Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/01/2014, a pag. 1-27, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " A Davos la faccia nuova del vecchio Iran ", a pag. 13, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Kerry dialoga con gli iraniani sbagliati", la cronaca di Tonia Mastrobuoni dal titolo " Rohani-Netanyahu, scontro totale ", preceduta dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag.3, l'editoriale dal titolo " Chi ha mai parlato di smantellare? ".
Tutti i quotidiani di oggi hanno riportato le dichiarazioni di Hassan Rohani, puntando l'attenzione sulla nemmeno troppo velata minaccia rivolta a Israele.
C'è un'eccezione, REPUBBLICA. La titolazione del pezzo di Marco Panara (pa.13), che riproduciamo qui sotto, è incredibile. Un classico esempio che trasmette al lettore una realtà inesistente.

Contrariamente a quanto si legge nel titolo, l'Iran non è 'nuovo'. E' lo stesso dal 1979. Anti occidentale, anti americano, anti israeliano. E, nel corso del suo discorso, Rohani ha ben chiarito che intende dialogare con i Paesi che l'Iran 'riconosce'. Israele non figura fra questi.
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Gianni Riotta : " A Davos la faccia nuova del vecchio Iran "


Gianni Riotta Hassan Rohani con Barack Obama
Invano i filologi della politica internazionale cercheranno nell’intervento del presidente iraniano Hassan Rohani al World Economic Forum di Davos parole che rompano, in modo radicale, con la recente tradizione del suo Paese e che quindi, rilanciate con veleno dagli ayatollah conservatori, gli mettano contro il Leader Supremo Ali Khamenei. Rohani segue alla lettera il protocollo condiviso a Teheran.
Ma lo sillaba con accattivante bonomia e simpatia, includendo gli astanti nella gentile risata, l’elegante turbante, il mantello senza una piega. Pronunciato così il messaggio muta di senso. Dopo anni di virulenta foga populista del suo predecessore Ahmadinejad, il colto, flemmatico, garbato Rohani invoca l’essenza di quel che c’è di antico, sofisticato nella cultura millenaria dei Persiani, il carisma che rende la potenza non minacciosa, affascinante.
Quando il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab, gli ha proposto con forza l’invito «Allora l’Iran è pronto a intrattenere relazioni normali con tutti i Paesi?», Rohani ha assentito con cortese gravità mentre la platea dei manager e uomini di stato ruggiva felice la propria approvazione. Purtroppo qui tocca fare i pedanti e segnalare che Rohani intende solo «i Paesi che Teheran riconosce», escludendo quindi Israele, oggetto segreto dell’ovazione. Questa è la «filologia diplomatica» con cui il presidente si scherma dai falchi di casa: il messaggio di simpatia umana prevale, ieri, dalla Svizzera, al web, alle Cancellerie.
Celebre per il suo handle twitter @hassanrouhani, con 170.000 lettori-follower, Rohani ha ammesso con candore di non scrivere i messaggi da solo, aiutato da collaboratori ed amici. La e-diplomacy, la diplomazia digitale dei social media di cui il nostro ambasciatore a Washington Bisogniero giusto in queste ore discuteva con l’ex vice Segretario di Stato Usa Anne Marie Slaughter, ha conosciuto ieri un giorno di gloria quando, all’offensiva social media di Rohani a Davos, ha replicato secco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non da un’affollata conferenza stampa o con un forbito comunicato di agenzia: no, dalla sua pagina Facebook, come un teen ager, Netanyahu denuncia «la campagna di falsità» di Rohani, a cui la platea internazionale presterebbe ascolto, ricordando che su nucleare, Medio Oriente e Siria, la posizione di Teheran non muta.
Vero, si ripete solo che la «colpa» della guerra civile di Damasco non è del regime di Assad ma «di terroristi feroci», non si spiega bene a che cosa serva il nucleare in un Paese che galleggia su giacimenti di petrolio, a Israele non si porge nessun ramoscello d’ulivo. Ma Rohani sembra tentato da una versione sciita della comunicazione cattolica di Papa Francesco, non mutare un rigo di teoria e tradizione pregresse, ma declinarle con dolcezza, affabilità, cordialità. E non ha forse ieri il Papa definito Internet «un dono di Dio»?
L’Italia, che con gli uomini dell’Eni ha una storica presenza in Iran dai giorni di Enrico Mattei a Paolo Scaroni oggi, a Davos era guardata, per una volta, con invidia. Tanti politici e businessmen sperano che, se la trattativa sul nucleare e quella sulla Siria procederanno senza troppi intoppi, e Khamenei lascia spazio a Rohuani, Teheran ritorni mercato strategico. Italia ed Eni godrebbero di un vantaggio prezioso, perché Rohani annuncia già il nuovo modello di investimenti per i contratti internazionali sul petrolio per settembre 2014, preceduto da un seminario a Londra, in estate, per illustrarne le modalità. A Davos i dirigenti francesi della Total marcavano infatti stretto gli iraniani.
«È il tono che fa la musica» dice un antico motto e Rohani annuncia suadente di volere l’Iran tra i primi dieci Paesi al mondo per benessere, si dichiara pronto a collaborare con tutti - dell’ambiguità su Israele s’è detto - se le sanzioni internazionali verranno allentate e poi cancellate. Messaggi per il presidente Obama e il Congresso Usa dove non mancano i dubbi sul nuovo corso di Teheran.
Finita la Guerra Fredda il web nascente, il mercato internazionale aperto, lo sviluppo dei Paesi poveri fecero sperare che il XXI secolo fosse di pace, intese, prosperità. Poi crisi finanziaria e dell’euro, guerre locali, fondamentalismi, autoritarismo in Russia e Cina, «globalizzazione e mercato» sono diventate parolacce. Ascoltando Rohani proporre cooperazione e lavoro, dal web a Davos tornava in mente che le sole alternative al mercato, con tutti i suoi difetti, alla democrazia, con tutte le sue demagogie, alla cooperazione internazionale, con tutte le lungaggini burocratiche (a proposito: rilanciamo in fretta l’area di libero mercato Europa-Usa!) sono guerra, odio, intolleranza. O lavoriamo, commerciamo e cresciamo insieme o ci scanniamo come in Siria e prepariamo le armi come India e Pakistan sul Kashmir, o Cina, Usa e Giappone nel Pacifico.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Kerry dialoga con gli iraniani sbagliati "


Maurizio Molinari John Kerry
In una delle sale del Palace di Montreux è un diplomatico saudita a spiegare ad alcuni giornalisti arabi che il «passaggio più importante del discorso pronunciato alla conferenza dal principe Saud Al Faisal» è stata «la richiesta all’Iran di ritirare subito le truppe e gli Hezbollah dalla Siria». Se il ministro degli Esteri di Riad ha puntato su questo concetto, aggiunge il diplomatico, è «per bloccare il tentativo di portare Teheran al tavolo di Ginevra 2».
Apparentemente si tratta di un’incongruenza, visto che l’invito a Teheran è stato ritirato dall’Onu, ma a Riad e in altre capitali del Golfo prevale una diversa interpretazione: sarebbe stata Washington a spingere per avere gli iraniani a Ginevra 2, il tentativo è fallito ma il rischio rimane. Passano neanche 30 minuti e Omran al-Zohbi, ministro dell’Informazione di Damasco, fa un briefing improvvisato ai reporter pro Assad in un centro stampa di Montreux oramai deserto: «Ora qui noi siamo soli, con i russi, contro tutti ma non escludiamo un ruolo dell’Iran nelle prossime settimane». Ovvero: Teheran potrebbe tornare in gioco a Ginevra 2. Ciò che accomuna i timori sauditi e le speranze siriane è una lettura dell’apparente pasticcio diplomatico di Ban Ki-moon che ruota attorno alla volontà degli Stati Uniti di coinvolgere Teheran nella composizione del conflitto in Siria. A spiegarlo con ancora maggiore chiarezza è un diplomatico arabo che ha vissuto negli Stati Uniti e chiede l’anonimato: «Tutti sanno che c’è un canale segreto di contatti fra Washington e Teheran, ed è qui che è avvenuto il corto circuito sull’invito a Javad Zarif di partecipare a Ginevra 2».
L’ipotesi prevalente è che siano stati gli americani, attraverso un veterano del Dipartimento di Stato o un consigliere personale del presidente Barack Obama, a ottenere da Zarif l’accettazione verbale di Ginevra 1 - ovvero la transizione senza Bashar Assad - suggerendo quindi a Ban Ki-moon di chiedere a Teheran di renderla pubblica. «Ma è stata un’accelerazione errata – aggiunge il diplomatico del Golfo – perché ciò che Zarif dice in privato agli americani non coincide sempre con ciò che può dire in pubblico, anche nello stesso Iran». Da qui lo scenario di un corto circuito causato da una gestione affrettata del canale segreto Usa-Iran.
Non è la prima volta che un’accelerazione americana con Teheran dà effetti negativi: poco tempo dopo l’annuncio sull’intesa sul nucleare fu Washington a rivolgere un pubblico appello all’Iran per ottenere la liberazione dell’ex agente Fbi Robert Levinson ricevendo in cambio una scarna dichiarazione nella quale si affermava che «Levinson non è in Iran». Se Washington puntava ad ottenere in fretta un segnale di scongelamento dei rapporti bilaterali, Teheran ha frenato provocando sconforto nei famigliari di Levinson, scomparso nel 2007 sull’isola di Kish dove era probabilmente in missione non autorizzata per conto della Cia.
«I negoziati segreti con Teheran hanno funzionato sul nucleare perché nessuno dei due aveva fretta» osserva un’altra fonte diplomatica a Ginevra, facendo presente inoltre che il canale diretto Usa-Iran dovrebbe «non limitarsi a Zarif» ma puntare più in alto in vista delle prossime tappe: l’accordo definitivo sul nucleare e gli altri americani nelle mani degli iraniani ovvero Saeed Abedini e l’ex marine Amir Hekmati.
Il FOGLIO - " Chi ha mai parlato di smantellare? "

Hassan Rohani
Chi ha mai parlato di smantellare qualcosa? Al massimo è “la Casa Bianca che minimizza le concessioni ed esagera gli impegni iraniani”, ma noi non abbiamo promesso di smantellare alcunché, sono solo i riflessi delle fantasie del vostro presidente. L’umiliazione di Barack Obama arriva alla fase della diretta televisiva, con il ministro degli Esteri di Teheran, Javad Zarif, che mercoledì alla Cnn ha negato qualunque progetto di smantellamento del programma nucleare nel contesto della grande pacificazione fra Obama e Hasan Rohani, lupo travestito da agnello che nei pascoli di Davos promette pace con l’America e pace in Siria, a condizione che i “terroristi” vengano cacciati dal paese. In altre circostanze non ci sarebbe dubbio alcuno intorno a chi, fra le parti in causa, sta bluffando e chi è in buona fede, chi è pronto a far seguire i fatti alle parole e chi aggredisce e sfotte perché in realtà non ha nulla in mano, solo armi spuntate. Ma Obama ci ha abituato a tali sfoggi di debolezza che nel presente negoziato si è tentati di credere alla campana di Teheran, che da lunedì esulta per le sanzioni allentate basandosi su promesse ritrattate davanti alle telecamere della Cnn; e il primo a esultare è la Guida suprema e tycoon Ali Khamenei, che è maestro della fede e pure delle opere, visto che ha partecipazioni dirette in tutte le compagnie che torneranno a fare profitti dopo l’èra del congelamento coatto. Alla retorica iraniana bisogna fare la tara, chiaro, ma la provocazione è un ballon d’essai per vedere fin dove il ricorso dell’umiliazione pubblica non produce ritorsioni fattive. Se Teheran può ridicolizzare la versione dell’accordo diramata dagli Stati Uniti ricevendone in cambio sorrisi e telefonate cordiali, significa che in questa trattativa vale un po’ tutto, e pazienza se la credibilità dell’America ne viene fuori bastonata. E il “vale un po’ tutto”, del resto, è un grande assioma non scritto della filosofia di Obama, principio che il presidente probabilmente interpreta come l’apice delle virtù della volpe, ma che intanto suscita scetticismo e freddezza negli alleati, umiliazioni pubbliche negli avversari. Il primo caso di volpe in letargo.
La STAMPA - Tonia Mastrobuoni : " Rohani-Netanyahu, scontro totale "


Tonia Mastrobuoni
Buono l'articolo di Mastrobuoni, peccato per la scivolata sulla capitale israeliana "Teheran non riconosce Tel Aviv dalla rivoluzione khomeinista del 1979".
Ecco il pezzo:
Era dai tempi di Khatami che un presidente non sorrideva così spesso, ci confida una ragazza iraniana, visibilmente emozionata. Ma il siparietto che Hassan Rohani si concede alla fine del suo intervento con il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab, lascia l’amaro in bocca. Schwab lo ha appena incalzato su un passaggio del suo discorso: «Lei ha detto che vuole intrattenere rapporti pacifici con tutti i Paesi del mondo - ma proprio tutti, tutti?», insiste. Mormorìo in sala, sorriso di Rohani. «Con quelli che riconosciamo», lo gela il presidente iraniano. E la «charming offensive», l’«operazione simpatia» nei confronti dell’Occidente che Rohani ha intrapreso da tempo e della quale l’incontro di Davos rappresenta una tappa importante - qui ha incontrato i vertici delle multinazionali del petrolio proponendo accordi di collaborazione - mostra tutti i suoi limiti.
La reazione del destinatario di quel messaggio di rifiuto, l’altro ospite d’onore della seconda giornata del Forum economico, Benjamin Netanyahu, non si fa attendere, ed è durissima. «Parla di pace - replica - e neanche oggi riconosce l’esistenza dello Stato di Israele. E il suo regime ne invoca quotidianamente la distruzione», protesta il premier israeliano. Teheran non riconosce Tel Aviv dalla rivoluzione khomeinista del 1979.
Ma la giornata è interamente scandita da questo duello a distanza tra Rohani e Netanyahu, venuti entrambi al forum per attirare investitori nei propri Paesi. A poche centinaia di chilometri da qui, dietro la «montagna incantata» di Thomas Mann che incornicia Davos, Ginevra 2 sta fallendo; così il grande convitato di pietra di quel vertice, Rohani, si preoccupa di dichiarare i suoi paletti, ma mostra anche numerose aperture.
Per la Siria «auspico elezioni libere e democratiche» scandisce, ma «nessuno può decidere il futuro della Siria da fuori»; il riferimento alle opposizioni in esilio sostenute dai Paesi arabi sunniti e dall’Occidente, è evidente. Ma la risposta del premier israeliano è netta: è Teheran a finanziare le milizie in Siria che sostengono Assad e a macchiarsi di pesanti ingerenze nella sanguinosa guerra civile che sta lacerando il Paese.
Anche sul nucleare lo scontro è totale. Rohani esprime l’obiettivo di stringere rapporti migliori con l’Europa e ricorda che le relazioni con gli Stati Uniti «sono migliorate negli ultimi anni» lasciando intendere di voler proseguire su quella traiettoria. Teheran «vuole l’accordo» sul delicatissimo tema del nucleare, ma senza farsi commissariare dall’Aiea. «Non rinunceremo al diritto al nucleare pacifico», necessario per l’economia del Paese, ma le armi atomiche, aggiunge, «non sono nei nostri piani né mai lo saranno». Da lì a poco, l’affondo di Netanyahu è senza riserve: ecco «il grande inganno» iraniano, twitta. E al forum spiega che «dietro il sorriso di Rohani» che ha incantato molti a Davos, «c’è l’obiettivo di ottenere un alleggerimento delle sanzioni senza concedere nulla sulle armi atomiche».
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