La famiglia di Piazza Stamira 
Marco Cavallarin 
Affinità elettive					euro 17 
 
 
Negli ultimi anni ho avuto il privilegio di accostarmi alle vicende  di famiglie ebree che figli, nipoti o altri discendenti hanno voluto  condividere con un pubblico più vasto di lettori per conservare e  tramandare la memoria di anni drammatici che hanno visto gli ebrei  perseguitati dalle leggi razziali, sterminati nei campi di  concentramento nazisti, arruolati nella Resistenza, oppure, i più  intraprendenti , emigrati in Israele, attraverso testimonianze che,  senza pretese di veridicità storica, hanno arricchito la ricerca degli  studiosi contemporanei. In questo solco si inserisce il libro di Marco  Cavallarin, studioso di ebraismo e colonialismo italiano, documentarista  e autore di numerose pubblicazioni, in questi giorni in libreria per la  casa editrice Affinità elettive con il titolo “La famiglia di Piazza  Stamira”. E’ la storia di una famiglia ebraica anconetana nei fatti del  Novecento, come recita il sottotitolo, quella che ci racconta l’autore  che ha sposato una discendente di quella famiglia, Patrizia Ottolenghi. 
In questo suo ultimo lavoro Marco Cavallarin “cede” la parola ai  componenti la famiglia Sacerdoti e Almagià ciascuno dei quali racconta  la propria memoria, a modo suo, senza che ricerche storiografiche o  archiviste specifiche prevarichino nella scrittura. Le lettere, le  cartoline, i biglietti che negli anni hanno tenuto unita la famiglia  arricchiscono, pagina dopo pagina, la narrazione che si avvale comunque  di un magistrale coordinamento dell’autore con frequenti flashback e non  poche anticipazioni narrative. La storia che vede protagonisti Sara,  Enzo, Vittorio Emanuele e Cesarina Sacerdoti prende avvio nei primi anni  del 1900 in un palazzo di Ancona di Piazza Stamira: una famiglia  irrequieta i Sacerdoti dove i figli nascono nel giro di otto anni in  città diverse, Ancona, Ferrara, Roma e Modena fino al definitivo  consolidamento in Ancona. Dei genitori, Rodolfo e Celeste, è la madre,  donna sportiva e appassionata di arte e musica, a occuparsi della loro  formazione culturale. 
Nelle prime pagine incontriamo i protagonisti che sembrano usciti  da un romanzo. Sara, la primogenita, radiosa e accogliente si  trasferisce in Israele per seguire l’amato Nello di cui condivide,  seppur in modo contradditorio, l’ideale sionista. La vita in Palestina  non è facile quando i giovani vi arrivano nella primavera del 1939: il  clima troppo torrido per chi giunge dall’Italia, la scelta difficile di  andare a vivere in Kibbutz, l’ostilità araba, il terrorismo della destra  ebraica avrebbero potuto fiaccare uno spirito meno determinato ma Nello  è convinto che “Siamo venuti alla terra d’Israele per costruire ed  essere costruiti, Eretz Israel deve essere qualcosa di più di una  semplice sede nazionale”. Enzo, uno “scavezzacollo”, pieno di energia e  vitalità, appassionato della montagna è la guida e il riferimento della  famiglia anche nei momenti più complessi: “come quando il pericolo della  persecuzione antiebraica era al massimo”, oppure quando da partigiano  cercava rifugi sicuri per i genitori. In particolare, nel capitolo  dedicato alla “Resistenza” Enzo ci dà contezza delle azioni di disturbo  messe in campo dal gruppo di partigiani di cui fa parte per contrastare  le violenze dei fascisti e dei nazisti, come aver fatto saltare il ponte  sul Nera in Valnerina e aver partecipato alla liberazione di Camerino.  Tuttavia, il racconto di Enzo è scarno e il suo sguardo si rivolge al  passato per brevi accenni o pochi aneddoti. Vittorio, principale voce  narrante di questo percorso di memorie, colto, esploratore di vie  alpinistiche, si laurea in medicina in tempi difficili e per il suo  carattere generoso è amato e rispettato dai pazienti. Con l’inizio delle  persecuzioni razziali si rifugia sotto falso nome all’Ospedale  Fatebenefratelli di Roma dove svolge la professione con dedizione e  benchè risulti barelliere si prende cura dei malati come medico a tempo  pieno. Intense sono le pagine in cui Vittorio racconta del  rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre e di come si sia  prodigato con l’aiuto del professor Borromeo – cui verrà conferito il  titolo di Giusto fra le Nazioni – per nascondere gli ebrei che cercavano  protezione nell’ospedale. Per evitare i sospetti delle autorità  tedesche Borromeo ebbe addirittura l’idea di inventare una epidemia  estremamente contagiosa che costringeva i malati alla quarantena. 
L’ultima della famiglia Sacerdoti è Cesarina nata a Modena nel  1917, suocera dell’autore, “quasi madre”. “Forse la più fragile e  introversa dei quattro fratelli“ scrive Cavallarin. Come gli altri però  riesce a trovare anche nei momenti più drammatici la capacità di  sorridere e di guardare alla vita con un pizzico di umorismo. Non  lamentarsi, cercare la soluzione migliore, adattarsi, ricominciare,  andare avanti sono sempre stati i punti di forza che hanno permesso a  tanti ebrei di sopravvivere anche al nazi-fascismo. La “voce” di  Cesarina si inserisce nel racconto fra quelle di Vittorio, di Enzo o di  Sara e apprendiamo della sua ribellione alle regole assurde imposte  dalle leggi razziali all’Università dove si era iscritta a lettere, del  suo matrimonio con Elio Ottolenghi nel settembre 1942, celebrato in  fretta e in un clima di paura perché davanti alla sinagoga erano apparse  scritte antisemite, dei bombardamenti su Milano e della conseguente  decisione di sfollare sistemandosi sul lago Maggiore a Arizzano. Dopo i  rastrellamenti a Bevano, ad Arona e gli eccidi di metà settembre 1943 a  Stresa e Meina, a due passi da Arizzano, Cesarina e Elio si organizzano  per passare in Svizzera anche se poi per vari motivi decidono di  rinunciare a quel progetto. “Noi siamo rimasti lì. Come abbiamo fatto a  salvarci? Come mai nessuno ha fatto la spia?” A volte anche la fortuna  si insinua nel destino delle persone. Fortuna che non ha assistito  invece gli zii Evelina e Edoardo Bigiavi: rifugiati nel pisano a  Montevaso furono traditi da un delatore, deportati a Fossoli partirono,  insieme ad altri ebrei bolognesi che si erano rifugiati in quel paesino,  con il trasporto del 16 maggio 1944 da Carpi per Auschwitz. 
La gioia per la Liberazione non può nascondere il dolore per chi è  rimasto vittima delle persecuzioni nazi-fasciste, per le umiliazioni e  le vessazioni subite e anche se il desiderio di ricostruire le proprie  vite accende gli animi di una forza e di una determinazione nuove  Vittorio ci ricorda che: “Noi usciamo da un’esperienza molto amara,  molto triste, nera. L’abbiamo sopportata, l’abbiamo superata. Quindi  vuol dire che abbiamo dovuto esercitare una forte volontà di  conservazione della nostra identità. Vorrei dire che non bisogna mai  perdere la volontà di reagire, bisogna sempre perseguire in quella che è  la propria identità”. 
Il libro di Marco Cavallarin vuol essere un omaggio a persone che,  anche nelle situazioni più avverse, hanno agito con rettitudine, dignità  e forza morale divenendo un esempio prezioso per figli e nipoti.  Ci  sono storie - “La famiglia di Piazza Stamira” è fra queste - il cui  racconto non dovrebbe mai esaurirsi. “Per il potere che hanno di scavare  nella memoria e fissare punti cardinali capaci di resistere al tempo”.
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Giorgia Greco