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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.07.2003 Intervistare un vecchio trombone
ma fare lo stesso un buon articolo

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 luglio 2003
Pagina: 11
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: «Israele prova a convivere con il "nemico". Un invito alla Knesset per i capi dell'Anp»
Intervistare Uri Avnery non è proprio il massimo della novità nè della credibilità. Povero Avnery, dopo una vita a lottare contro il sionismo, adesso ha il suo momento di celebrità. La pace con i palestinesi che lui avrebbe voluto pagandola con la sopravvivenza dello Stato ebraico, arriva forse lo stesso. Ad un prezzo diverso, per fortuna, da quello che lui avrebbe pagato. Ferrari lo intervista, ma forse non conosce la sua storia, o, se la conosce, preferisce non raccontarla.
Comunque la causa israeliana e le verità, sia storiche che presenti vincono sull'odio e sulle false notizie. Già dal titolo capiamo il tono positivo dell'articolo:

GERUSALEMME - Uri Avnery, scrittore pacifista e voce rumorosa della sinistra israeliana più ostinata, ha quasi 80 anni. Yasser Arafat, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ne ha 74. I due si conoscono da quasi un quarto di secolo. Avnery, all'inizio degli anni '80, ha scritto il libro My friend, the enemy (Il mio amico, il nemico), dedicato appunto ad Arafat, che ha sempre considerato lo scrittore non soltanto un «brother» (fratello), perché quasi tutti per lui sono «brothers», ma davvero «uno di famiglia». Qualche settimana fa si sono incontrati per l'ennesima volta nel bunker della Mukata, a Ramallah. Avnery ha chiesto: «Amico mio, ce la faremo tu ed io a vedere la pace?». E Arafat: «Sicuro. La vedremo durante la nostra vita».
«Allora bisogna fare in fretta - ha brontolato Avnery -, perché i miei anni stanno diventando troppi».
A una pace vera, ragionevolmente rapida e consolidata, in verità nessuno crede, né in Palestina, né in Israele. Gli ostacoli sono micidiali: l'attentato di lunedì notte, la rivolta politica degli oltranzisti del Fatah contro il premier moderato Abu Mazen, che di conseguenza ha deciso, «per ragioni interne», di cancellare l'incontro di oggi con Sharon, ne sono l'ennesima conferma.
Però, nonostante tutto, è forse la prima volta, dopo quasi tre anni, che timidi segnali di fumo, prodotti dalla buona volontà di entrambe le parti e dagli impegni assunti ad Aqaba (Giordania) con il presidente americano George W. Bush, sembrano convergenti e confortanti. Non soltanto perché il volume di violenza, dopo l'annunciata tregua di tre mesi, si è drasticamente ridotto. Ma perché, come rilevano i centri israeliani di monitoraggio, i mass media palestinesi hanno modificato il loro linguaggio. Al posto dell'infuocata retorica, che a volte nascondeva maldestramente e altre volte esibiva sfacciatamente l'incitamento all'odio, si è sovrapposta la volonterosa sottolineatura di quanto si sta compiendo per ricreare un clima di accettazione reciproca.
Le parole feriscono (e possono uccidere) più dei fucili e delle bombe, quindi il ridotto tasso di violenza verbale sta producendo interessanti effetti. Lo ha riconosciuto (titolone in prima pagina, sul conservatore Jerusalem Post ) il ministro degli Esteri Silvan Shalom, dopo l'incontro con il ministro dell'Informazione palestinese Nabil Amr. Domenica, i vertici delle forze armate israeliane hanno inviato ai reparti occupanti, che stazionano nelle città della Cisgiordania e a Gaza, un ordine di servizio con il quale si invita a rendere più agevole la vita dei palestinesi: niente provocazioni e maggior comprensione ai posti di blocco. Il ministro israeliano della Giustizia Yossi Lapid, leader del partito laico Shinui, ha poi osato ciò che nessuno aveva osato prima di lui: ha invitato alla Knesset il premier palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il ministro della Sicurezza Mohammed Dahlan. Probabilmente ha ragione il professor Mario Sznajder, docente di Scienze politiche all'Università ebraica di Gerusalemme, quando dice che fra i motivi del sanguinoso conflitto e dell'impossibilità di dialogare vi era anche un’«asimmetria di rappresentatività istituzionale» fra le due parti. Ora, l'Autorità nazionale palestinese mostra una struttura magari fragile, ma che si avvicina a quella del responsabile governo di un Paese.
Anche in Israele si respira aria nuova. Che penetra la società, le università, il mondo economico, la casta scientifica dell'hi-tech, e rimette in moto l'asfittica macchina del turismo. Il segnale più evidente lo offre il mercato dei cambi: lo shekel continua a guadagnare terreno non soltanto sul dollaro, ma sull'euro.
I bar del centro di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Haifa, di Beersheva sono tornati a riempirsi di giovani, che devono sottoporsi a un fuggevole controllo con il metal detector. Il traffico, soprattutto nelle giornate lavorative, è mostruoso. Roma e Milano, al confronto, sembrano metropoli tranquille e ordinate. La gente ha voglia di uscire. Magari dubita di potersi lasciare alle spalle gli anni della paura, ma riempie i polmoni di speranza, alimentata da televisioni, radio e quotidiani che ingigantiscono ogni piccolo passo compiuto e sminuiscono l'impatto degli sporadici episodi di violenza. Lunedì notte, l'esplosione in una casa di Moshav Kfar Yavetz, non lontano da Tel Aviv, provocata da un attentatore suicida (con tanto di rivendicazione di una frangia della Jihad) è stata presentata come un episodio misterioso.
Anche quando si è avuta la certezza che qualcuno aveva deliberatamente violato la tregua, il tono è rimasto basso. «L'apparenza, qui, conta più della realtà», mi dice Nahum Barnea, il celebre editorialista politico dello Yediot Aharonot.
E l'apparenza conferma che, istintivamente, c'è un'irrefrenabile voglia di ottimismo. Il primo ministro Ariel Sharon è ben saldo e sempre molto popolare. Per la semplice ragione che, comunque vadano le cose, ha poco da perdere: se si arriva alla pace, può rivendicarne il merito, se la hudna (tregua) non regge, e ritorna la violenza, è pronto a tornare ai comandi della macchina militare. La decisione di procedere alla liberazione di 350 prigionieri palestinesi, come spiega Barnea, «è un passo coraggioso e impopolare perché sfida gli umori dell'opinione pubblica».
Numerosi personaggi, scarcerati in passato, erano infatti tornati a fare ciò che facevano prima. Persino l'annuncio dello «smantellamento degli avamposti non autorizzati», cioè frammenti non rilevanti della rete di insediamenti ebraici in territorio palestinese, è stato un passo difficile. In pratica, ne sono stati smantellati (a metà) ben pochi, ma già l'annuncio equivale a un doppio segnale: ai palestinesi, ma soprattutto agli israeliani. Come dire: «Attenzione, queste sono le mie intenzioni».
La domanda più inquietante che molti israeliani si pongono è che cosa succederà se i palestinesi non saranno in grado di rispettare gli impegni sottoscritti (soprattutto sulle garanzie di sicurezza) al 100%, ma si fermeranno, come probabile, all'80, al 70 o al 60%. La trappola è evidente: se si accetta, come dice Barnea, «un risultato più modesto, i palestinesi potrebbero pensare di puntare al ribasso su tutto; se lo si respinge, si rischia di accendere la terza intifada, o di rompere la tregua e continuare con la seconda, che per ora è stata soltanto sospesa».
Sono queste le incognite di una fase delicatissima. Alcuni, in Israele, sostengono di aver vinto. Ma secondo un sondaggio, il 73% della popolazione è convinta del contrario. Tuttavia, fantasticare su chi ha vinto e chi ha perso è un esercizio infantile, perché questa guerra può essere vinta soltanto dalla ragionevolezza e dalla consapevolezza che un giorno si dovrà vivere in pace, l'uno accanto all'altro.
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