Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Una buona informazione dal Secolo XIX Una cronaca precisa ed esauriente del conflitto Arafat-Abu Mazen
Testata:Il Secolo Autore: Stefano Cingolani Titolo: «Scontro con Abu Mazen Il no di Arafat al nuovo porta alla catastrofe»
Riportiamo un articolo di Stefano Cingolani pubblicato su Il SecoloXIX mercoledì 23 aprile 2003. Spazientito, ormai sull'orlo di una crisi di nervi, ha cominciato a gridare, poi Yasser Arafat ha sbattuto il telefono in faccia a Miguel Moratinos. L'inviato speciale dell'Unione europea per il Medio Oriente si era aggiunto a una lunga lista di personalità che lo hanno chiamato, a ritmo forsennato, per chiedergli di non far fallire Mahud Ammas (detto Abu Mazen) nel tentativo di formare il primo vero governo palestinese. Lo hanno pregato, supplicato, persino, titillando la vanità del Vecchio, come lo chiamano, appellativo che ha sostituito il nome di battaglia Abu Ammar. In fondo, quelle telefonate, da Joschka Fischer, José Maria Aznar, Tony Blair, dal Dipartimento di Stato americano, confermano che il capo è e sarà sempre lui. In Palestina non si muove foglia che Arafat non voglia. Ma ben presto l’autocompiacimento ha lasciato il posto all’ira. Tutti gli impongono una soluzione che lui non ama, tutti lo vogliono, alla fine, liquidare. A cominciare proprio da Abu Mazen, il suo vecchio amico e compagno di battaglie, uno del nucleo duro di Al Fatah. Paranoia o isolamento vero? Dietro lo scontro al vertice dell’Autorità nazionale palestinese c’è l’oscuro autunno del patriarca abbarbicato al suo ruolo, alla sua immagine, al suo delirio di onnipotenza? Anche. Ma non soltanto. Il braccio di ferro sul governo palestinese è lo scontro sulla nuova intifada, sulla rinuncia al terrorismo e sulla riapertura del processo di pace. Pomo della discordia, non a caso, è Mohamed Dahlan, ex capo della sicurezza a Gaza che Abu Mazen vuol nominare Ministro degli Interni. Dahlan non è certo una colomba, ma è l’uomo che più spinge per rompere gli ambigui legami con Hamas, la Jihad islamica e gli estremisti palestinesi. Soprattutto è il poliziotto che dovrebbe smantellare la brigata dei martiri di Al Aqsa, il gruppo paramilitare espressione di Al Fatah, responsabile di numerosi attentati terroristici in Israele. Arafat non vuole Dahlan, quindi non vuole la svolta antiterroristica che il primo ministro intende imprimere, come ramoscello d’ulivo da offrire al governo israeliano. Nella notte si è riunito a Ramallah il vertice di Al Fatah per cercare un compromesso in extremis. Secondo una fonte a lui vicina, Abu Mazen è pronto a gettare la spugna e ha scritto la lettera di dimissioni. Non se la sente di andare avanti senza il sostegno del Vecchio, ma soprattutto sa che la sua sorte sarebbe comunque segnata. Nonostante i tentativi e i passi avanti, infatti, la società palestinese non è affatto democratica e tanto meno l’Anp. Eppure, l’anziano leader ha dato molte volte prova di realismo e duttilità. Perché, immerso nel suo cupio dissolvi, questa volta non capisce che sta portando se stesso, l’organizzazione che ha creato, il suo popolo, verso una catastrofe storica? A 73 anni, malato, bizzoso, reso tremulo dal morbo di Parkinson, ha perduto il senso della storia e, soprattutto, dei rapporti di forza. La vittoria sull’Iraq, e la linea dell’amministrazione americana, non offre sponde a quel gioco del gatto con il topo nel quale Arafat eccelle. Gli Usa sono pronti a bombardare le basi degli Hezbollah nel sud del Libano, non solo per aiutare Israele, ma come prossima tappa della guerra al terrorismo. George W. Bush non si ferma a Baghdad. La pressione sulla Siria non è una schermaglia minore. L’obiettivo è spingere Damasco a rompere con il partito Hezbollah, terminare i giri di valzer con l’Iran, allentare la morsa sul Libano, fino a giungere al ritiro, in modo da creare a nord un cuscinetto di sicurezza per Israele. È il prossimo passo nella costruzione di un "nuovo ordine" nel Medio Oriente, obiettivo che la Casa Bianca vuol raggiungere possibilmente prima di impegnarsi fino in fondo nella sua rielezione. Nulla e nessuno, dunque, potrà puntellare Arafat. Tanto più se non molla i rapporti con il terrorismo palestinese. Altro che padre della patria, l’ostinazione del Vecchio può segnare la sua fine. E nei libri di storia sarà ricordato come colui che combatté una vita per lo Stato palestinese, e poi fece di tutto per farlo fallire.
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