'Il gigante folle. Istantanee della rivoluzione russa', di Vladimir N. Zabughin
Commento di Diego Gabutti
Vladimir N. Zabughin, Il gigante folle. Istantanee della rivoluzione russa, Miraggi 2017, pp. 288, 20,00 euro, eBook 10,99 euro.
Mentre l’americano John Reed, socialista radicale e autore dei 10 giorni che sconvolsero il mondo, inneggiava ai golpisti bolscevichi, le cui imprese destavano l’incondizionata ammirazione anche di George Bernard Shaw e di Herbert George Wells, due socialisti all’acqua di rose, Vladimir Zabughin raggiungeva San Pietroburgo, sua città natale. Tornava in patria per una missione di propaganda su incarico del governo italiano. Testimone privilegiato, raccontò gli eventi esattamente come si svolgevano, senza fronzoli ideologici e con disperata ironia, in uno straordinario reportage, Il gigante folle, apparso in edizione Bemporad & Figlio nel 1923. Svanito per quasi cent’anni dalla memoria degli storici della rivoluzione russa, il libro è stato meritoriamente recuperato dalle edizioni Miraggi.
Nato nel 1880, Zabughin aveva studiato storia e filologia prima a San Pietroburgo e poi a Roma, dove nel 1911, poco più che trentenne, aveva ottenuto la libera docenza in letteratura umanistica. Pubblicò numerosi testi scientifici, ebbe numerosi allievi. Convertito al cattolicesimo, in politica fu un seguace di Don Luigi Sturzo negli anni oscuri del dopoguerra. Morì nel 1923, prima che anche l’Italia, come la Russia, cadesse nelle mani d’un autocrate. Nel 1917, in patria, aveva capito che cosa stavano preparando e di che pasta fossero fatti i socialisti dell’ala maggioritaria: i comunisti. «Più ne vedo», scrisse, «e più mi sembrano rampolli spirituali degl’inflessibili teologi bizantini, che si dilaniavano, fino nell’estrema agonia dell’Impero, per certe nebulosità d’una torbidissima metafisica». E rivolto all’eterna Russia, il «gigante folle» al quale aveva intitolato il suo libro: «Vuoi predicare l’assoluta, inesorabile Uguaglianza, e ti procuri un ordine sociale intessuto di caste, di privilegi, di sospetti polizieschi, di persecuzioni politiche. Vuoi Pace ed ottieni Guerra; vuoi il Socialismo ed acquisti l’autocrazia teutonica. Sei giunto a farti governare da una brigata d’israeliti i cui seguaci predicano il più feroce massacro degli ebrei». Incontrò Trotsky, dopo il golpe, per un permesso di viaggio e ne tratteggiò un ritratto vivace e divertito: «Chiomato, barbuto e brizzolato, [Trotsky] è in redingote, come si conviene a una non-Eccellenza socialista, e ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppure uno».
Anni luce in anticipo sugli storici del post-comunismo, disegnò l’esatta biografia di Lenin: «Nicola Lenin, Dalai-Lama, magno demagogo… Discretamente brutto, caparbietà permalosa, testardaggine settaria. Quando, a vigilia del primo timido tentativo di Rivoluzione, nel 1905, i social-rivoluzionari apparecchiavano una sollevazione del contado contro i signori, Nicola Lenin si scagliò addosso a costoro, pieno di astio e di fiele. Denunziava il loro terrorismo all’obbrobrio dei socialisti benpensanti; consigliava ai contadini di starsene buoni, di aspettare dal Governo zarista l’agognata spartizione delle terre. Dinanzi a codesto commovente consenso del Lenin collo Stolypin [all’epoca primo ministro, reazionario e forcaiolo, dell’Impero russo] più d’un fuoruscito gridò allo scandalo […]. Amico e correligionario del Lenin, ora militante nel campo avverso, [il socialista Leo] Deutsch dichiara che caposaldo del carattere di questo Dalai-Lama è un’atrofia completa del senso morale. Dicono che esso Dalai-Lama fu l’istigatore e il mandatario di una serie di delitti, degni del peggiore tra i signorotti del Rinascimento italiano».
Repubblicano, Zabughin viaggiava per tutto il paese tenendo conferenze al fronte per saggiare la tenuta dell’esercito russo dopo la catastrofe dello zarismo, di cui molti osservatori, compresi molti repubblicani, s’erano augurati la restaurazione dopo il tracollo delle operazioni militari. Ma Zabughin era abbastanza russo da sapere che non soltanto un ritorno alla monarchia in una qualsiasi forma era «impossibile» ma che non era nemmeno augurabile: «Chi scrive queste righe non è punto avversario della monarchia parlamentare. Ritiene però codesta monarchia semplicemente impossibile in Russia, pur desiderando di essere cattivo profeta: la Russia non ha la ventura di avere un Piemonte ed una Casa Savoia. Possiede una dinastia debole e cadente, intedescata fino all’ultimo grado di saturazione; scevra di uomini intelligenti ed energici, circondata da uno stuolo di buffoni e di delinquenti nati. Sono incorreggibili, come Lenin e più di Lenin». Quanto alla guerra contro la Germania, non c’era più da farci conto. Anche prima del golpe leninista, erano già «nettamente visibili persino ai ciechi» i fili «onde la palazzina dei leninisti era collegata collo Stato Maggiore germanico. Man mano venivano scoperte le relazioni, in cui il Lenin stava durante l’esilio con il losco agente turco-tedesco, certo Parvus-Helfand […]; venivano a galla le mene di agenti minori come Fürstenberg e Kozlovski, intermediari nell’invio di somme più o meno vistose da Berlino a Stoccolma ed a Pietrogrado. Venne arrestata anche l’ineffabile signora Kollontai, sia detto con sopportazione, la Marfisa [guerriera saracena e regina dell’India nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo] dello stuolo leninista, apostolessa dell’amico Lenin e futura ministressa nel suo Gabinetto, quella del libero amore, uno dei tipi più pittoreschi della Rivoluzione russa». Libro fondamentale, per metà satira e per metà reportage, Il Gigante folle è scritto da chi conosce la Russia come le sue tasche e che sa in che conto tenere i partiti in lizza da febbraio a ottobre. Falsi liberali i cadetti, moderati e spericolati insieme i socialrivoluzionari di destra e di sinistra, ubriachi d’ideologia i marxisti di destra detti menscevichi, e completamente impazziti i bolscevichi: per la Russia che s’avvia verso il golpe, e che già era stata messa con le spalle al muro dalle riforme dissennate e demagogiche del governo provvisorio presieduto da A.F. Kerenskij, non c’è semplicemente speranza: «Con una serie di scioperi, di minacce di scioperi, con ricatti di ogni risma il ceto operaio aveva spinto i salari fino ad un’altezza inverosimile. Chi gridava di più, chi poteva produrre argomenti più stringenti, era più ascoltato. Un compositore di tipografia era pagato più di un professore universitario; la composizione di un foglio di stampa arrivava a costare duecentosettantacinque-trecentocinquanta rubli senza la carta; onde le tipografie si chiudevano e il libro, questo primo veicolo di civiltà, disertava il mercato. Un bidello era rimunerato meglio della maestra comunale; un fuochista più del macchinista». Grande umanista, scrittore eccezionale, è in punta di penna che Vladimir Zabughin mette a fuoco un tipico socialista russo dell’epoca, schierato con l’ala maggioritaria del partito mentre la dittatura leninista s’approssima: «Il mio interlocutore era chino sulla tavola, pensoso. Era piccolo, grassoccio, simpatico. Un anno fa doveva appartenere a qualche Lega di Michele Arcangelo per lo sterminio degli ebrei…»
Diego Gabutti