La crisi sociale dell’Iran e le prospettive politiche del Medio Oriente 
Analisi di Antonio Donno
La protesta sociale in Iran è esplosa, ma non mette in difficoltà  il regime. La repressione è e sarà durissima, come nel passato,  soprattutto quella in occasione delle proteste del 2019, e la gente  tornerà a seppellire i propri morti e a continuare a morire di fame e di  sete. Il problema cruciale per il popolo iraniano in rivolta è  l’assenza di un’opposizione organizzata. Finché ciò non avverrà, seppur  in forma clandestina, i morti si aggiungeranno ai morti, l’odio verso il  regime crescerà, ma nulla ne scaturirà sul piano politico. Occorre che  l’organizzazione di un’opposizione vera sia prodotta da un fattore  esterno, da gruppi di persone che clandestinamente si infiltrino  all’interno dei settori popolari più propensi alla lotta contro il  regime e lì organizzino attentati e distruzioni mirate a mettere in  crisi il controllo sociale degli ayatollah. Non è facile individuare  questo fattore esterno, ma solo Israele può compiere questo lavoro con  efficacia, come ha fatto nel passato, ma questa volta in modo più esteso  nel tessuto sociale iraniano. 
La ripresa degli incontri negoziali a Vienna non lascia alcuna  speranza di un esito positivo, se non per lo stesso regime di Teheran.  La sospensione di mesi nel programma degli incontri è stato voluto dal  potere iraniano per dare la possibilità al nuovo presidente Raisi di  reimpostare il proprio governo secondo linee di rigidità diplomatica e  di negazione di concessioni significative sul tema del nucleare  iraniano. Tutto sta a indicare che Raisi e i suoi rifiuteranno di  tornare al vecchio schema del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa)  del 2015 – già da quella data utilizzato astutamente dagli iraniani per  incrementare lo sviluppo del proprio piano di arricchimento  dell’uranio, impedendo ai rappresentanti dell’Agenzia internazionale per  l'energia atomica (Aiea) di introdursi nei laboratori della fase finale  del programma – negando esplicitamente che nell’eventuale testo finale  del negoziato sia presente qualsivoglia forma di controllo esterno. Il  che impedirebbe alla controparte americana (e di altre nazioni) di  accettare un diktat di questo tipo. Intanto, in questi mesi di  sospensione dei negoziati, il nuovo regime di Raisi ha rafforzato la  propria presenza in Iraq, dove le elezioni non hanno prodotto alcuna  rilevante novità politica, e ha rinforzato le capacità belliche dei  terroristi di Hamas e delle formazioni degli Hezbollah presenti in vari  punti nevralgici del Medio Oriente, anche se con nomi diversi. Insomma, i  negoziati di Vienna potranno concludersi con un nulla di fatto,  lasciando a Teheran campo libero sul nucleare e sulla presenza attiva  dei suoi scherani delle formazioni terroristiche nella regione. 
Il governo democratico di Joe Biden è in difficoltà su questo  spinosissimo problema. Il nuovo governo intendeva sganciarsi dal Medio  Oriente al fine di privilegiare le questioni politico-strategiche  dell’Indo-Pacifico, ma la situazione della regione mediorientale e la  questione dei negoziati di Vienna “costringono” Washington a non  assentarsi dalle problematiche del posto. Del resto, era più che  evidente che gli Stati Uniti non potessero rinunciare a fare la propria  parte nell’area, dove Russia e Cina tendono a sviluppare un’intesa  politico-economica con l’Iran. Biden e i suoi hanno sbagliato nel  ritenere il Medio Oriente un problema secondario rispetto agli altri  dello scenario internazionale. A meno che Washington non ceda alle  richieste di Teheran a Vienna, l’eventuale fallimento dei negoziati non  produrrà altro che un inasprimento della situazione nella regione. 
Israele è solo. Per quanto gli Accordi di Abramo siano una realtà  politica di somma importanza, la vittoria dell’Iran a Vienna, in  qualunque modo essa si espliciti, sarà un punto di ripartenza della  politica egemonica dell’Iran nella regione, con la conseguenza che i  nemici di Israele riprenderanno fiato nella loro lotta contro lo Stato  ebraico. Se Abu Mazen dovesse sparire dalla scena palestinese, cosa più  che probabile in tempi non lontani, l’Iran entrerebbe – lo è già in  parte – a gestire, di modo e di fatto, la questione palestinese, il che  aggraverebbe di molto la situazione di Israele nei confronti del  movimento palestinese, con esiti gravissimi per l’intero scenario  mediorientale. Il terrorismo filo-iraniano di Hamas e Hezbollah si  coniugherebbe, rivitalizzandolo, con il vecchio progetto dei palestinesi  della West Bank di puntare finalmente ad una guerra di distruzione di  Israele. A questo punto, gli Stati Uniti sarebbero costretti a ritornare  sulla scena politica del Medio Oriente. Sarebbe più opportuno che ciò  avvenisse prima dell’irreparabile.