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Diego Gabutti
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'Il maestro della cabala. Vita di Gershom Scholem' 09/01/2020
'Il maestro della cabala. Vita di Gershom Scholem'
Analisi di Diego Gabutti

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David Biale, Il maestro della cabala. Vita di Gershom Scholem, Carocci 2019, pp. 212, 23,00 euro.


Nazionalismo, socialismo, democrazia: è sotto questa costellazione che nasce e prospera il radicalismo ottocentesco. Ma qualcosa va storto. Mentre il socialismo originario, il socialismo di Fourier, di Proudhon e del giovane Marx, genera il comunismo marxleninista, che trascina all’inferno la Russia e mezzo mondo, il nazionalismo si lascia alle spalle l’epica democratica dei Mazzini, degli Stuart Mill e dei Garibaldi per convertirsi allo sciovinismo, trasformarsi nella bandiera degli antisemiti francesi al tempo dell’affare Dreyfus, poi nello spirito guida del «socialismo in un paese solo» e nel grido di guerra dei campi di sterminio tedeschi. Nazifascismo e comunismo si somigliano non solo per i comuni propositi (il socialismo, di cui l’uno e l’altro si professano campioni, e la nazione, di cui entrambi proclamano il primato) ma anche per destino: guerre di conquista, carestie, genocidi, imperialismo cieco e una disfatta storica pagata con milioni di cadaveri. (Mentre del socialismo, almeno in Occidente, non rimane quasi più traccia, il nazionalismo pare avviato verso una seconda vita, come spiega Yoram Hazony, presidente del The Hertzl Institute di Gerusalemme, nel suo Le virtù del nazionalismo, Guerini e Associati, 2019).

Anche il sionismo affonda le sue radici nel radicalismo ottocentesco, ma sfugge ai suoi sortilegi. Non ne abbraccia il lato oscuro. Evita le derive disumanistiche del nazionalismo e del socialismo, di cui pure condivide le passioni e gli obiettivi. Non si trasforma, a differenza delle altre utopie novecentesche, in un movimento messianico (benché ne sia tentato e ne abbia, più dei bolscevichi e delle camicie brune, il physique du rôle metafisico). Nato dai progrom dell’est europeo e dalle ceneri dell’affaire, dunque dagli abissi della persecuzione, il sionismo semplicemente non può cedere alle sirene totalitarie del disumanesimo. Non procede allo sterminio dei suoi nemici, o alla depurazione delle proprie fila, nella convinzione che la spietatezza sia l’anticamera del paradiso, come invece non esitano a fare una vasta parte del movimento operaio internazionale e le classi medie tedesche e italiane, prone a duci e Führer.

Per sua natura e condizione, il sionismo non tenta (e nemmeno può tentare, a meno di sacrificare la propria identità) di cambiare il mondo con quella che Gershom Scholem – per venire finalmente al punto – chiamò in un saggio famoso, «la redenzione attraverso il peccato». Eppure, la tentazione messianica, secondo Scholem, rimane un’ombra a lato dello sguardo del sionismo lungo tutta la sua parabola. È su questa frontiera che il grande studioso della cabala puntò la sua attenzione e vigilò tutta la vita.

Storico dell’ebraismo in California, dove dirige il Jewish Studies Program dell’Università di Davis, David Biale racconta la vita e illustra il pensiero di Gerhard (poi Gershom) Scholem in una bella e sobria biografia, che si legge d’un fiato e con profitto. È un ritratto parlante. Sionista fin da ragazzo, studente brillante, carattere tumultuoso, grande amico di Walter Benjamin e di Hannah Arendt, con la quale litigò e perse ogni contatto dopo la querelle sulla Banalità del male, storico e divulgatore della cabala e dei millenarismi ebraici, Scholem esplorò la selva oscura delle eresie e dei labirinti cosmogonici (da cui trasse ferme opinioni circa le lotte politiche del suo e del nostro tempo). Studiò l’epopea di Shabbetai Tzevi e le «brezze anarchiche» di Jacob Frank (entrambi s’autoproclamarono Messia e vollero «“giocare” con “l’altra parte”, il lato oscuro della vita, e si trovarono a danzare tra le braccia del demonio”»). Individuò le radici di queste eresie nella cabala e ne riconobbe gli esiti nell’illuminismo ebraico, che custodiva al suo interno «il sancta sanctorum della mistica cabalistica». A dispetto della dissimulazione e dell’apostasia, a dispetto degli esiti catastrofici della loro parabola religiosa, gli «eretici millenaristi del Seicento e Settecento» non lasciarono dietro di sé soltanto rovine, pensava Scholem. Con le loro audaci sperimentazioni esistenziali, avevano generato una spinta verso la modernità, al rinnovamento, a una ricollocazione dell’ebraismo nel mondo.

Egualmente, però, conveniva stare in guardia. Tornando a Sion, alla terra perduta delle Scritture, il popolo ebraico sarebbe finalmente rientrato nella storia, da cui era stato bandito, ma solo a patto d’evitare le traiettorie rovinose toccate ai movimenti eretici, come pure l’abisso nel quale erano caduti o stavano cadendo i nazionalismi, attenti ai «confini» geografici ma ciechi allo spirito dell’utopia. Decise, inoltre, che il mito della creazione di Yitzhak Luria, cabalista del Cinquecento, era la perfetta metafora e descrizione della condizione ebraica. All’inizio, dice Luria, «c’è l’evento catastrofico dell’esilio divino. Dio non solo rivela se stesso, ma si nasconde. Questa teologia paradossale – così Scholem argomentava – non sarebbe stata possibile senza la catastrofe del 1492 [quando gli ebrei furono cacciati dalla Spagna]. Considerando questa tesi insieme agli argomenti teologici sviluppati da Scholem», scrive Biale, «oggi ne concludiamo che gli ebrei avevano bisogno d’una nuova cabala per affrontare la catastrofe del 1933. E questa nuova cabala Scholem ritenne d’averla trovata nell’opera di Franz Kafka, giacché anche l’epoca moderna» – come gli evi precedenti – «richiedeva una forma di cabala secolare dalla quale Dio è assente». Quello di Lauria «era un mito» e una cabala, ed erano parimenti «mitiche» anche le novelle cupamente teologiche di Kafka, ma erano entrambi «miti laici capaci di connettere la storia d’un trauma nazionale alle idee mistiche».

Giovane emigrato, nel 1923, Scholem fece parte d’un «gruppo di studio denominato Brit Shalom (alleanza di pace) che aveva per obiettivo il riavvicinamento tra ebrei e arabi». Non era un uomo di sinistra, tutt’altro, ma temeva gli eccessi della destra fondamentalista e in politica mise sempre in guardia i suoi connazionali israeliani dai pericoli del nazionalismo esasperato. Mentre gli altri suoi familiari scamparono alla Shoah, suo fratello Werner Scholem «fu ucciso da un SS a Buchenwald nel 1939» («è possibile che sia stato consegnato alle SS dai prigionieri comunisti, che avevano il controllo del campo, perché trotzkista»). Soffrì di depressione, scrisse recensioni feroci che ferirono (tra gli altri) Martin Buber, fu spesso ospite delle principali università americane, tornò più volte in Germania, il poliziesco era «il suo genere letterario preferito», e fu un grande e compulsivo bibliofilo. Nato a Berlino nel 1987, morì a Gerusalemme nel febbraio del 1982. Oltre a un epistolario sterminato, oltre ai libri e ai saggi (altrettanti classici) che aveva scritto, e che a dispetto del loro carattere scientifico si leggono come romanzi, «l’unica sua vera proprietà era la biblioteca, che occupava tutte le pareti di casa lasciando uno spazio vuoto solo all’Angelus Novus di Paul Klee, il quadro che ispirò le meditazioni sulla storia di Walter Benjamin». Negli ultimi anni dedicò alla memoria del suo vecchio e più grande amico due o tre libri, tra cui un eccezionale memoir (Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi 1992). Scrutava l’orizzonte spiando nuovi scontri frontali tra storia e millenarismo mistico o secolare (conflitti che si risolvono tutti, prima o poi, in una caccia all’ebreo) e intanto ricordava Walter Benjamin, che dopo la metà degli anni venti non aveva più incontrato di persona, ma col quale aveva scambiato centinaia di lettere (vedi Benjamin e Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi 1987, forse l’epistolario più bello, o meglio più sobrio e tragico, dell’epoca di Hitler e Stalin). Scholem ricordava «Benjamin e il suo modo intenso e strano di parlare, Benjamin che fissava il soffitto e s’esprimeva come un libro stampato».

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Diego Gabutti

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