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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.05.2014 Iraq: prime elezioni dopo il ritiro americano
Cronaca di Fausto Biloslavo, analisi di Lorenzo Cremonesi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Fausto Biloslavo - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «L'Irak alla prova di maturità. Primo voto senza americani - Iraq: elezioni all’insegna della paura. Un referendum sul premier al Maliki»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 01/05/2014, a pag. 14, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo "L'Irak alla prova di maturità. Primo voto senza americani" e dal CORRIERE della SERA, a pag. 40, l'editoriale di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Iraq: elezioni all’insegna della paura. Un referendum sul premier al Maliki".


Una soldatessa vota nel Kurdistan iracheno

Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo - L'Irak alla prova di maturità. Primo voto senza americani


Fausto Biloslavo

Le prime elezioni parlamen­tari in Iraq dopo il ritiro delle truppe americane nel 2011 si so­no svolte con successo, nono­stante gli attacchi dei terroristi legati ad Al Qaida. Una prova di maturità in un Paese scosso da una nuova ondata di violenze scaturita dall’atavico braccio di ferro fra sciiti e sunniti. Ieri 20 milioni di iracheni so­no stati chiamati alle urne per scegliere fra oltre 9mila candi­dati i 328 parlamentari dell’as­semblea na­zionale, che eleggerà il pri­mo ministro ed il presiden­te. Nelle urne si sfidavano 39 coalizioni, ma il favorito è il blocco «Stato di dirit­to », che sostie­ne il premier uscente Nouri al Maliki appoggiato sia dagli Usa che dall’Iran. «La nostra vittoria è certa, ma aspettiamo di vedere di che mi­sura », ha affermato Maliki do­po aver votato. Il premier sciita al suo secondo mandato ha invi­tato gl­i iracheni a recarsi in mas­sa alle urne «per mandare un se­gnale di deterrenza, uno schiaf­fo in faccia ai terroristi». L’af­fluenza è stata soddisfacente nonostante una serie di attenta­ti abbiano provocato 17 morti. Nella provincia sunnita di An­bar, al confine con la Siria, so­prattutto a Falluja ed in parte a Ramadi i seggi sono rimasti chiusi. Dallo scorso dicembre le tribù sunnite locali si sono al­leate con­al Qaida contro il pote­re sciita a Bagdad. Questo mese in Iraq sono morte oltre 500 per­so­ne per attentati e violenze set­tarie e dall’inizio dell’anno 2700. La rivolta sunnita nella pro­vincia di Anbar è alimentata dal­la guerra in Siria. Le frange estreme della ribellione contro Damasco considerano i due pa­esi un solo terreno di battaglia dove fondare un Califfato se­condo l’ideologia di Al Qaida. Non solo:L’Arabia Saudita pre­occupata per il rischio di venir spodestata dall’aumento della produzione petrolifera del­l’Iraq governato dagli sciiti, sta alimentando sotto banco l’in­sorgenza sunnita. La minaccia del terrore non ha impedito al Paese di andare alle urne. Il segretario di stato americano, John Kerry, ha elo­giato «il coraggio» di milioni di elettori. Washington sta accele­rando la consegna a Bagdad di 36 caccia F-16, 24 elicotteri Apa­che e 500 missili Hellfire per fronteggiare Al Qaida. La lotta al terrorismo è stata uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del pre­mier uscente Maliki. In realtà le indiscrezioni sul voto di poli­ziotti e militari, che si è tenuto lunedì, indicano che il capo del governo non ha ottenuto un buon risultato. Maliki è accusa­to di aver marginalizzato i sun­niti p­rovocando l’insana allean­za fra tribù e terroristi nella pro­vincia di Anbar. Adesso propo­ne una grande coalizione aper­ta «ad arabi, curdi, turcoman­ni, musulmani, cristiani, a pat­to che credono nell’unità del­l’Iraq ». La coalizione del primo mini­stro non teme il fronte sunnita, che si è presentato alle urne più diviso che mai. La spina nel fian­co­è la crescita di nuove compa­gini sciite, che riusciranno a ro­sicch­iare la maggioranza al pre­mier uscente. In ogni caso il go­verno sarà di coalizione ed i tempi per formarlo lunghi e tri­bolati. L’alleanza politica sciita al Muaten (il cittadino) guidata da Ammar al Hakim potrebbe aggiudicarsi la guida del prossi­mo esecutivo. L’ago della bilan­cia è rappresentato più che mai dai curdi, che vivono nei loro territori al Nord in una specie di altro Iraq, polo di attrazione per gli investimenti stranieri. Il nodo da sciogliere sarà lo sfrut­tamento del petrolio e l’esporta­zione che i curdi gestiscono da soli.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi- Iraq , Elezioni all’insegna della Paura un Referendum sul Premier al Maliki

 
Lorenzo Cremonesi  Nouri al Maliki

Un referendum nazionale per Nuri al Maliki: è questo il significato primo delle elezioni parlamentari ieri in Iraq. In buona sostanza, i 21 milioni di aventi diritto al voto sono stati chiamati a scegliere se il 64enne primo ministro dal 2006 potrà governare per il terzo mandato di fila, oppure sarà costretto a lasciare il posto ad un altro leader sciita. Ieri sera alla chiusura dei seggi i risultati elettorali restavano sconosciuti. Anche il tasso di partecipazione non è ancora stato reso noto, fonti ufficiose parlano del 60 per cento. Ma nulla è confermato.
Visto dall’esterno, l’operato del premier è stato fallimentare. Gli americani avevano scelto questo burocrate timido e per nulla carismatico per la sua grande capacità di lavoro, le sue promesse di operare in nome dell’unità nazionale, dialogando con sunniti e curdi, e il passato di perseguitato del regime di Saddam Hussein. Nel concreto le sue scelte sono però andate in senso contrario. Meno di 24 ore dopo il ritiro dell’ultima unità combattente Usa nel 2011, Maliki ha diffuso il mandato di arresto per il massimo leader politico sunnita, il vicepresidente Tariq Hashemi. Da allora Hashemi è fuggito nelle zone curde, poi in Turchia, e la guerra civile sciito-sunnita si è fatta sempre più cruenta. Le regioni occidentali dal confine con la Siria sino ad Abu Ghreib da novembre sono in mano alla guerriglia islamica sunnita. L’esercito regolare, dominato dagli sciiti, non sa controllarla. Tanto che ieri Bagdad ci è apparsa una città assediata, spaventata come al culmine del terrorismo nel 2006-7. Posti di blocco ogni 500 metri, traffico nullo, negozi e servizi pubblici chiusi. Il pubblico è potuto andare alle urne solo a piedi.
Il voto si è poi svolto nella calma relativa (in tutto il Paese negli ultimi tre giorni i morti per attentati superano il centinaio), ma il prezzo sembra altissimo, insostenibile. Con l’arrivo della notte è stato imposto un nuovo coprifuoco sulla capitale. Eppure, queste semplici considerazioni ancora non bastano per dare Maliki come politicamente morto. Il premier è pronto ad avviare una serie infinita di trattative con i due partiti sciiti paralleli al suo «Stato del Diritto» e con la miriade di formazioni minori che si sono presentate al voto. «Sono 328 i seggi del nostro parlamento», aggiungono gli osservatori locali. «Se Maliki ne ottiene almeno 80, può ancora vincere».

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