Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Afghanistan e Ucraina, i trattati con Mosca Analisi di Micol Flammini, Lorenzo Vidino, Daniele Raineri
Testata:La Repubblica - Il Foglio Autore: Micol Flammini - Lorenzo Vidino - Daniele Raineri Titolo: «Accordi messinscena - Al Qaeda a caccia del successore per non dare segni di debolezza - Quel balcone al sole protetto dai talebani ma il regime è diviso»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 03/08/2022, a pag. 1, con il titolo "Accordi messinscena", il commento di Micol Flammini; da REPUBBLICA, a pag. 14, con il titolo "Al Qaeda a caccia del successore per non dare segni di debolezza", l'analisi di Lorenzo Vidino; a pag. 15, con il titolo "Quel balcone al sole protetto dai talebani ma il regime è diviso", la cronaca di Daniele Raineri.
Ecco gli articoli:
Micol Flammini: "Accordi messinscena"
Micol Flammini
Roma. Ayman al Zawahiri, il capo di al Qaida ucciso da un drone americano a Kabul, nel momento dell’attacco, secondo indiscrezioni, era in compagnia del figlio e del genero di Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno dell’Afghanistan. La casa in cui Zawahiri viveva in Afghanistan era del ministro. Non ci sono state ancora conferme sulla presenza dei due Haqqani, membri di una rete di estremisti che in Afghanistan ha fatto da cerniera fra i talebani e al Qaida, ma il solo fatto che Zawahiri fosse a Kabul indica che un legame tra il regime afghano e al Qaida c’è. Nel 2020 i talebani firmarono con l'Amministrazione Trump gli accordi di Doha che prevedevano il ritiro dei soldati americani dal paese. Negli accordi c’è anche una clausola antiterrorismo alla quale i talebani, in cerca di una legittimazione davanti alla comunità internazionale, hanno fatto più volte appello, e che prevede la rottura con le organizzazioni terroristiche. Non che prima della morte di Zawahiri ci fossero americani disposti a credere che i nuovi uomini di Kabul le avrebbero rispettate, ma ora potrebbero esserci le prove di questa connivenza. Washington ha trattato gli accordi come se fossero veri, ma sono stati una messinscena dalle conseguenze devastanti che ha portato al tracollo dell’Afghanistan. All’inizio delle grandi crisi internazionali ci sono spesso patti deboli, che sembrano scritti per non essere rispettati. Gli Stati Uniti sottoscrissero gli accordi di Doha per legittimare il ritiro dall’Afghanistan, i talebani li firmarono proprio perché erano sufficientemente vaghi da poter essere infranti. Prima del 24 febbraio, data in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, si invocavano come argine agli scontri tra Mosca e Kyiv gli accordi di Minsk, un patto firmato dai rappresentanti di Russia, Ucraina, Osce e i leader delle due repubbliche di Donetsk e Luhansk che si erano proclamate indipendenti. Francia, Germania, Russia e Ucraina firmarono una dichiarazione di sostegno agli accordi. Minsk II prevedeva il ritiro delle formazioni di combattenti stranieri – nel Donbas erano già arrivati gli omini verdi, i mercenari della Wagner, e le armi di Mosca – ma la Russia ha continuato a dire di non essere impegnata nel conflitto. Prevedeva il cessate il fuoco, mai rispettato. Prevedeva anche il ritiro dei soldati dalla zona demilitarizzata che faceva da confine tra l’Ucraina e i separatisti, ma anche questo punto non è stato rispettato. Su Minsk gli occidentali avevano chiuso un occhio, sapendo che non era un accordo perfetto, ma nella speranza che la situazione non esplodesse e convincendosi di aver fatto qualcosa per evitare il peggio. Russia e Ucraina negli anni e per ragioni diverse hanno trovato sempre il modo di appigliarsi ai dettagli e accusarsi a vicenda del mancato rispetto degli accordi. Minsk II piaceva a Mosca perché vago e la vaghezza ha portato alla guerra. Lunedì a New York è iniziata la conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha detto che se negli ultimi anni non c’è stata una guerra nucleare è soltanto per una questione di fortuna, ma che la fortuna non è una strategia né uno scudo. Perciò bisogna ricominciare ad accordarsi e fare in modo che questa volta non si sgarri: gli accordi devono essere rispettati da tutti. Straordinariamente sulle parole di Guterres erano d’accordo sia gli occidentali sia i russi e anche Vladimir Putin, che per l’evento ha mandato un appello, ha detto che nessuno potrebbe vincere una guerra nucleare. Il presidente americano Joe Biden ha rilasciato una dichiarazione in cui ha esortato il Cremlino a negoziare un nuovo accordo, un nuovo quadro di controllo sugli armamenti quando nel 2026 scadrà il New Start e ha anche invitato la Cina a unirsi. Mosca si è mostrata interessata a un nuovo accordo, nonostante ogni giorno, da quando ha invaso l’Ucraina, minacci l’inizio di una guerra nucleare, e ha iniziato a tirare fuori i suoi cavilli, dicendo che oggi un patto sul nucleare è più difficile rispetto alla Guerra fredda, perché è il raggiungimento della pace a essere più complicato. A minare la pace è stata la Russia, che ieri ha attaccato altre città dell’Ucraina, centri abitati, palazzi, scuole. Da quando è scoppiata la guerra, Mosca ha siglato un accordo per sbloccare il grano fermo nei porti ucraini e il giorno dopo ha attaccato il porto di Odessa facendo leva sulle garanzie vaghe di sicurezza contenute nel patto firmato a Istanbul. Qualsiasi nuovo trattato stretto con la Russia – o l’Afghanistan che da poco ha anche mandato un incaricato d’affari talebano a Mosca: i rapporti diplomatici sono ora ufficiali – per garantire la pace in Ucraina o la non proliferazione degli armamenti dovrà essere granitico e non una messinscena, le cui conseguenze sono sempre devastanti.
Lorenzo Vidino: "Al Qaeda a caccia del successore per non dare segni di debolezza"
Lorenzo Vidino
Con la morte di Ayman Al Zawahiri si chiude una fase storica del jihadismo globale e si aprono vari quesiti. Il primo riguarda il futuro di Al Qaeda, organizzazione della quale Zawahiri è stato leader dalla morte di Bin Laden nel 2011. Al Qaeda vorrà annunciare un nuovo emiro presto, per dimostrare di essere capace di riprendersi dal colpo subito — come dopo la morte di Bin Laden — i social legati al mondo qaedista, preoccupati dallo smacco di immagine, ripetono il messaggio che la morte di un leader, per quanto importante, poco cambia e che ciò che conta è la fede nella jihad. I due candidati principali sono Saif al Adl e Abdulrahman al Maghribi. Al Adl, egiziano, è un veterano di Al Qaeda, attivo nell’ala militare dell’organizzazione dagli anni ’90. Al Maghrebi, marocchino, ha gestito Al Sahab, l’organo mediatico di Al Qaeda, ed è sposato con una figlia di Zawahiri. È da notare che sia al Adl che al Maghrebi negli ultimi anni hanno vissuto in Iran. Rapporto complesso quello tra Al Qaeda, portabandiera del fondamentalismo sunnita, e il regime dei mullah sciita che ha causato forti tensioni tra Tehran e Washington. Alternative a questi candidati “interni” vengono dai leader delle varie affiliazioni di Al Qaeda sparse per il mondo. Dalla morte di Bin Laden, infatti, anche (ma non solo) per via di una leadership debole da parte di Zawahiri, il nucleo centrale di Al Qaeda ha perso molto potere e prestigio, mentre alcuni dei suoi franchise — formazioni jihadiste locali che hanno giurato fedeltà ad al Qaeda — godono di migliore salute. Sarebbe un cambiamento strategico importante se, per esempio, il comando dell’intera organizzazione venisse assunta dai leader di formazioni legate ad Al Qaeda in Africa, continente che da qualche anno sta sostituendo il Medioriente come baricentro del jihadismo globale. Spiccano in tal senso come potenziali outsider gli emiri di al Shabaab in Somalia e Nusrat al-Islam in Mali. Possibile candidato è anche Abu Abd al-Karim al Masri, egiziano e leader di Hurras al Din, affiliata siriana di Al Qaeda. Sono tutte solo ipotesi, ma è certo che nessun candidato ha la statura di chi, come Zawahiri, ha scritto la storia del jihadismo. Non il migliore degli oratori, non certo una figura iconica come Bin Laden, ma Zawahiri ha saputo comunque gestire Al Qaeda durante un periodo in cui il movimento jihadista globale si è sgretolato in varie fazioni spesso in lotta tra loro. In uno dei suoi ultimi messaggi pubblici, solo qualche settimana fa, Zawahiri aveva censurato la corruzione che aveva infiltrato il movimento, parlando di «lupi nei panni di leader tra i nostri ranghi». Il santuario che, dall’agosto scorso, i talebani avevano fornito ad Al Qaeda aveva consentito all’organizzazione di rifiatare, rendendo Zawahiri stesso troppo certo della propria sicurezza personale, errore che gli è stato fatale. Ma, in generale, la parabola di Al Qaeda è da anni discendente. Ciò non toglie che, per quanto indebolita, abbia ancora un sistema decisorio interno che in queste ore sarà già al lavoro per trovare un nuovo leader che possa rilanciarla. È però chiaro che chiunque sarà il leader dovrà affrontare seri problemi: una primazia del movimento globale largamente persa nella rivalità con lo Stato Islamico, la mancanza di successi importanti (leggasi, nel mondo del terrorismo: attacchi e controllo di territorio) negli ultimi dieci anni, un brand deteriorato.
Daniele Raineri: "Quel balcone al sole protetto dai talebani ma il regime è diviso"