L'esempio di Sciascia
Commento di Diego Gabutti
Valter Vecellio, Leonardo Sciascia. La politica, il coraggio della solitudine, Ponte Sisto 2019, pp. 148, 12,00 euro.
Leonardo Sciascia morì in odore d’eresia, com’era vissuto, solo che ad augurargli il rogo e a offrirsi di portare le fascine – come nella canzone di Enzo Jannacci su Prete Liprando – fu il popolo pio dell’antimafia e dell’antifascismo, di cui era stato il campione. Prima del Giorno della civetta, che non soltanto ne confermò l’esistenza ma ne svelò le trame, le connivenze e la cultura, la mafia siciliana era una chimera. Sciascia le conferì forma e sostanza agli occhi dell’opinione pubblica. Furono i suoi nemici, quando l’antimafia diventò un affare politico, utile a scalare i vertici del potere, a trasformarla di nuovo in un fantasma, in una loggia da romanzetto fantasy, in una cospirazione da fumetto. Suo amico e discepolo, Valter Vecellio racconta la parabola di Sciascia attraverso gli anni della prima repubblica, quando da «grande scrittore» e da «sincero democratico» si trasformò in «codardo», in «terrorista piccolo-borghese, anzi qualunquista» (così Giovanni Raboni, straparlando) e alla fine addirittura in «mafioso» tout-court agli occhi dell’agit-prop cattocomunista dell’epoca (che al pari dei suoi odierni epigoni, inneggianti a Roberto Saviano, a Greta Thunberg e alle sardine, campava di falso sdegno, di circo mediatico e di retorica a pera). Dietro una nuvola di fumo, parlando dall’angolo della bocca, una sigaretta stretta tra le dita, gli occhi socchiusi, un mezzo sorriso, Sciascia battezzò costoro «professionisti dell’antimafia» (rimasero tali, campioni di vanagloria e di falso sdegno, anche quando si trasformarono, col tempo e le nespole, in ringhiosi professionisti di Tangentopoli e dell’anticraxismo, dell’antiberlusconismo, del pacifismo pro islamista, dell’antipolitica e dell’«onestà-onestà» cinquestelle, dell’antirenzismo).
Leonardo Sciascia
Toccò un destino analogo (la pubblica gogna e la diffamazione fantasy) ai giudici che presero la mafia sul serio e che per questo, per non aver scherzato, furono uccisi dai mafiosi, quelli veri. Giovanni Falcone portò la mafia in tribunale e, dopo aver vinto la partita, fu accusato anche lui d’essere un codardo, evidentemente «stregato dalla mafia» come Sciascia, per non essere andato «fino in fondo» evitando di prestare fede a quei «pentiti» e «collaboratori di giustizia» – troppo belli per essere veri – che favoleggiavano di «terzo livello» (esattamente come Repubblica, l’organo ufficiale dell’antimafia, e come la Rete di Leoluca Orlando Cascio, che dell’antimafia era il braccio armato) e che accusavano Giulio Andreotti d’essere «punciuto», dunque mammasantissima tra i mammasantissima. In un’intervista dell’epoca, furibondo, Giovanni Falcone spiegò a Luca Rossi (I disarmati, Mondadori 1992) «che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. […] Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo». Morto, Falcone venne riabilitato. Toh, si disse, vedi mai che non avesse nascosto nulla «nel cassetto», come avevano tavanato, fino a un momento prima, gli Orlando Cascio e i Michele Santoro e i gesuiti progressiti e i Giampaolo Pansa (Sciascia gli faceva «gran pena») dai nascenti pulpiti e minareti televisivi, all’alba della repubblica dei talk show. Riabilitato, ma soltanto da morto: è il classico copione cattocomunista (prima il colpo alla nuca dell’intransigenza virtuista, poi un distratto pardon). Quanto a Sciascia, non se ne parla più molto, almeno nei giornali, o in tivù, dove oggi impazzano le caricature dell’antimafia d’antan (pentastellari schiamazzanti, sovranisti complottardi, Marchi Travaglio e Concite De Gregorio). Disapprovato, e ancora in attesa di riapprovazione, Sciascia continua, in compenso, a non preoccuparsene, se là dov’è adesso, in paradiso o nel nulla, ancora si fa caso alle miserie di questo pianeta: le sue opere, tuttora lette e citatissime, sono tutte in catalogo. Adelphi (per dire) ha pubblicato da poco il secondo volume, tomo secondo, delle Opere (Saggi letterari, storici e civili, pp. 1494, 75,00 euro). Un libro che onora le lettere italiane (per dirla in tono pomposo) e che vivamente raccomando, al pari del libro di Valter Vecellio, a sua volta composto di saggi, articoli e interventi occasionali e che partecipa, per dire così, della stessa tranquilla indignazione che (senza mostrare i denti, accennando anzi un mezzo sorriso, gli occhi socchiusi per il fumo della sigaretta) conserva senso e attualità alla produzione giornalistica e saggistica di Sciascia.
Sciascia era un moralista, convinto (forse «ingenuamente», diceva lui) che etica e politica, come pure etica e giornalismo, fossero cose simili, se non la medesima cosa. Pensava anche che l’approssimazione, l’incompetenza, la sciatteria della lingua e delle opinioni, per non parlare dell’irresponsabilità delle leggi, fossero un brutto, bruttisimo segnale di decadenza della civiltà. Questo quarant’anni fa, prima del «tunnel del Brennero», prima della legge maoista sulla prescrizione, prima del Conte 1 e Conte 2, quando comunisti e democristiani si limitavano a lasciar crepare Aldo Moro come un cane, mentre oggi i loro eredi, impollinando tutto il paesaggio politico, hanno condannato la nazione intera alla pena capitale della sinistra inetta e spocchiosa, del grillismo analfabeta e delle sardine sculettanti, del sovranismo molesto. Vecellio ricorda un aneddoto tramandato da Sciascia. Tale Salvatore Provenzano, «ex guardia regia», in piena epoca fascista si presenta al seggio elettorale «in cui si vota il consenso o il dissenso al regime» e «si vede consegnare la scheda in cui il votante è tecnicamente libero di scrivere “sì” oppure “no”, ma di fatto il “sì” è preventivamente già scritto, per cui non resta che leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e imbucarla nell’urna». Provenzano, che vorrebbe «scrivere “no” dove c’è scritto “sì”, rifiuta di toccare la scheda. “Ci sputi sopra vossia” dice al presidente del seggio». Ecco, saranno i Salvatore Provenzano a salvarci, vietandosi di sputare sopra la scheda dicendo sì al populismo e ai partiti liberaldemò da burletta; o forse non ci salveranno nemmeno loro. Forse aveva ragione Sciascia, e siamo davvero condannati a capitombolare sempre più in basso, giù per il toboga del degrado civile e culturale, senza mai toccare il fondo.
Diego Gabutti