'Il ritorno di Eva Perón', di V.S. Naipaul 02/12/2019
'Il ritorno di Eva Perón', di V.S. Naipaul Commento di Diego Gabutti
V.S. Naipaul, Il ritorno di Eva Perón, Adelphi 2019, pp. 304, 20,00 euro, eBook 9,99 euro
Romanziere angloindiano, Premio Nobel nel 2001, Vidiadhar Surajprasad Naipaul è anche un autore di grandi reportage. Memorabili, in particolare, Una civiltà ferita: l’India (Adelphi 1997), Fedeli a oltranza (Adelphi 2001, un viaggio dantesco «tra i popoli convertiti all’Islam») e La maschera dell’Africa (Adelphi 2010, il diario di bordo di un’avventura nella preistoria dell’umanità). A queste classiche inchieste s’aggiunge adesso, sempre in edizione Adelphi, Il ritorno di Eva Perón, dove Trinidad e l’Argentina (più un breve excursus nel Congo decolonizzato di Joseph-Désiré Mobutu, tiranno tribale) sono la perfetta metafora d’alcuni degli abissi che si sono spalancati sotto le babbucce delle generazioni nate nel Novecento: il Sessantotto, il populismo e il terzomondismo, l’underground. È a Trinidad, dov’è nato, che inizia e si conclude la storia di «Michael de Freitas, alias Michael X, alias Michael Abdul Malik», un ex pappone da quattro soldi che nella Swinging London, coccolato da groupie e seguaci, prima abbraccia la causa del Black Power americano, poi si converte alla versione afro dell’Islam diventando un Black Muslim (da cui la «X») e infine si proclama Black Panther, sedotto dal partito delle pantere nere fondato da Huey P. Newton e Bobby Seale negli Stati Uniti.
V.S. Naipaul
È adottato dalla jet society controculturale, e se non fosse per i creditori, che lo assediano e non gli danno respiro, non lascerebbe Notting Hill per Port of Spain, capitale della «Repubblica di Trinidad e Tobago». Ma è lì che torna, in tempo per assistere al carnevale del 1970, quando per un momento (sono tempi bizzarri) sembra che il Black Power, importato dai campus gringos su al nord, possa prendere il potere nell’isola. Michael X è l’araldo di questa rivoluzione, anzi di tutte le rivoluzioni terzomondiste, pauperiste, underground e populiste dell’epoca. «Nella logica di Malik», scrive Naipaul, «il nero che non contestava, il nero istruito, che aveva delle competenze o una professione, non era un vero nero. Il vero nero viveva in un posto chiamato “il ghetto”, e nel ghetto il nero era a stretto contatto col crimine. Faceva il pappone oppure lo spacciatore; mendicava e rubava; era affascinante». Malik era convinto che i neri esistessero soltanto affinché lui «potesse essere il loro leader: tra burle e imbrogli, delusioni e autoinganni, aveva raggiunto la posizione che occupa ogni razzista in cerca di potere». Pubblicò libri ridicoli, fondò una «comune» e una volta John Lennon (che all’epoca cantava Imagine e Power to the People, melodie facili, versi alla moda) fu suo ospite nella villa di Trinidad che Malik millantava come propria e di cui non pagò mai nemmeno l’affitto. Cialtrone fatto e finito, partì alla conquista d’un posto al sole e finì per trasformarsi in un demone di Dostoevskij, o meglio in un Charles Manson carioca. Nel giardino della villa, dove la polizia andò a frugare dopo che la casa fu devastata da un incendio, saltarono fuori il cadavere d’una ragazza bianca sua seguace, uccisa perché inaffidabile, e quello d’un altro presunto traditore della «comune». Michael X li aveva accoppati entrambi con piacere e di persona. Finì impiccato. Nota curiosa: «Non era nero: era “un uomo di pelle chiara”, mezzo bianco. Quella, come dicevano a Trinidad, era la cosa più divertente di tutta la storia». Quanto all’Argentina, dove Naipaul ambienta il suo secondo reportage, ci fu questo ritorno di Eva Perón, o meglio della sua mummia imbalsamata – perduta e ritrovata dopo molte (macabre) avventure. Tornò anche Juan Domingo, il suo vedovo. Eva trapassata nel 1953, Juan Domingo deposto ed esiliato tre anni più tardi dai militari, si ritrovarono insieme a Buenos Aires nel 1972: lei ebbe finalmente un posto di riguardo al cimitero, mentre lui tornò in trionfo sul trono delle pampas, invocato dagli argentini di destra e di sinistra (erano «tutti peronisti», infatti, «persino i preti maoisti e i guerriglieri trockisti», scrive Naipaul). Populismo e giustizialismo, vale a dire le fondamenta stesse della Weltanschauung peronista, strinsero un patto con le fantasie castriste e col Libretto Rosso del Presidente Mao. Ne derivò un disastro. Come a Trinidad, e come in Cambogia, dove un giovane studente di Jean Paul Sartre, tale Pol Pot, s’accingeva a «realizzare la filosofia», anche in Argentina scoppiò in forma sanguinaria e latinoamericana il Sessantotto. «I guerriglieri traevano ispirazione dal Nord», scrive Naipaul. «Il sogno degli studenti uniti agli operai contro i nemici “del popolo” veniva dalla Parigi sessantottina. I guerriglieri argentini avevano semplificato i problemi del paese. Come i rivoluzionari dei campus e dei salotti del Nord, avevano identificato il nemico: la polizia. Così gli svaghi sociointellettuali del Nord si trasformarono, in un Sud intellettualmente meno stabile, in una realtà orribile». E ancora : «“Ciò che gli studenti dicono in America, qui vogliono realizzarlo” mi disse nel 1972 una donna il cui nipote guerrigliero era stato ucciso dalla polizia: il giovane aveva preso la sua rivoluzione più seriamente degli studenti americani di cui voleva essere pari. Un’altra donna, più giovane, mi raccontò di come si fosse deciso un suo amico. Erano andati al cinema a vedere Sacco e Vanzetti [un film peggio che orribile: inattendibile, di Giuliano Montaldo] e lui aveva detto: “Mi vergogno di non essere un guerrigliero”». Era cominciata la «sporca guerra»: al centro la Mummia di Santa Evita (che «odiava i ricchi, e li voleva umiliare») e quel poco che restava di Juan Domingo – un vecchio coglione in balia d’occultisti e d’indovini. Fu un massacro generale, un trucido carnevale di sangue, vinto dalla polizia, ma soltanto perché più efficace della guerriglia e non perché più brutale o più efferata. «Nonostante la spinta emulativa», spiega ancora Naipaul, «l’idea argentina della guerriglia aveva poco in comune col teatro studentesco di Parigi e degli Stati Uniti: la rivoluzione argentina ammetteva l’idea della punizione fisica per chi stava dalla parte sbagliata. I nobili princìpi politici si fondevano con un’idea più semplice dell’offesa personale, della faida sanguinosa» C’è infine, terzo reportage di V.S. Naipaul raccolto nel Ritorno di Eva Perón, il viaggio in Congo, sulle orme di Conrad, in vista del cuore di tenebra (là dove Kurtz urlava: «L’orrore! L’orrore»). Siamo nel regno di Joseph-Désiré Mobutu, in arte Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga (che alla lettera, leggo su Wikipedia, significa «Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo»). In Congo non è facile distinguere tra storia e letteratura. È storia oppure è letteratura la spedizione di Che Guevara, che parte al soccorso del movimento di liberazione lumumbista di Laurent-Désiré Kabila e ritorna a Cuba, poco dopo, con le pive nel sacco? Kabila, e anche questa è letteratura, avrà un’altra occasione nel 1997, quando eredita la tirannia sul Congo da Mobutu, il quale regna sul Congo dopo avere ucciso il suo amico Patrice Lumumba, assassinato nel 1960, tre mesi dopo l’indipendenza (tipo svelto, tre mesi erano bastati a Lumumba per inimicarsi la Casa Bianca, allearsi col Cremlino e importare in Africa la guerra fredda, mossa che gli costò la vita). È in Congo, con largo anticipo sui khmer rossi di Pol Pot, che esordisce il primo esercito maoista di soldati bambini. E che dire di «Pierre Mulele, ex ministro dell’istruzione, che dopo una lunga marcia attraverso il paese» – scrive Naipaul – « s’accampò a Stanleyville e instaurò un regime di terrore. Chiunque fosse in grado di leggere e scrivere veniva portato nel piccolo giardino pubblico e fucilato; chiunque indossasse una cravatta veniva fucilato. Queste erano le storie su Mulele che circolavano nel vicino Uganda nel 1966». Mancavano due anni al Sessantotto. Saloth Sar, al secolo Pol Pot, sedeva alla Closerie de Lilas, davanti a un calvados, in compagnia di Simone de Beauvoir e del giovane Régis Debray, presto compagno d’armi di Guevara in Bolivia. L’orrore! L’orrore!