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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.09.2003 Così la pensa Mohammed Dahlan
un'intervista interessante

Testata: Corriere della Sera
Data: 02 settembre 2003
Pagina: 5
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: ««Così io, palestinese, fermerò Hamas Se serve saprò dire di no ad Arafat»»
Un'intervista interessante esce oggi sul Corriere con Antonio Ferrari. Se sono solo buone intenzioni, sarà il futuro prossimo a dircelo.
Intanto sentiamo come la pensa il vice di Abu Abbas.

«Penso spesso a Martin Luther King e alla sua convinzione quando disse: "I have a dream", ho un sogno. Non voglio fare alcun paragone, perché parlo ovviamente a un livello più modesto, da servitore dell'Autorità nazionale palestinese. Però vorrei adattare quella frase alla nostra situazione. Personalmente, non ho sogni ma ho un piano d'azione. Quello di ridare una speranza a chi crede di averla perduta. Non con le emozioni: con la ragione. Non creare illusioni, insomma, ma convincere la gente con la verità, anche se spesso è amara».
Parole chiare, franche e inconsuete che riempiono l'ufficio, al quinto piano del ministero dell'Interno di Ramallah, dove siede Mohammed Dahlan, 42 anni, braccio destro del premier Abu Mazen e soprattutto ministro della Sicurezza palestinese, che Arafat sta cercando di emarginare. Sono le 19 e Dahlan è appena arrivato da Gaza, dove i razzi israeliani hanno raggiunto un altro esponente di Hamas. Gli occhi neri e penetranti del giovane leader decisionista scrutano il televisore, che diffonde le immagini della nuova «uccisione mirata». «Mi dica lei come possiamo combattere il terrorismo, se Israele continua ad ammazzare e a colpire anche gente innocente. Credono di estirpare la violenza? No, non fanno che aumentarla. Da una parte si rafforza Hamas, dall'altra si indebolisce l'Anp. Il parente, il fratello, il cugino di ogni ferito non vedrà l'ora di vendicarsi. So bene come si riproduce il meccanismo dell'odio, anche se io non so odiare, pur essendo nato nel campo profughi di Khan Younis. Capisce cosa voglio dire?» .
Capisco e mi domando come ha fatto a diventare uno dei leader palestinesi più moderati e pragmatici.
«Sono stato in prigione molte volte, sono stato torturato e alla fine mi hanno assolto perché ero innocente. Posso aver provato rabbia, rancore, ma ho capito che l'odio non sarebbe servito a nulla».
Però l’odio continua a trionfare. Come si può giustificare lo spaventoso attentato di Gerusalemme con 21 civili innocenti assassinati?
«Giustificarlo? Mai. E' stato un attentato esecrabile e scandaloso. Mi chiedo però come è maturato. Ad Aqaba le parti avevano assunto un impegno solenne per far partire la Road map. Ma Israele non ha rispettato gli impegni e cioè ritirare l'esercito, migliorare le condizioni di vita della gente, liberare i prigionieri. Ma lo sa che ci sono 3000 detenuti per reati amministrativi senza processo? Lo sa che nella sola Cisgiordania ci sono 161 check point, di cui 150 inutili? Pensa che costruire il muro, espropriando terra palestinese, possa aiutare?».
Ma allora che cosa si può fare per fermare Hamas e le altre organizzazioni estremiste?
«Io ho un piano per neutralizzare gli estremisti, senza uccidere e senza distruggere le case del palestinesi. Come funziona? Impedendo che si riforniscano di armi ed esplosivo, chiudendo quindi i tunnel al confine; congelando il denaro delle associazioni sospette, in modo che sia l'Autorità nazionale palestinese a distribuirlo, non altri; rafforzando la credibilità delle nostre istituzioni. Lo sa che, prima dell'attentato di Gerusalemme, il 72% della popolazione era d'accordo con l'Anp?».
Quindi lei sostiene che se il governo Sharon rispettasse quanto previsto dalla Road map, voi sareste in grado di isolare gli estremisti e debellare il terrorismo.
«Assolutamente sì».
Però voi, intendo il vertice dell'Anp, non state certo offrendo un'immagine di compattezza: Arafat contro Abu Mazen, il balletto delle nomine sulla sicurezza, la crisi di governo. Che cos'è se non una lotta di potere?
«La chiami come vuole: lotta di potere, differenti vedute, malintesi. Conosce la storia palestinese, quindi non dovrebbe stupirsi».
Ma stavolta ci sono due campi ben definiti, due idee che danno l'impressione d'essere diametralmente opposte.
«Che ci siano differenti idee può essere salutare. Meglio due, tre, dieci idee che una sola. Si immagini se vogliamo costruire la nostra democrazia con il pensiero unico... Dopo decenni di occupazione, ci mancherebbe altro».
Ma non tutti la pensano come lei. L'accusano persino d'essere uomo degli americani e degli israeliani.
«Accuse che non mi toccano. Io ho le mie idee, nelle quali credo fermamente, e non le cambio. Dico quel che penso alla gente, vado nelle case, nelle università, in tv, nei campi profughi e non intendo compiacere nessuno. Alla gente va spiegato con chiarezza che cosa facciamo e che cosa si può ottenere. Lo ripeto: io non credo negli slogan, nelle emozioni, ma nella ragione».
Dicono che lei sia uno dei pochissimi che sanno dire no ad Arafat.
«Certo, se non sono d'accordo, gli dico no. A volte diciamo persino di no a Dio. O no?».
In un articolo, pubblicato l'anno scorso sul «Guardian», lei scrisse: fino a quando Israele sarà contro Arafat, io sarò con Arafat, malgrado possa non essere d'accordo con alcune sue decisioni. La pensa così anche oggi?
«Sì, assolutamente. Arafat è il simbolo della causa palestinese, è il nostro presidente. Ne ho grande rispetto».
E allora mi dica: si ricomporrà il conflitto al vertice dell'Anp?
«Si, si ricomporrà».
Per sempre?
Il ministro, che non difetta di senso dell'umorismo, alza gli occhi al cielo e sorride. «Fino alla prossima crisi, fra una settimana, un mese, tre mesi, chi lo sa?».
La tregua verrà ripristinata, allora?
«Si, ma non come prima. E' necessario che ciascuno faccia seriamente la sua parte. Non si può combattere il terrorismo senza adeguate strutture. Io non dispongo di una caserma, a volte mi tocca affittare persino le automobili per il servizio. Non posso congelare i conti e poi sapere che altri, nel mondo arabo, in Europa, negli Usa, non fanno altrettanto».
Come giudica il primo ministro israeliano Sharon? Lo crede davvero intenzionato a lavorare per la pace?
«Sharon non ha alcun piano per la pace. Per la Road map non ha fatto nulla».
Ha fiducia nell'amministrazione Bush?
«L'atteggiamento del presidente Bush è positivo e incoraggiante. Sono arrivati Colin Powell e Condoleezza Rice. Impegno eccellente. Però non c'è ancora un meccanismo per uscire dalla crisi. E' giusto che ci vengano a dire "non avete fatto questo, dovete fare quello", ma devono dirlo anche a Israele».
I ministri degli Esteri dell'Ue si riuniranno fra pochi giorni a Riva del Garda, per discutere di Hamas: congelare i fondi e considerare fuorilegge anche il braccio politico dell'organizzazione. Che cosa si aspetta?
«Abbiamo un enorme rispetto dell'Ue, che è sempre stata vicina ai palestinesi. Ha aiutato l'Anp in ogni modo. Rispettosamente, non voglio interferire sulle decisioni che prenderà. Vorrei però chiedere al primo ministro Berlusconi, presidente di turno dell'Ue, di utilizzare la sua amicizia con Sharon per spingerlo a realizzare davvero gli impegni assunti con la Road map».
Signor Dahlan, crede davvero che nel 2005 ci sarà uno Stato palestinese?
«Nel 2005 no, è troppo presto. Però lo avremo. Israele non può fermare la storia. E la storia vuole il ritorno ai confini del 1967, prima della guerra. Ero un bambino, avevo 6 anni, ma di quei giorni ricordo tutto».
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