubo che si annida nell'animo e nella mente di chi era nato nella fede in Allah e nel messaggio rivelato dal profeta Mohammad, Maometto. Sono consapevoli che l'apostasia nell'islam non è un semplice sostantivo. Potrebbe trasformarsi in una condanna a morte. Eppure c'è chi ha deciso di infrangere le tenebre e sfidare il terrore. Come frate Antuan, un giovane turco che si è spinto ben oltre la conversione alla fede in Gesù Cristo. Presto diventerà il primo sacerdote cattolico di origine musulmana non soltanto nel nostro Paese, ma nella stessa Turchia. E c'è chi denuncia e lancia accorati appelli. Lo fa Nura, una signora maghrebina che invoca l'intervento della Chiesa cattolica e del governo italiano per far rispettare il diritto alla libertà religiosa dei musulmani convertiti. Ma c'è anche chi non si nasconde e vive l'adesione al cristianesimo con grande serenità. E' il caso di Bekim e Flutura, una coppia di albanesi che erano musulmani solo nominalmente.
Proprio dalle file degli albanesi, in Italia sono oltre centomila, proviene la maggioranza dei musulmani convertiti. Ma tra i neocristiani ci sono marocchini, tunisini, algerini, egiziani, bosniaci, zingari, nigeriani e somali. Non si sa bene quanti siano. Probabilmente alcune migliaia. Oltre al cattolicesimo, c'è chi è diventato Testimone di Geova o protestante.
Frate Antuan fa tenerezza. Veste un semplice saio marrone. Pizzetto curato. Sguardo mite e riflessivo. Ha subito vessazioni in patria ed è stato vittima di aggressioni verbali e fisiche in Italia. Ma lui non demorde. Ha un carattere tenace. Con un radicato senso della vita come missione: «Già all’università avevo cominciato a mettere in discussione la mia religione. Avevo scoperto che non mi soddisfacevano spiritualmente le cose che facevo, la preghiera, la lettura del Corano. Il Signore che desideravo così vicino a me, nell’islam lo scoprivo molto lontano. Padrone di ogni cosa, ma non un Dio che sta con noi. Piuttosto un Dio irraggiungibile». Sottolinea la serietà con cui affrontò la sua crisi interiore: «Ho voluto leggere il Corano in turco. Nel mio piccolo ho cominciato a scoprire alcune contraddizioni. Del tipo: in un passo si parla dell’amore e dell’elemosina per i poveri, in un altro si parla della guerra contro gli infedeli e del bottino. Non riuscivo a conciliare queste differenze».
Poi il destino che si compie: «Per caso, un giorno sono entrato in una chiesa cattolica a Mersin, nel sud della Turchia. Avevo finito l'università. La chiesa è retta da una comunità di religiosi cappuccini di Parma. Lì ho conosciuto il bibliotecario, padre Raimondo Bardelli, un anziano che a me è sembrato come Simeone del tempio di cui si parla nel Vangelo. Mi dava i libri da leggere. Poi con amorevole pazienza rispondeva alle mie domande. Per la mia conversione è stato importante vedere in questa persona la disponibilità, la pazienza, l’amore, il desiderio di annunciare agli altri la fede in Cristo».
Infine la svolta, la scelta di vita: «A un certo punto ho cominciato a frequentare la messa. All’inizio l’ho fatto per curiosità. Veniva celebrata in turco. Nella mia conversione è stato importante il fatto di capire le parole della preghiera rivolte a Dio. Seguivo la messa cristiana recitata in turco, ma non comprendevo la preghiera islamica pronunciata in arabo. L’islam è una religione che ho praticato nell’esteriorità. Questa è una delle ragioni per cui voglio tornare in Turchia quando diventerò sacerdote. Voglio celebrare la messa in turco, confessare in turco. La mia esperienza dimostra che in Turchia ci sono veramente molti ragazzi alla ricerca della verità. Questi ragazzi, se entrano in chiesa e parlano con un sacerdote, devono essere accolti da un sacerdote che conosca la lingua e la cultura turca. Così il loro cammino spirituale va avanti».
Nura è una donna colta, intraprendente e battagliera: «Noi musulmani convertiti al cristianesimo in Italia siamo in tanti. Tra noi lo sappiamo. Ma non ce lo diciamo. Tranne quando c’è un rapporto intimo. Ciò avviene più facilmente tra le donne sposate con gli italiani. Quando ci sono i figli delle coppie miste che hanno dei nomi cristiani, è facile intuire la conversione. Ci sono delle mamme formalmente musulmane che festeggiano il battesimo, la comunione e la cresima dei loro figli! Ma in pubblico diciamo che siamo atei. Questa è la strategia adottata all’unanimità: farsi passare per atei».
Nura vorrebbe emanciparsi dalle catene della paura e dell’ipocrisia. Lancia un vibrante appello: «Dobbiamo aprire le catacombe! Quando ci sarà la libertà di culto anche per noi, vedrete quanti ne usciranno fuori! Oggi non sussiste il diritto alla reciprocità. Perché il cristiano che diventa musulmano può manifestare tranquillamente la propria fede, addirittura si fa della pubblicità senza rischiare nulla, mentre il musulmano che diventa cristiano vive nella paura? Il cristiano che diventa musulmano è fiero. E’ come se si sentisse ben protetto alle spalle. Noi invece ci nascondiamo. Abbiamo paura. Io ho il terrore di entrare in chiesa. Scelgo una chiesa lontana dal quartiere dove abito. Sto molto attenta a non farmi vedere. Ma non rinuncio a andare in chiesa. Ci credo veramente. La prima volta che ho sentito una messa in arabo mi sono messa a piangere».
La sua denuncia è forte: «La Chiesa non ci dà un angolo per noi. Un angolo per i musulmani convertiti. La Chiesa dovrebbe chiedere ai governi musulmani di sottoscrivere il diritto di reciprocità anche sul piano della libertà di culto. Oggi siamo costretti a vivere nella schizofrenia. In caso di difficoltà sono costretta a dire che non sono cristiana. Se lo dichiarassi non potrei più tornare nel mio paese d’origine. Anche se ho acquisito la cittadinanza italiana, nel mio paese sono sottoposta alle leggi locali». Quindi la stoccata finale: «La Chiesa ci considera una sorta di tabù. Loro hanno i registri. Sanno bene quanti Abdallah e Khadija si sono convertiti in Pietro e Maria. Loro lo sanno. Perché non lo dicono? E’ giusto tutelare le persone. Ma potrebbero almeno dire che il fenomeno esiste, che riguarda molte, molte persone. Perché stanno zitti? Io denuncio il silenzio della Chiesa. Noi ci sentiamo abbandonati. Dopo la conversione non abbiamo nessuno che ci sostenga. Chiediamo aiuto alla Chiesa e all’Italia: proteggeteci! Difendeteci!».
Bekim è un regista teatrale. Flutura è un’attrice molto nota in Albania: «La nostra generazione è cresciuta senza fede, senza religione, senza Dio. Non sapevamo in che cosa credere. E non sappiamo che cosa eravamo prima, se cristiani o musulmani. Per questo motivo noi albanesi oggi abbiamo il privilegio di scegliere. Siccome adesso viviamo in Italia, stiamo conoscendo il cattolicesimo. Da tre anni siamo in contatto con i cattolici. Loro ci aiutano tanto. Forse la loro bontà, la loro carità ci hanno spinto a entrare nella religione cattolica».
La coppia albanese spiega così la scelta religiosa morbida, senza traumi: «Noi in realtà non siamo mai stati dei veri musulmani. Ecco perché oggi non ci sentiamo dei convertiti. Non riteniamo di aver abbandonato l’islam. Di fatto aderendo al cattolicesimo noi scegliamo per la prima volta la nostra fede. Ci battezzeremo la prossima Pasqua. Nostra figlia è già stata battezzata. Tante famiglie albanesi in Italia sono diventate cattoliche. Secondo noi il settanta per cento degli albanesi in Italia erano o sono diventati cristiani, ortodossi o cattolici. Non ci sono dubbi».
Al di là dei numeri alcune considerazioni si impongono. La nuova realtà dei neocristiani fa emergere la dialettica e la vitalità presenti in seno all’islam. Conferma ancor di più quanto sia infondato lo stereotipo che immagina i musulmani come una massa monolitica, oscurantista e immutabile. E poi chiama in causa il Vaticano e l’Italia. Ci sono fedeli cristiani e cittadini italiani che si sentono discriminati e temono per la loro vita nel nostro Paese a causa della loro conversione dall’islam. La condanna di apostasia li perseguita. Finora sono sopravvissuti nel buio come ombre fuggiasche. Ma ora hanno deciso di parlare. Rivendicano il diritto di vivere alla luce del sole.
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