Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Evitiamo la parola 'negazionista' se la Shoah non c'entra Commento di Danilo Taino
Testata: Corriere della Sera Data: 01 novembre 2020 Pagina: 6 Autore: Danilo Taino Titolo: «Evitiamo la parola 'negazionista' se la Shoah non c'entra»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 01/11/2020, a pag. 6, con il titolo "Evitiamo la parola 'negazionista' se la Shoah non c'entra", il commento di Danilo Taino.
Danilo Taino
A differenza del mufti che emette una fatwa, non c'è alcuna autorità legale dietro al lancio contundente della parola «negazionista». Ma, anche senza basi giuridiche o scientifiche, l'accusa sta avendo una diffusione massiccia e produce effetti deprimenti, soprattutto se applicata non solo a chi nega l'esistenza del Covid-19, ma anche a chi si limita a mettere in dubbio la sanità dei lockdown. E non è solo questione di virus. Negazionista, da tempo, è anche chi esprime dubbi sull'eccesso di catastrofismo nella denuncia dei cambiamenti climatici e dei loro effetti futuri. O sui modi per affrontarli. E possiamo essere certi che la vergogna cadrà implacabile sulla testa degli scettici e dei meno conformisti di fronte ad altre paure del mondo. Con l'effetto di una fatwa: alla condanna non si sfugge. Pare che il termine «negazionismo» sia stato coniato da Henry Rousso, uno storico franco-egiziano che nel 1987 scrisse un saggio, Le Syndrome de Vichy, nel quale distingueva tra il revisionismo storico, spesso discutibile ma legittimo, e la teoria secondo la quale la Shoah sia un'invenzione, teoria che egli definì appunto negazionismo. Qui nasce un primo problema. Nella storia non c'è nulla di paragonabile alla Shoah per tragicità e punto più basso toccato dall'umanità. Utilizzare per vicende ben diverse un concetto che definisce chi nega il genocidio nazista, mettere sullo stesso piano concettuale e linguistico chi parla d'altro è per estensione una svalutazione della Shoah, una sua banalizzazione: la trasforma in qualcosa di uguale a tante altre vicende, la fa diventare frequente e ripetibile, non più unica. Le parole contano: usare il termine negazionismo per chi parla di virus o di clima ridimensiona il «peccato» di chi nega l'Olocausto. Un secondo problema è che, proprio per le sue radici legate alla Shoah, il termine negazionismo ha l'effetto di chiudere ogni conversazione. Negazionista è qualcuno con il quale non c'è niente da discutere, un paria intellettuale o addirittura un intoccabile. L'ampio uso del vocabolo è un segno di tempi nei quali il confronto di idee diverse è spinto sempre più ai margini, spesso escluso. Succede con frequenza nelle università, soprattutto americane e britanniche ma non solo, dove ad accademici «controversi» viene impedito di parlare; succede in alcuni media anglosassoni dove giornalisti anticonformisti vengono allontanati; e succede nel dibattito pubblico, nel quale è sempre più facile trovare una «questione» che non ammette dubbi. Chi non è interno alla correttezza conformista va emarginato senza discussioni: se è una statua va abbattuta, se è un intellettuale non va ascoltato, se le sue posizioni sono controverse va zittito con l'accusa di negazionismo. E' una tendenza montante che fa muovere qualche passo verso i regimi autoritari, i quali — guarda caso, motivandolo con la pandemia — stanno intensificando la censura su internet e i social network. E' un'accusa d'infamia, di pronto uso, che non ha bisogno di argomenti, che alza un muro, che divide il mondo tra accettabili e «deplorabili». Può sembrare eccessivo cavillare su un termine entrato ormai nel linguaggio comune. Il guaio è che — parola per parola, concetto dopo concetto, di piccola censura in piccola censura — si disegna un ambiente via via più illiberale e diviso in tribù che si rifiutano di comunicare tra loro. E che prima o poi, probabilmente, si scontreranno.
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