domenica 11 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
06.11.2013 Primo Levi, la grammatica del genocidio
commenti di Anna Bravo, Massimo Novelli

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Anna Bravo - Massimo Novelli
Titolo: «Primo Levi, la grammatica del genocidio - Un rapporto scientifico su come si moriva con il gas»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/11/2013, a pag. 34, l'articolo di Anna Bravo dal titolo " Primo Levi, la grammatica del genocidio  ". Da REPUBBLICA, a pag. 49, l'articolo di Massimo Novelli dal titolo " Un rapporto scientifico su come si moriva con il gas ".


Primo Levi

Ecco i pezzi:

La STAMPA - Anna Bravo : " Primo Levi, la grammatica del genocidio "


Anna Bravo

Oggi il termine deportazione richiama immediatamente Auschwitz, la parola simbolo della persecuzione e dello sterminio degli ebrei. Non è sempre stato così. Nell’immediato dopoguerra e per anni e anni ancora, il deportato è essenzialmente il politico-partigiano, militante antifascista. Per capire quel che Primo Levi ha offerto alla storia, bisogna partire da allora. È cosa nota che la consapevolezza del genocidio come fulcro dell’ideologia nazista e del sistema concentrazionario non è stata tempestiva né generale. Lo mostrano varie ricerche sull’Italia e la Francia, a cominciare dal bellissimo (e colpevolmente non tradotto) Déportation et génocide di Annette Wieviorka. All’origine del ritardo ci sono motivi concreti. Di fronte all’afflusso caotico di persone in arrivo da Germania e Polonia, distinguere i reduci di Auschwitz e i deportati nei Lager dai militari prigionieri in Germania e dai lavoratori cosiddetti liberi, era più complicato di quanto si possa pensare ora. E alla preminenza dei politici contribuiva un dato di fatto elementare: erano tornati più uomini da Buchenwald o Mauthausen e donne da Ravensbrück di quanti non fossero tornati da Auschwitz, e il ruolo di campi simbolo era ricaduto sui primi più che sul secondo. Fino a far identificare tutti i deportati come politici. Ma premevano anche ragioni tattiche e ideologiche. Mettere al centro la persecuzione degli ebrei avrebbe imposto di fare i conti con la vergogna del passato – con Vichy la Francia, con la primogenitura del fascismo, con la guerra, con Salò l’Italia; e tutte e due con lo zelo antiebraico delle istituzioni e di una parte dei cittadini. Al contrario, ampliare il fronte di resistenza antifascista grazie all’inserimento di tutti i reduci non poteva che giovare all’immagine nazionale. È la strada che si sceglie. Quando Levi scrive Se questo è un uomo, la voce degli ebrei è dunque in parte confusa fra quelle degli altri prigionieri. Se fra gli autori dei primi memoriali non mancano ebrei, è soprattutto nella loro qualità di politici che si rappresentano, aprendo le testimonianze con una storia di partigianato sfociata poi nel Lager – come molti dei loro compagni non ebrei. È un modello di racconto forte e suggestivo, che insiste sulla doppia identità di partigiano e deportato. Primo Levi no. Minimizza la sua esperienza in montagna, mette in primo piano il suo essere ebreo. È uno scarto netto da quel modello narrativo, un fare parte a sé anche rispetto a compagni amati, anche a costo di pregiudicare uno sbocco editoriale di rilievo. Chissà se Einaudi sarebbe stato più disponibile di fronte a un Se questo è un uomo più partigiano, più militante, più epico, più «eroico» – questi sono gli anni in cui il grande Giacomo Debenedetti rivendica il titolo di soldato per il bambino «Chaim Blumenthal, di anni cinque, caduto a Leopoli, mentre, con le mani legate dietro la schiena, ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della libertà». Ma Levi sa di non essere un soldato, non desidera quel titolo – e forse non lo considera un blasone. Alla «scoperta» storiografica della Shoah ci si avvicina lungo gli Anni Cinquanta grazie a pochi grandi libri e all’impegno di intellettuali, comunità ebraiche, centri di ricerca. Finché, nel ’62, si arriva alla svolta del processo a Adolf Eichmann, che con la sua enorme risonanza mediatica getta la verità in faccia al mondo intero. Ma in Italia la svolta era già iniziata, con l’uscita per Einaudi, nel 1958, di Se questo è un uomo, da allora ininterrottamente ristampato. L’anno dopo, a una mostra sulla deportazione organizzata a Torino dall’Associazione nazionale ex deportati, Levi viene assediato da giovani che gli chiedono di raccontare la sua storia di prigioniero ebreo – è il metro del successo che il libro ha incontrato immediatamente. Quattro anni prima del processo Eichmann, prima della traduzione italiana della Banalità del male di Hannah Arendt, del Prezzo della vita di Bruno Bettelheim, dell’Istruttoria di Peter Weiss, Levi mette a fuoco e divulga l’immagine del deportato ebreo, il colpevole di essere nato, l’ultimo degli ultimi nella gerarchia interna ai prigionieri, fratello dei politici, ma distinto da loro. Vale la pena ricordare che la stesura di Se questo è un uomo è del ’45-’46, anni in cui le stesse organizzazioni ebraiche erano inclini a rifiutare specificazioni e separazioni, in cui anche fra gli ebrei c’era bisogno di tempo per capire, per vincere il timore che sottolineare la propria appartenenza riservasse altre insidie; tempo per esaurire, dopo lo stigma della diversità, il desiderio di comunanza con tutte le vittime, di uguaglianza con tutti i cittadini. Per Levi il percorso sembra diverso. Così come non si accasa fra i suoi compagni politici, non si accasa neppure fra quanti si sentono prima cittadini italiani (francesi, tedeschi), poi ebrei. Perché esserlo non è più la «piccola anomalia allegra» che gli era sembrato nell’adolescenza, è un numero tatuato su un braccio. Così anche Hannah Arendt, cosmopolita, agnostica, costretta da Auschwitz a dichiararsi innanzitutto ebrea. È la prima delle lezioni di Levi alla storia. Trent’anni dopo, con I sommersi e i salvati, risponderà ai negazionismi non con la difesa d’ufficio della memoria, ma proponendo un’etica e una grammatica della testimonianza. Primo è a lungo isolato in Italia, ricorderà le pratiche estreme di autodifesa dei prigionieri comunisti, nominerà il «segreto brutto» (l’esecuzione di due compagni colpevoli di «non lieve» trasgressione) che pesa sulla sua piccola banda partigiana – il dramma del male compiuto dai «giusti» e pagato con l’avvilimento di se stessi. Non uno di questi insegnamenti sarebbe stato formulato senza la radicale autonomia di giudizio di Levi, senza il suo rifiuto di sottomettere a imperativi ideologici o solidarietà di gruppo la fedeltà all’esperienza, e il suo coraggio nell’esporsi a critiche, dissociazioni, fraintendimenti – il più vistoso è l’attuale estensione della categoria di zona grigia a qualsivoglia realtà oscura o ambigua. Certo, la strada è rimasta a lungo in salita. Nella primavera del 1960 si tiene a Torino un corso di lezioni su «Trent’anni di storia d’Italia», così seguito che lo si deve spostare in un teatro, e neppure il teatro basterà. Peccato che non una delle lezioni sia dedicata alla deportazione e allo sterminio. I ragazzi torinesi sono stati più lesti a capire di intellettuali, istituzioni, ricercatori. Dietro Primo Levi, la storia arranca, e non solo per inerzia o chiusura. È come se gli autori ritenessero la Shoah fuori delle proprie competenze, troppo lontana e anomala, troppo poco fruibile come magistero per il futuro. È strano: le osservazioni più profonde sulla condizione umana sono venute dagli studi sul Lager, come se fosse necessario un estremo per mettere a fuoco elementi che nella normalità tendono a sfumare. A patto, ammoniva Levi, che si eviti di prendere ogni situazione oppressiva per un Lager, che si eviti di vedere nello sterminio la metafora della modernità, e nel totalitarismo la verità segreta della democrazia.

La REPUBBLICA - Massimo Novelli : " Un rapporto scientifico su come si moriva con il gas "

Massimo Novelli   Auschwitz

«Attraverso i documenti fotografici e le oramai numerose relazioni fornite da ex-internati nei diversi Campi di concentramento creati dai tedeschi per l’annientamento degli Ebrei d’Europa, forse non v’è più alcuno che ignori ancora che cosa siano stati quei luoghi di sterminio e quali nefandezze vi siano state compiute». Allo scopo «di far meglio conoscere gli orrori», però, «crediamo utile rendere pubblica in Italia una relazione, che abbiamo presentata al Governo dell’U.R.S.S., su richiesta del Comando Russo del Campo di concentramento di Kattowitz per Italiani exprigionieri ». Comincia così il Rapporto sulla organizzazione igienicosanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz- Alta Slesia),che Primo Levi e il medico Leonardo De Benedetti, compagno di prigionia, scrissero dopo la liberazione nei primi mesi del 1945, e pubblicarono il 24 novembre del 1946 sul numero 47 della rivista scientifica torinese Minerva Medica.Ritenuto un avantesto diSe questo è un uomo, il primo libro di Levi uscito nel 1947 da De Silva su interessamento di Franco Antonicelli, ilRapporto venne poi accantonato. Soltanto diversi anni dopo, nel 1991, se ne ritornò a parlare in due convegni, dove Alberto Cavaglion lo presentò al pubblico. Nel 1997 fu inserito da Marco Belpoliti nelle opere di Levi edite da Einaudi. Per iniziativa del Centro internazionaledi studi Primo Levi di Torinoe della medesima Einaudi, che ne ha stampate 400 copie per sostenere l’ente culturale, ora la relazione sui lager nazisti vede la luce in una versione autonoma. Il Rapporto, pubblicato con una postfazione di Fabio Levi, direttore del centro studi, viene presentato oggi a Torino, alle 17.30, al Museo nazionale del Cinema. Composto in qualche decina di pagine da un “medico-chirurgo” e da un “chimico”, la definizione scelta allora da Levi, il testo del 1945 si presenta, sottolinea Fabio Levi, con una «intonazione impersonale e generalizzante ». Ma proprio per i toni scarni, oggettivi, con cui vengono raccontati lo sterminio, le malattie degli internati e il funzionamento delle camere a gas, testimoniato più esplicitamente che inSe questo è un uomo,conserva una grande efficacia. Basta un frammento per rendersene conto: «Entrate tutte le persone nella camera a gas, le porte venivano chiuse (esse erano a tenuta d’aria) e veniva lanciata, attraverso le valvole del soffitto, una preparazione chimica in forma di povere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta; queste portavano un’etichetta con la scritta “Zyclon B”». Eppure quando Levi, ritornato a Torino, ne consegnò una copia all’Ufficio storico del Comitato di Liberazione, ilRapporto venne archiviato tra i documenti sulle generiche «atrocità fasciste». Dello sterminio, nota Fabio Levi, non si seppe cogliere al tempo «né la specificità né la reale dimensione».

Per inviare la propria opinione a Stampa e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@lastampa.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT