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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.01.2014 I giovani devono tramandare la parole dei sopravvissuti
Alessadra Farkas intervista Elie Wiesel

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 gennaio 2014
Pagina: 20
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Shoah, i nuovi testimoni»

Riprendiamo da LETTURA/CORRIERE della SERA di oggi, 19/01/2014, a pag.20, l'intervista a Elie Wiesel di Alessandra Farkas, dal titolo "Shoah, i nuovi testimoni".

Elie Wiesel                        Alesandra Farkas

In una fredda mattina dello scorso novembre, Elie Wiesel ha ricevuto una lettera dal dipartimento di Stato. «Conteneva il documento originale redatto dallo zelante ufficiale ungherese che fece irruzione in casa di mia nonna Nissel a Sighet, prima della deportazione», racconta l'ottantacinquenne scrittore e premio Nobel per la pace. «Con precisione quasi maniacale, il militare vi dettagliava tutti i poveri averi che avrebbe saccheggiato a quella vecchina indifesa: una scatola di caffè, due candele, una manciata di farina. Nonna era l'unica della nostra famiglia ad aver intuito il futuro: prima di salire sul treno indossò l'abito dei funerali. E infatti fu selezionata al suo arrivo ad Auschwitz». A quasi sette decenni dalla fine della guerra, il più celebre sopravvissuto all'Olocausto è impegnato in una lotta contro il tempo che, in tutta la sua tenacia, testimonia ancora un incrollabile impegno come massimo testimone mondiale della Shoah. Il recente quinto bypass e le complicazioni l'hanno costretto ad annullare il suo corso alla Boston University — il più popolare nell'ultracentenaria storia dell'università — ma non hanno incrinato il suo spirito. «Non ho paura della morte perché l'ho vista in faccia troppe volte — racconta dal suo ufficio newyorchese sulla Madison Avenue pieno dei ricordi di una vita — però temo che, quando i testimoni saranno tutti morti, i negazionisti come quello che mi assali nel 2007 avranno la meglio».
Lei pensa davvero che potrebbe succedere?
«Nessun'altra tragedia della storia è stata documentata più dell'Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e orali. Da Yad Vashem al Museo dell'Olocausto di Washington alla Shoah Foundation di Spielberg, chi vuole la verità sa dove cercarla. Un giorno spetterà a chi ha ascoltato la testimonianza di sopravvissuti come me diventare a sua volta testimone. I miei studenti, tra cui tanti straordinari giovani tedeschi, sono tutti testimoni».
Un importante brano della liturgia ebraica afferma che «a Rosh HaShana (Nuovo Anno) è scritto e a Yom Kippur è sigillato chi vivrà e chi morirà, chi perirà per l'acqua e chi per il fuoco, chi per la spada e chi per la bestia feroce». Ha mai pensato che Dio possa aver deciso lo sterminio della sua famiglia?
«I veri credenti lo pensano perché Dio per loro è dietro a tutto, dall'inizio alla fine. Ma dalla guerra in poi, cioè in tutta la mia vita adulta, io vivo in modo estremamente problematico il mio rapporto con Dio. Un dilemma che mi lacera e non riesco a risolvere».
Perché allora continua a osservare i dettami della religione, rispettando lo  Shabbat e mangiando solo cibi kasher?
«Per rispetto nei confronti dei miei bisnonni, nonni e genitori. Non voglio essere io a rompere la catena invisibile che mi lega a loro. L'Olocausto ha marchiato i sopravvissuti. Molti di noi che erano religiosi hanno smesso di esserlo, mentre tanti atei hanno trovato la fede. Confesso di non aver tenuto contatti con nessuno dei sopravvissuti, perché, pur condividendo il dolore, nessuno di noi vuole riviverlo insieme».
Le capita spesso di pensare alla sua famiglia perduta?
«Se penso a mia madre e a mia sorella Tzipora, il mio cuore si riempie di dolore e so che il tempo non riuscirà a lenirlo. Ancora oggi sono tormentato dal rimorso: se non avessi venduto il mio dente d'oro per comperare il pane, forse avrei potuto salvare mio padre, pagando il medico perché lo curasse meglio quando si ammalò. Ero un ragazzino e avevo fame e paura».
La maggior parte dei sopravvissuti ha preferito dimenticare. Lei ha scelto di rivivere la tragedia ogni giorno.
«Non ho mai sperato di non sopravvivere. Mia madre e mio padre mi avrebbero disprezzato se lo avessi fatto. Ad Auschwitz papà lavorò duro per non farmi morire e non potevo tollerare che l'avesse fatto invano. Sono grato della fortuna che ho avuto di continuare a vivere per raccontare la mia storia ad altri».
È preoccupato per i numerosi studi statistici secondo i quali l'antisemitismo è in aumento un po' ovunque?
«Non conosco altro antidoto per combattere il male che denunciarlo, illustrandone radici e conseguenze. Contro la minaccia dei nuovi odiatori dobbiamo sollevare le nostre voci ededucare le coscienze. Per dire basta: non vedete dove porta l'odio? Perché chi oggi odia gli ebrei domani odierà tutti gli altri, incluso se stesso. E che mondo sarebbe quello fondato solo sull'odio?». Perché nel 2014 milioni di persone continuano a odiare tanto gli ebrei? «Risponderò come feci a un mio studente che mi pose la stessa domanda: perché siamo troppo ricchi o troppo poveri, troppo religiosi o non abbastanza, troppo universalisti o nazionalisti. Troppo belli e troppo brutti, troppo alti e troppo bassi. Siamo accusati, allo stesso tempo, di aver inventato il comunismo e il capitalismo. La domanda andrebbe posta agli antisemiti».
Pensa che anche l'America, come già accade in Europa, dovrebbe introdurre leggi per criminalizzare il negazionismo e l'apologia di nazifascismo?
«Il primo emendamento della Costituzione Usa è sacro e sancisce la libertà di ogni tipo di espressione. Ma non si tratta solo di un problema di crimine e castigo: l'America può e deve creare un'atmosfera culturale in cui nessuno osi promuovere il fascismo o negare l'Olocausto».
Lei ha scritto che l'ossessione che l'ha spinta a scrivere oltre 6o libri è il bisogno di esplorare la differenza e l'alienazione negli altri. Che cosa intendeva dire?
«Che il mio cuore batterà sempre per i profughi di tutte le guerre, siano essi africani, afghani o siriani. Il mio compito è sensibilizzare la gente sul loro dramma, aiutarla a sentire vicinanza per loro, a capire che cosa significhi essere senza casa, Stato, radici e nazionalità. Non esiste nulla di peggio e hanno bisogno di compassione».
Lei stesso è stato apolide per molti anni.
«Sono americano eppure mi sento ancora un profugo e non esco mai di casa senza il passaporto in tasca. Ricordo ancora la vergogna e l'angoscia che provavo ogni volta che dovevo oltrepassare una *** frontiera e i doganieri mi facevano il terzo grado chiedendomi che cosa venissi a fare nel loro Paese. Succedeva spesso, perché il mio lavoro di giornalista mi obbligava a muovermi. Francois Mitterrand mi offri la cittadinanza francese, ma anche se vivevo a Parigi non l'ho mai chiesta, perché sapevo che la Francia non sarebbe stata per me un luogo permanente».
I genocidi in Guatemala, Cambogia, Ruanda, Bosnia, Darfur e Siria dimostrano forse che c'è qualcosa di intrinsecamente malvagio nella natura umana?
«No. La responsabilità è sempre del singolo individuo che ha la facoltà di accettare o rifiutare la follia e la violenza del branco. Le scelte morali di fronte a ogni uomo e donna sono chiare e spetta alla coscienza di ognuno guidarli. Anche il silenzio, che aiuta i carnefici, è una scelta individuale».
È giusto che la parola Olocausto sia usata solo per lo sterminio degli ebrei? «Sì, anche se non sono orgoglioso di essere stato tra i primi a utilizzare quella parola, che è stata poi volgarizzata e inflazionata in modo scandaloso. Ho sentito un commentatore sportivo che in tv l'ha usata per descrivere la sconfitta di una squadra».
Quale dei suoi libri consiglierebbe a un giovane che non sa cos'è Olocausto? «La notte, edito in Italia da Giuntina (2007). Ma consiglierei anche tutti i memoir scritti da chi come me è sopravvissuto. L'importante è cercare la verità, tenendosi lontani dalla finzione. La mia legge morale mi vieta di scrivere un libro di fiction su questa immensa tragedia. Come disse Theodor Adorno: "Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro"».
Nel suo libro più recente, «A cuore aperto» (Bompiani, 2013), lei traccia per la prima volta un bilancio della sua vita dopo l'operazione che ha rischiato di ucciderla. Quel bilancio è ancora valido?
«Sul lettino d'ospedale, prima di finire sotto i ferri, ho capito che non importa essere giovani o vecchi, ricchi o poveri, famosi o perfetti sconosciuti. L'importante, quando tiri le somme della tua esistenza, è guardarti allo specchio e chiederti: "Che cosa hai fatto?", "Come hai contribuito?", "Sei riuscito a toccare almeno un'anima e a lasciare una piccola traccia?"».

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