Diario di viaggio: "Se lo vorrete non sarà un sogno" e le sue conseguenze
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Theodor Herzl: "Se lo vorrete non sarà un sogno"
Cari amici,
C'è una fondamentale asimmetria fra il modo di vedere le cose da parte degli amici di Israele che vivono all'estero, in particolare in Europa, e quello degli israeliani, una differenza che emerge chiaramente dagli incontri che si fanno in un viaggio in Israele e anche semplicemente guardando il paesaggio naturale, urbano ed umano che si incontra dappertutto. Questa differenza si può caratterizzare parlando di fiducia nel futuro. L'atteggiamento fondamentale della cultura europea è ormai da molti decenni, dalla fine della grande ubriacatura novecentesca per le ideologie, definibile come timore per il futuro. Questa angoscia può essere passatismo militante, rimpianto del tempo che fu, timore oscuro e magari del tutto fondato per tutto ciò che viene da lontano: una volta il Giappone che ci copiava le idee, poi la Cina troppo grande e pericolosa, per non parlare della grande esplosione dell'odio islamico che porta la guerra e il terrorismo.
Bambini israeliani. Il tasso di natalità in Israele è molto alto: 3,6 figli per coppia
Ma può essere anche l'idolatria indiscriminata dello straniero, cui viene attribuita un'integrità, una forza e una originalità che speso non ci sono. Ma è anche, nel nostro stesso ambiente culturale, sfiducia e paura dell'innovazione, quel misoneismo reazionario che stranamente si spaccia per progressista. Pensate per esempio alla miseria intellettuale, prima ancora che politica, dei No Tav, che hanno paura di un tunnel ferroviario centocinquanta anni dopo i primi grandi trafori alpini, solo perché è nuovo. Ma questa non è una posizione solo politica, si estende alle famiglie imprenditoriali che cedono le loro imprese per godersi una vita di rendita, probabilmente non per débauche ma per sfiducia nella capacità di fare impresa, delega ad altri dell'investimento e della gestione. E - sintomo più significativo di tutti - pensate alla nostra denatalità, alla sfiducia del futuro che porta a non volere aver paura e fare sforzi per allevare dei discendenti. Il senso luttuoso che il futuro non sarà nostro, che è meglio goderci quel che abbiamo.
Questo stato d'animo non coinvolge tutti, naturalmente, ma ha un effetto potente soprattutto sulla politica. Il sentimento dominante è quello del timore, non della paura vera e propria che spinge ad agire, ma dell'incertezza e della preoccupazione che paralizzano. Questo vale anche per Israele, che dai suoi stessi amici e sostenitori in Europa è visto come fragile, piccolo, in pericolo, da proteggere. Io stesso credo di scrivere spesso in questa maniera.
Viste da Israele, le cose sono molto diverse. L'atteggiamento generale è opposto, è segnato da una fiducia fondamentale, anzi da una grande passione per il futuro, l'innovazione, l'investimento, a partire dal livello più fondamentale, quello della famiglia e dei figli. Se il livello di riproduzione della popolazione si colloca a 2,1 figli per coppia, l'Italia sta sotto a 1,3 e Israele verso i 3,6. L'altra forma elementare di investimento sono gli alberi, che fruttano decenni dopo la semina. Colpiscono moltissimo, percorrendo il territorio israeliano, non solo i boschi e le foreste impiantati in un secolo dal KKL con il contributo di tutto il popolo ebraico, che hanno cambiato in maniera impressionante il paesaggio ma anche il clima di Israele, ma anche le coltivazioni di palme, banani, manghi ed altri alberi da frutto. Queste piantagioni che sono realizzate spesso in un clima e su un terreno molto ostili con l' uso dell'irrigazione a goccia, si estendono continuamente anche in luoghi contesi come la Valle del Giordano. E così i quartieri nuovi intorno alle città, per esempio a nord di Tel Aviv, i parchi, come quello nuovo nel centro di Gerusalemme. Per non parlare delle invenzioni, delle nuove imprese, di quella formidabile scommessa sul futuro che è stata chiamata giustamente (ma paradossalmente rispetto al popolo della Bibbia) "start up nation".
Lo stesso accade in politica. Non solo perché in politica interna le ultime elezioni hanno respinto il passatismo della sinistra e hanno premiato la volontà di innovazione e liberalizzazione, la fiducia nelle energie individuali di cui Netanyahu e Bennett sono l'espressione. Ma anche in politica internazionale, la difesa di Israele non è affatto passiva o attaccata a schemi del passato, ma cerca di raccogliere, nella situazione difficilissima determinata dall'ostilità di tradizionali alleati come l'America purtroppo governata da Obama e l'Europa di nuovo antisemita, tutte le sfide, di trasformare i problemi e in opportunità. I nuovi rapporti, più o meno sotterranei con il mondo sunnita moderato, in testa Egitto e Arabia Saudita, vanno in questa direzione.
L'altro aspetto di questo ottimismo è una sorta di delega politica. In un paese che ha divisioni ideologiche, religiose, etniche così spiccate e che ama moltissimo la discussione e la polemica e che per di più è circondato dal più pericoloso disordine civile (per non parlare di stragi, distruzioni, atrocità, guerre e morti) che ci sia stato nel mondo negli ultimi decenni, non si colgono i segni dell'angoscia, non si sentono nei discorsi privati quegli scenari paurosi che ci facciamo noi quando parliamo di queste cose; anche le infiltrazioni nemiche e le rappresaglie degli ultimi giorni non hanno rubato la prima pagina dei giornali al disastro nepalese, che ha coinvolto profondamente l'opinione pubblica. Non è certo ottimismo cieco, ignoranza dei pericoli. Al contrario è consapevolezza dei propri mezzi, esperienza, sicurezza collettiva, memoria delle grandi sfide vinte. La conseguenza del realizzarsi della più apparentemente azzardata e della più pedagogica profezia di Theodor Herzl: "se lo vorrete, non sarà un sogno".
Ugo Volli