Yakov M. Rabkin: un’interpretazione anti-storica della storia ebraica
Analisi di Giuliana Iurlano
   Yakov M. Rabkin
Yakov M. Rabkin 
“[…] Lo Stato di Israele rappresent[a] il maggiore pericolo per gli  ebrei, sia in Israele sia nella diaspora” (p. 79). Sono queste le  parole centrali dell’intervista rilasciata dal rabbino Menashe Fullop a  Yakov M. Rabkin, da quest’ultimo riportate nel suo volume Israele, paese  senza confini (Milano, l’Ornitorinco, 2020, prefazione di Michael  Segre, con una presentazione di Furio Biagini). Rabkin condivide in  pieno l’affermazione di Fullop, tant’è che il libro è un attacco contro  lo Stato di Israele e il sionismo che ne è stato il padre fondatore.  Queste posizioni non sono rare nella pubblicistica sullo Stato ebraico.  In particolare, la tesi centrale di Rabkin è che il sionismo è stato una  sorta di amara deviazione del popolo ebraico dalle sue radici  originarie, spirituali, religiose (il popolo del giudaismo) verso una  concezione materialistica (il sionismo), fondata sulla presunta  appartenenza degli ebrei ad una terra promessa. Rabkin sostiene,  riferendosi al Pentateuco, che i figli di Israele “non sono originari  della terra di Israele”, ma dell’Egitto, “essendo stati consacrati come  popolo distinto presso il monte Sinai solo in virtù della loro  accettazione della Torah” (p. 21). 

La copertina (L'Ornitorinco ed.)
Qui, però, sta la mancanza nell’analisi di Rabkin: la storia, la  vicenda storica successiva del popolo ebraico, dopo aver accettato la  Torah. Dopo la peregrinazione nel deserto, gli ebrei non si stabilirono  nei luoghi dove nacque e si sviluppò successivamente la civiltà ebraica?  Per Rabkin questa è una distorsione inaccettabile, perché, citando la  tesi di Yeshayahu Leibowitz, egli afferma che gli ebrei non sono mai  stati un popolo nel senso storico e politico del termine, ma “[…] il  popolo del giudaismo, della Torah e dei suoi comandamenti” (p. 33).  Essendo, perciò, un’entità religiosa, gli ebrei hanno occupato  abusivamente la terra dove si stabilirono, dando vita a una storia che  divenne poi “un sostituto della tradizione ebraica” (p. 37), una  tradizione puramente religiosa, spirituale.       La tesi di Rabkin è  profondamente anti-storica. Pur accettando la definizione del popolo  ebraico come popolo del giudaismo, non si può negare – sarebbe  un’assurdità – che quel popolo era fatto di persone in carne e ossa, che  svolgevano le attività che tutti gli altri popoli svolgevano, pur  avendo una propria religione e i propri riti. Il popolo del giudaismo  non era un’entità astratta, ma una realtà storica che si è perpetuata  nel corso dei secoli, sino a oggi, lasciando un segno indelebile nella  vicenda umana. Ovviamente, la tesi di Rabkin, e di tutti coloro che la  condividono, propone un’interpretazione della diaspora ebraica (galut)  come conseguenza del tradimento operato dal popolo ebraico nel momento  in cui esso è divenuto storia, fatti storici, cioè definendosi in senso  materiale come tutti gli altri popoli della terra.       Il sionismo è  stato il veleno del popolo ebraico, un nazionalismo etnico che ha dato  vita allo Stato di Israele, “un caso di modernizzazione imposta tipico  del colonialismo occidentale” (p. 70). 
Qui Rabkin accoglie senza indugi le accuse proprie degli odiatori  di Israele in Occidente e del mondo arabo che ha tentato più volte di  distruggere lo Stato degli ebrei. Inoltre, afferma Rabkin, sono sempre  più numerosi gli ebrei che sostengono che la natura dello Stato creato  nel 1948 sia in opposizione ai valori morali dell’ebraismo, ma si tratta  di un punto di vista privo di qualsiasi oggettiva dimostrazione. Come è  un’affermazione indimostrata la tesi secondo la quale è diffusa in  Israele “l’avversione della nuova identità israeliana nei riguardi della  tradizione ebraica […]” (p. 111), ragion per cui la laicità sionista ha  sostituito il giudaismo con i simboli del nazionalismo. Il ragionamento  di Rabkin non fa una piega, ma ignora volutamente ciò che la storia ha  insegnato al popolo ebraico; tant’è vero che egli non può negare che le  atroci persecuzioni subite dagli ebrei russi, pur estremamente legati  alla loro tradizioni giudaiche, li sollecitò ad abbracciare il sionismo  come meta di salvezza, fisica e spirituale: “[…] I pogrom dell’ultimo  ventennio dell’Ottocento – deve ammettere Rabkin – contribuirono  anch’essi a sospingerli verso il nazionalismo laico” (p. 121), il  sionismo.       Ma, al di là di questa fugace ammissione, Rabkin,  insieme ad altri, insiste nel ritenere il sionismo l’espressione più  negativa del processo di subordinazione della dimensione religiosa  dell’ebraismo a quella nazionalista. Tale processo ha comportato,  secondo quei critici del sionismo, una serie di sciagure per il popolo  ebraico. Elchonon Wasserman asserì come “il genocidio [nazista], di cui  aveva intuito le proporzioni, non potesse essere altro che un castigo  per l’abbandono della Torah così a lungo incoraggiato e praticato dai  sionisti” (p. 147). 
Il che non è vero. In nessun documento del movimento sionista v’è  un richiamo, né esplicito, né implicito, all’abbandono della Torah in  favore dell’adesione esclusiva ai principi del nazionalismo ebraico. Del  resto, è impossibile pensare che gli ebrei dell’Europa Orientale e  della Russia, così profondamente legati agli insegnamenti della Torah e  alle pratiche religiose, pur aderendo al sionismo come àncora di  salvezza fisica e spirituale, avessero abbandonato le loro tradizioni e i  loro riti, che avevano permesso a quel popolo perseguitato di  sopravvivere in un contesto di antisemitismo così brutale come quello  dell’Est europeo.       La nascita dello Stato di Israele fu il momento  conclusivo del tradimento, secondo Rabkin. Il popolo ebraico, inquadrato  nello Stato secolare, non è più il popolo dell’ebraismo, ma un popolo  votato all’espansione territoriale per mezzo delle armi, impegnato a  combattere il nemico arabo e, in particolare, a operare una  “discriminazione contro gli arabi palestinesi”, anzi a radicare negli  ebrei israeliani “una concezione riduzionista dell’‘arabo’ che è  identica all’antisemitismo razziale” (p. 258), anche se Rabkin si esime  dallo spiegare questo concetto così infamante per gli ebrei di Israele.  La conclusione di Rabkin è inquietante, ma per fortuna ininfluente per  il futuro di Israele. Le teorie di Rabkin, come si è detto all’inizio,  prescindono volutamente da un’analisi adeguata del percorso storico del  popolo ebraico, perché ciò avrebbe comportato l’evidenza della stretta  connessione tra religione e storia, tra fedeltà ai principi della Torah e  ricerca spasmodica, attraverso i secoli, di una possibilità del ritorno  a Eretz Israel, inteso non esclusivamente come sede spirituale, ma come  sede materiale dove coniugare spirito e vita materiale come comunità.  Questo è stato il compito del sionismo. 

Giuliana    Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni   Internazionali  presso l'Università del Salento. Collabora a   Informazione Corretta