Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il Papa in Medio Oriente: a Betlemme prega davanti alla barriera difensiva e ignora l'esodo dei cristiani Cronaca di Gian Guido Vecchi, analisi di Maurizio Molinari
Testata:Corriere della Sera - La Stampa Autore: Gian Guido Vecchi - Maurizio Molinari Titolo: «di Francesco a ebrei e arabi: 'venite da me a pregare per la pace' - Gerusalemme aspetta un ultimo gesto -Tra i cristiani palestinesi uniti da fede e nazionalismo»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/05/2014, a pag. 23, l'articolo di Gian Guido Vecchi dal titolo "'L'invito di Francesco a ebrei e arabi: 'venite da me a pregare per la pace' ", dalla STAMPA, a pag. 31, l' editoriale di Maurizio Molinari dal titolo "Gerusalemme aspetta un ultimo gesto" e a pag. 15, il reportage dal titolo "Tra i cristiani palestinesi uniti da fede e nazionalismo", anch'esso di Maurizio Molinari. Israele mantiene saldi i nervi, un segno di forza, non di debolezza. Come scrive Maurizio Molinari nel suo editoriale di oggi, aspetta l'arrivo di Bergoglio a Gerusalemme e per ora non replica a un gesto "tanto esplicito a favore dei palestinesi" come la preghiera davanti alla barriera difensiva. Rimane però il fatto che il Papa ha ignorato l'esodo dei cristiani dai territori palestinesi, da Betlemme in particolare, città islamizzata, dove i cristiani, che erano l'80% della popolazione sono oggi solo più il 12%. Un silenzio in linea con la tolleranza dimostrata verso i paesi islamici, che i cristiani li perseguitano e li ammazzano. In Vaticano aumenta la conta dei martiri, ma per chi guarda all' aldiqua - Israele è uno Stato laico e democratico - le vittime dell'odio antisemita e antisionista rimangono vittime, non martiri, una qualifica estranea all'ebraismo. L'aldilà rimane nella sfera personale della fede di ognuno, un governo guarda ai propri cittadini con altri valori: libertà, sicurezza, benessere. E' quanto fa Israele, il resto è diplomazia, utile se ben guidata.
In alto a destra, Papa Bergoglio di fronte alla barriera difensiva
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Gian Guido Vecchi - L'invito di Francesco a ebrei e arabi: 'venite da me a pregare per la pace'
Gian Guido Vecchi
BETLEMME — La svolta del viaggio è una curva a gomito che da Hebron Road e il Palazzo presidenziale palestinese accosta il muro di separazione e gira in Menger Street verso Piazza della Mangiatoia e la chiesa della Natività. Francesco ha appena incontrato Abu Mazen, sta andando alla messa e fa fermare l’auto scoperta, non è un’improvvisazione ma un gesto meditato dalla vigilia, ci sono un sacco di bimbi in attesa, il Papa scende e si avvicina al cemento solcato di graffiti, non lontano dai murales di Banksy, almeno tre minuti che sembrano non finire più: guarda in alto, poi abbassa il capo e chiude gli occhi, posa la mano destra sul muro e resta così, in preghiera, davanti a questo «simbolo di divisione e di incapacità degli uomini a costruire veramente la pace in questa terra», come dice padre Lombardi. Francesco lo ricordava una settimana fa ai vescovi italiani: «Il vostro annuncio sia cadenzato dall’eloquenza dei gesti, mi raccomando: l’eloquenza dei gesti». Così la preghiera silenziosa diventa la premessa di un intervento diretto che un Pontefice non aveva mai compiuto, la proposta che Francesco sillaba al Regina Coeli, rivolgendosi in piazza al presidente palestinese: «In questo luogo, dove è̀nato il Principe della pace, desidero rivolgere un invito a lei, signor presidente Mahmoud Abbas, e al signor presidente Shimon Peres, ad elevare insieme con me un’intensa preghiera invocando da Dio il dono della pace. Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro di preghiera». Francesco lo ripete negli stessi termini al presidente israeliano che lo accoglie a Tel Aviv con il premier Netanyahu, appena sceso dall’elicottero giordano che lo ha accompagnato dalla Palestina: «Costruire la pace è difficile, ma vivere senza pace èun tormento. Tutti gli uomini e le donne di questa Terra e del mondo intero ci chiedono di portare davanti a Dio la loro ardente aspirazione alla pace». Anche la proposta è stata preparata e preceduta da sondaggi diplomatici, i due presidenti di lì a poco fanno sapere che accettano, fonti palestinesi parlano già del 6 giugno e comunque è questione di poche settimane, il 27 luglio scade il mandato di Peres. Due popoli, due Stati. Francesco chiede «il coraggio» del dialogo, «non c’è un’altra via», e prima di andare a Gerusalemme («città di valore universale», precisa) per l’incontro col patriarca ortodosso Bartolomeo e la prima preghiera comune dei cristiani al Santo Sepolcro (è Francesco a cedere il passo a Bartolomeo all’ingresso), ripete la linea già indicata da Ratzinger: «Sia universalmente riconosciuto che lo Stato d’Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti; sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto ad una patria sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. La “soluzione di due Stati” diventi realtà e non rimanga un sogno». Gesti e parole del Papa sono attenti nel riconoscere ragioni e dolori delle due parti. Francesco ricorda che oggi andrà in visita allo Yad Vashem, memoriale «dei sei milioni di ebrei vittime della Shoah», e arrivato in Israele scandisce: «Prego Dio che non accada mai più un tale crimine». Invoca una cultura dell’incontro «dove non ci sia posto per l’antisemitismo, in qualsiasi forma si manifesti, e per ogni espressione di ostilità, discriminazione o intolleranza verso persone e popoli», fino a ricordare «con cuore profondamente addolorato» l’attentato «efferato» di Bruxelles: «Nel rinnovare la mia viva deplorazione per tale criminoso atto di odio antisemita, affido a Dio misericordioso le vittime». A Betlemme, in visita al campo profughi di Dheisheh, si è trovato davanti un centinaio di bambini che innalzavano cartelli con scritte del tipo «cristiani e musulmani vivono sotto l’occupazione» o «io non ho mai visto il mare». A un bimbo che gli diceva «abbiamo visto la catastrofe, la nakba, negli occhi dei nostro nonni», Francesco ha riposto: «Comprendo ciò che mi dite, ma non lasciare mai che il passato determini la vita. Guardate sempre avanti. Lavorate e lottate per ottenere le cose che volete. Però sappiate che la violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace». Nella messa di Betlemme, in una piazza colma di fedeli, aveva incentrato l’omelia sul dolore dei bambini che oggi sono «sfruttati, maltrattati, schiavizzati, oggetto di violenza e di traffici illeciti, profughi, rifugiati, a volte affondati nei mari, specialmente nelle acque del Mediterraneo», sospirando: «Di tutto questo noi ci vergogniamo oggi davanti a Dio, a Dio che si è fatto Bambino».
LA STAMPA - Maurizio Molinari - Gerusalemme aspetta un ultimo gesto
Maurizio Molinari
Papa Francesco si raccoglie in preghiera davanti al Muro di Betlemme e Israele reagisce con un assordante silenzio. Il premier Benjamin Netanyahu preferisce sottolineare i meriti del Papa nella lotta all’antisemitismo, il presidente Shimon Peres accetta l’invito ad incontrare Abu Mazen in Vaticano, il sindaco di Gerusalemme Nir Bakrat accoglie il Pontefice con un coro di bambini festanti, per i notiziari della sera ciò che conta è la presenza stessa del Papa nello Stato Ebraico e la gente comune, alla stazione degli autobus o al mercato di Machanè Yehudà, discute soprattutto del blocco alla circolazione che paralizzerà oggi Gerusalemme. Per comprendere perché un gesto papale tanto esplicito a favore dei palestinesi non ha innescato polemiche in Israele bisogna considerare due elementi convergenti: il primo ha a che vedere con il governo e il secondo con il popolo israeliano. Anzitutto l’esecutivo di Netanyahu aspetta per oggi un gesto papale altrettanto esplicito verso gli ebrei e Bergoglio ha in parte avvalorato questa attesa dicendo, poco dopo l’arrivo all’aeroporto a Tel Aviv, che il momento «particolarmente toccante del mio soggiorno sarà la visita allo Yad VeShem» il memoriale ai sei milioni di ebrei trucidati dai nazisti. Il rabbino argentino Abraham Skorka, amico personale di Bergoglio, parla in sintonia preannunciando che il Papa potrebbe «compiere un gesto importante» sull’apertura degli archivi pontifici sul periodo del nazismo. Ma non è tutto perché Israele e Vaticano negli ultimi mesi hanno percorso molta strada nel dialogo su Gerusalemme e la ventilata ipotesi di far celebrare messe ai francescani nella sala del Cenacolo suggerisce la maturazione di una convergenza più vasta sul futuro status della Città Vecchia. E ancora: il terreno del rispetto della libertà religiosa, ed in particolare dei diritti dei cristiani, è un punto di incontro talmente robusto fra Israele e Santa Sede da poter cementare una forte convergenza in un Medio Oriente in preda alle guerre civili. Come dire: gli interessi che legano Israele e Santa Sede sono tali e tanti che la foto del Papa sul Muro di Betlemme non sembra in grado di intaccarli. Ma c’è dell’altro: la grande maggioranza dei cittadini israeliani da tempo ha accettato la separazione dai palestinesi e dimostra scarso interesse per quanto avviene nei territori controllati dal governo di Abu Mazen. Tantopiù se riguarda il muro, costruito dal governo di Ariel Sharon a partire dal 2002, a cui viene unanimemente attribuita l’efficacia nell’aver bloccato i sanguinosi attacchi kamikaze della Seconda Intifada. La somma fra indifferenza popolare per quanto avviene nell’Autorità palestinese e la convinzione del governo Netanyahu che il pellegrinaggio di Francesco si concluderà con un importante gesto verso gli ebrei spiega quanto avvenuto ieri, allorché un gesto potenzialmente dirompente nei rapporti Israele-Vaticano è stato invece ignorato dai più. Il resto lo sapremo oggi.
LA STAMPA - Maurizio Molinari - Tra i cristiani palestinesi uniti da fede e nazionalismo
Drappi bianchi dalla Galilea, casacche beige da Nablus, kefiah rosse da Hebron, bianconere da Gaza e in jeans da Gerusalemme Est: nel parterre della piazza della Mangiatoia si incontrano le diverse anime dei cristiani palestinesi, trovando nei canti per il Papa un momento di fusione fra fede e nazionalismo. A guidare la sfilata di drappi bianchi è Sabit Baha, 60 anni, originaria di Iqrit un villaggio dell’Alta Galilea che «venne distrutto nel 1948 e dove adesso vogliamo tornare». Una famiglia di Iqrit è stata invitata a pranzo dal Papa e per la cinquantina di persone della delegazione - in gran parte ventenni - è un segno del «riconoscimento per le sofferenze dei profughi della Nakba» ovvero la «catastrofe» con cui viene ricordata la nascita di Israele. Dalla Galilea arriva anche la scolaresca «Sorgente di Vita», tutti ragazzi con meno di 15 anni di Haifa e dintorni. Per loro parla Wasin, 13 anni, «io della guerra non so nulla, guardiamo avanti e abbiamo fede in questo Papa perché crediamo possa aiutarci a risolvere il conflitto fra palestinesi e israeliani». Sabit e Wasin sono entrambi arabi-israeliani, discendenti da chi decise nel 1948 di restare in Israele, mentre Baswan, 23 anni, è un «palestinese del 1967» figlio di profughi della Guerra dei Sei Giorni. Occhiali da sole, maglietta e jeans firmati, passeggia per mano alla futura moglie: «Veniamo da Gerusalemme Est, la Palestina sta già nascendo, Papa Francesco con la sua sola presenza giova a questa atmosfera». Dagli spalti creati a ridosso della Basilica della Natività, il coro religioso femminile intona «Papa ue Falistin», facendo scorrere lacrime di gioia sul volto di Maria, suora libanese di Beit Hanina, che parla di «una nazione che può nascere grazie alle fede di noi cristiani» per via della solidarietà che trasmette. La sovrapposizione fra religione e nazionalismo è in ogni tassello della piazza: le kefiah usate come ombrelli parasole, l’immagine di Abu Mazen e Bergoglio stampata sulle t-shirt, il bambin Gesù disegnato sui murales con i colori nazionali, gli striscioni sul «G2» vaticano-palestinese, le bandiere biancoro sulle spalle dei shebab e i grandi poster pendenti da ogni lato della piazza che sovrappongono immagini bibliche a fotografie di sofferenze causate dagli israeliani per indicare una continuità fra i patimenti di allora e di oggi. «Questa è la Palestina cristiana - dice Hashy Michael, titolare di un negozio di souvenir sulla piazza e orgoglioso discendente di un guerriero crociato - lavoriamo duro per le nostre famiglie, amiamo Gesù, vogliamo la nostra nazione e cantiamo Viva il Papa». A mischiarsi con questa Palestina cristiana ci sono sulla piazza anche centinaia di immigrati cattolici giunti da Israele: le donne con le vesti colorate dell’India e dallo Sri Lanka come gli uomini in tuniche bianche dall’Eritrea sono qui per ragioni che nulla hanno a che vedere con il conflitto in Medio Oriente. «Mai avremmo pensato di vedere il Papa di persona» dice Anita, proveniente dal Kernataka indiano e impiegata come badante in Israele. E poi vi sono i pellegrini polacchi e quelli argentini, che sventolano bandiere e cantano inni nelle loro lingue sotto lo sguardo incuriosito dei boy scout salesiani con la giubba beige e dei boy scout di Giovanni Battista con la giacca chiara. Tanto gli uni che gli altri sorpresi ed emozionati per l’immersione nella Cristianità nel bel mezzo di una città dove i cristiani sono diminuiti negli ultimi 40 anni dal 70 al 12 per cento della popolazione. È proprio questo contrasto che fa dire a Barwan: «Se fossimo di più in Palestina forse già avremmo il nostro Stato».