Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il saggio scritto in prima persona e con una certa enfasi letteraria, può essere considerato una preziosa testimonianza della vita di un ebreo della seconda generazione. Il libro narra la storia di un francese nato negli anni Cinquanta da una famiglia mitteleuropea scampata a una sorte atroce. Orfano dell’ebraismo storico (ghetto, Lager, sionismo, Israele) il giovane sente di avere una dote “moderna”, spendibile nella lotta quotidiana per l’identità: ”avevo ricevuto il più bel dono che possa sognare un bambino del post-genocidio. Ereditavo una sofferenza che non subivo; del perseguitato conservavo il personaggio ma non pativo più l’oppressione”.
Da qui il titolo di questa specie di romanzo di una generazione: ”potevo godere in tutta tranquillità di un destino eccezionale. Senza espormi a un pericolo reale, avevo la statura di un eroe: mi bastava essere ebreo per sfuggire all’anonimato di un’esistenza intercambiabile”.
Tanta ostentata sincerità provocò, all’uscita del libro, non poche polemiche: ebreo immaginario stava per vittima immaginaria, ma avere alle spalle una folla di vittime non è forse già una sofferenza che minaccia anche una vita protetta? Si smontavano comunque le mitologie di una generazione e si criticava l’ ”uso narcisistico” dell’aggettivo ebreo, l’alterità ridotta a spettacolo.
Insistendo nella sua autocritica generazionale, Finkielkraut sostiene che l’ossessione dell’identità ebraica si accompagnava a ”un’indifferenza assoluta verso l’ebraismo”. Del resto dai genitori avevano quasi tutti ricevuto piuttosto che una educazione ebraica una ossessione ebraica. E nello stesso tempo non si potevano respingere le madri ossessive perché sarebbe stato come respingere l’eredità ebraica e i morti che l’avevano consacrata.
Così di immaginazione in immaginazione, astraendosi sempre più dagli ebraismo reale, si andava configurandoun ”ebreo simbolico” di volta in volta incarnato da tutte le vittime della storia. L’ebreo diventava ”il perseguitato modello” che permetteva di misurare il grado di barbarie. Al punto che dei cristiani infelici sognano di essere ebrei. In questo caso, dice l’autore, l’ebraismo è sinonimo di possibilità di sfuggire a se stessi. Una specie di ”romanticismo dell’ebraicità”.
Finkielkraut conclude questo testo accennando a una trasformazione della sua vita che lo raccorda alle tradizioni familiari in un altro modo: ”Amavo me stesso attraverso la mia identità ebraica, oggi amo l’ebraismo perché mi viene dall’esterno (…) per me l’ebraismo non ha più tanto la forma dell’identità quanto quella della trascendenza”.