Babij Jar. La cancellazione della memoria 
Commento di Giuliana Iurlano 

La copertina (Il Mulino ed.)
 Il tema dell’oblio è un tema molto delicato e costituisce l’altra faccia  della memoria. Quest’ultima – che i greci rappresentavano come  Mnemosyne, la dea sorella di Lete (oblio, dimenticanza) e madre delle  nove Muse, generate con Zeus (la potenza) – è, dunque, l’arché, il  principio del ricordo, principio senza il quale tutti i saperi (le nove  Muse) non potrebbero reggersi: essa, infatti, costituisce l’ossatura  della struttura disciplinare di ogni singolo sapere. E, tra questi  saperi, naturalmente vi è Clio, la musa della storia, che si nutre della  memoria e, grazie alla sua potenza derivata geneticamente da Zeus, può  mantenere in piedi il ricordo del passato. Ma come funziona la memoria?  C’è differenza tra Lete e Mnemosyne? Sono gemelle antitetiche; ma,  mentre Lete rappresenta quasi la naturalità dell’oblio, Mnemosyne,  invece, deve contrastare tale tendenza biologica e puntare sulla forza  (Zeus) della cultura. Dunque, possiamo dire che, mentre l’oblio è  naturale, la memoria è un fatto culturale: dobbiamo imparare a  ricordare. Per l’ebraismo, il ricordo è fondamentale: l’obbligo del  ricordo, Zakhor, ricorre moltissime volte nel testo biblico come  imperativo sostanziale per l’ebreo. 

La  tragedia della Shoah ha esteso l’obbligo del ricordo all’umanità  intera, ma il processo mnestico e, insieme, etico non è stato affatto  lineare. I nazisti per primi si incaricarono di cancellare le tracce  dello sterminio e, successivamente, i sopravvissuti si scontrarono  dapprima con il bisogno generalizzato di dimenticare la sofferenza  causata dalle vicende belliche e, poi, con il loro stesso silenzio,  spesso durato anni e anni, come risposta alla mancanza iniziale di  ascolto. Infine, e finalmente, il bisogno di memoria ha prevalso e oggi  luoghi come Auschwitz si sono trasformati in “memoriali”, in cui la  sacralità del ricordo procede di pari passo con la ricostruzione  storica. Purtroppo, non è avvenuto così dappertutto. La stessa  storiografia sulla Shoah ha risentito per molto tempo della mancanza di  memoria storica, soprattutto per quanto riguarda l’Europa orientale,  dove lo sterminio degli ebrei ha avuto fisicamente inizio. Dopo la  rottura del patto segreto Molotov-Ribbentrop e l’invasione tedesca  dell’Urss, i nazisti presero Kiev – la capitale ucraina multietnica, con  una presenza ebraica molto significativa – il 19 settembre 1941, dopo  settantatré giorni di assedio, individuando immediatamente Babij Jar  come il luogo ideale per le prime eliminazioni sommarie. Di norma,  l’annientamento della popolazione ebraica era preceduto dall’iter  perverso delle operazioni di registrazione, concentramento e isolamento.  A Kiev, invece, nel settembre del 1941, si passò immediatamente alla  fucilazione degli ebrei, grazie al Sonderkommando 4a, composto per la  maggior parte da collaborazionisti ucraini, anche perché i sovietici,  prima di abbandonare la città, avevano minato alcuni punti nevralgici e  compiuto atti di sabotaggio. Il burrone di Babij Jar si trasformò ben  presto in una gigantesca tomba dove almeno 40.000 ebrei furono  sterminati in quello che sarebbe stato ricordato come l’“Holocaust by  bullets”. La storiografia ha taciuto per molto tempo su questa parte  della Shoah, anche per le scelte politiche dell’Unione Sovietica, che –  dopo l’ingresso a Treblinka e ad Auschwitz dell’Armata Rossa – decisero  di “non dividere i morti”, di fatto celando la verità più importante  costituita dal fatto che le vittime erano soprattutto ebrei di tutte le  età. In un importante saggio di Antonella Salomoni (“Le ceneri di Babij  Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev”, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 350)  vengono ricostruite passo per passo le vicende attraverso le quali oblio  e memoria si intrecciano in un percorso lacerante di celamento della  verità storica – coniugato con il progressivo crescendo di antisemitismo  delle autorità sovietiche – e di inutili tentativi di mantenere viva la  memoria storica di Babij Jar. Salomoni analizza il ruolo avuto da  scrittori, pittori, musicisti e poeti nel ricordare quella Shoah  volutamente dimenticata e le proposte avanzate perché il luogo dello  sterminio diventasse a tutti gli effetti un vero e proprio “memoriale”.   Nel 1962, il burrone fu ricoperto da tonnellate di terra mescolate ad  acqua e il confinante cimitero ebraico di Luk’janivka definitivamente  smantellato. Per evitare che il terreno melmoso si muovesse, fu  costruita una diga con pozzi e canali di derivazione per lo scolo  idrico, nella speranza che la poltiglia decantasse e si depositasse. Ma  il 13 marzo 1961 i calcoli degli ingegneri si rivelarono errati e le  acque del disgelo primaverile ruppero l’argine, provocando un enorme  torrente di fanghiglia che investì l’intero quartiere di Kurenivka.  Passarono molti anni prima che le autorità sovietiche autorizzassero la  costruzione di un monumento dedicato genericamente alle vittime della  barbarie nazista. Lo scrittore Viktor P. Nekrasov, che tanto si era  battuto contro la manipolazione e la cancellazione dell’eccidio,  continuò a gridare a gran voce la sua protesta contro quell’“oltraggio  ai morti” e contro il terribile ordine di “dimenticare Babij Jar”,  mentre Elie Wiesel, nel 1979, di fronte alla palese negazione di Babij  Jar, sentiva la rabbia straripargli in petto: “Come osano falsificare la  verità fino a questo punto? Chi ha permesso, chi ha ordinato di  commettere questo sacrilegio? Gli ebrei uccisi, per quale motivo furono  uccisi?”. 

Giuliana   Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni  Internazionali  presso l'Università del Salento. Collabora a  Informazione Corretta