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La Repubblica Rassegna Stampa
30.04.2023 Schwa, tutto da ridere
Commento di Maria Cristina Carratù

Testata: La Repubblica
Data: 30 aprile 2023
Pagina: 27
Autore: Maria Cristina Carratù
Titolo: «Il neopresidente della Crusca: “Attenzione al troppo inglese. Il plurale è meglio dello schwa”»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 30/04/2023, a pag.27 con il titolo  "Il neopresidente della Crusca: “Attenzione al troppo inglese. Il plurale è meglio dello schwa” ", l'analisi di Maria Cristina Carratù.

Lo schwa? Una toppa peggiore del buco

La lingua italiana è un patrimonio da salvaguardare, ma anche da far vivere nel crogiolo delle nuove sensibilità. Senza fughe in avanti ideologiche («come nel caso dello schwa, che cambia la struttura della lingua, crea un suono che non esiste, mette in difficoltà i dislessici, è un gioco che non vale la candela»), ma con grande attenzione alle esigenze “evolutive” del parlato. È una sfida impegnativa quella che attende Paolo D’Achille, classe 1955, romano, successore di Claudio Marazzini come nuovo presidente dell’Accademia della Crusca. Accademico ordinario dal settembre 2013, vicepresidente dal giugno 2022, dal 2015 responsabile del servizio di consulenza linguistica dell’Accademia e direttore del periodico La Crusca per voi,D’Achille è storico della lingua italiana, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università Roma Tre e insomma un esperto di altissimo rango della lingua nostrana, mai come oggi bistrattata e incompresa. Il suo titolo accademico è “integrale”, ispirato al tradizionale immaginario dei “cruscanti”, ma anche indizio di un programma di politica linguistica. «È un termine provocatorio», spiega.Se il motto della Crusca — “il più bel fior ne coglie” — «è metafora della purezza della lingua, “integrale” rimanda a criteri più aperti». Sulla lingua, come è ovvio, pesano cambiamenti epocali — rivoluzione digitale, avvento dei social, predominanza dell’infosfera nellavita collettiva e individuale. Con quali conseguenze si può intuirlo, facendo un passo indietro: «Il problema dell’italiano», dice D’Achille, «è che rispetto ad altre lingue europee è diventata molto tardi la lingua di un paese politicamente unitario». Collante della spinta culturale all’unificazione in quanto lingua scritta, a base prevalentemente letteraria, «solo in seguito è diventato la vera madrelingua di tutti gli italiani, sia pure con persistenti differenze regionali », legate ai dialetti. Un processo inizialmente favorito soprattutto dall’obbligo scolastico e, in seguito, anche dai primi media, cinema, radio, tv. Il ritardo di acquisizione, però, è rimasto «e, più che appresa e parlata naturalmente, la lingua nazionale si è imposta, anche in seguito, attraverso una scuola prescrittiva, ancorata ai soli modelli letterari e vincolata a una grammatica con troppe regole, ostile al parlato dialettale e, specie durante il fascismo, alle lingue straniere e delle minoranze». Il mondo, intanto, correva e in un attimo, sotto la spinta del linguaggio industriale, poi dei grandi media, della globalizzazione, della diffusione dell’inglese come lingua internazionale, scientifica, finanziaria, fino all’arrivo dei computer e della comunicazione digitale e al contatto ravvicinato con altre culture, «il modello letterario italiano ha rivelato tutta la sua scollatura dalla lingua parlata, e quella parlata la fragilità della sua struttura». Così, la sfida adesso è duplice, dice D’Achille: da un lato «rafforzare il più possibile l’italiano anche a livello parlato, studiandolo per comprenderlo e amarlo»; dall’altro «seguirne l’evoluzione». L’unico modo, fra l’altro, per scansare impropri ricorsi all’inglese senza dover ricorrere alle multe, come minaccia il governo Meloni. La Crusca, in questo processo, sta facendo la sua parte, con i corsi per insegnanti, le convenzioni con i ministeri per rivedere l’incomprensibile italiano della burocrazia, le “correzioni” pubbliche dei termini “deragliati” dal loro senso, o degli anglismi («perché dire lockdown se esiste la parola confinamento? E hotspot se si può dire centro di identificazione? »). Ma anche «accogliendo le novità, suggerendo e non prescrivendo i percorsi possibili di una comunicazione migliore, per l’oggi». E perciò, per esempio, sostenendo l’introduzione di nuovi termini di genere, ma «scansando il surplus di ideologia di certi dibattiti », come quello sullo schwa ma non solo, perché «se è giusto specificare, in una domanda di concorso, “il” candidato e “la” candidata, perché considerare sessista il plurale inclusivo “candidati”? E se è bene dire “la” presidente, perché dire per forza “presidentessa”, visto che presidente deriva da un participio presente?». Ben sapendo che in gioco, attraverso l’uso efficace della lingua madre, c’è nientemeno che l’esercizio pieno della democrazia. Giusto accogliere le novità. Ma perché dire “lockdown” se abbiamo la parola “confinamento”?

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