Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria: Assad sempre in piedi, altro che 'linea rossa' editoriale del Foglio, cronaca di Francesca Paci
Testata:Il Foglio - La Stampa Autore: Editoriale del Foglio - Francesca Paci Titolo: «Le piccole vittorie di Assad - Noi libanesi sopraffatti da una guerra non nostra»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/11/2013, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Le piccole vittorie di Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 16, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Noi libanesi sopraffatti da una guerra non nostra ". Ecco i due articoli:
Il FOGLIO - " Le piccole vittorie di Assad"
L’Organizzazione per la distruzione delle armi chimiche, fresca di un improbabile Nobel per la Pace, ha annunciato ieri una parziale “mission accomplished” in Siria: sono stati distrutti o resi inoperativi i siti di produzione delle armi chimiche, e l’operazione è stata fatta rispettando la deadline che scade oggi. Gli ispettori sono riusciti ad accedere a 21 siti su 23, i due mancanti sono stati ritenuti troppo pericolosi, sono in zone contese tra ribelli e regime, non si sa bene chi li gestisca, ma pare che buona parte di quel che c’era dentro ai siti sia stata spostata in un’area sicura. L’inventario non è ancora iniziato, ma c’è l’ordine di farlo il prima possibile: si tratta comunque di due siti, il grosso è fatto. O così pare. Perché ora inizia la parte difficile: distruggere mille e rotte tonnellate di materiale chimico, gas sarin soprattutto, che costituisce l’arsenale – proibito – di Bashar el Assad. Gli americani avevano chiesto che il processo di distruzione – che è molto costoso e molto rischioso, nonché molto lungo – fosse ospitato dalla Norvegia, ma l’Organizzazione ha detto che lì ci sono limiti tecnici insuperabili e stanno ancora decidendo come affrontare questa seconda fase, cruciale, del processo. Un processo che va di pari passo con quello diplomatico che però si è arenato un’altra volta, con buona pace dei tanti sostenitori di Ginevra 2. Secondo la Reuters, la data fissata – il 23 novembre prossimo – è slittata, perché i russi e gli americani non riescono a mettersi d’accordo su chi siano i rappresentanti della delegazione dell’opposizione ad Assad: Mosca vorrebbe più delegazioni (così è più facile che litighino tra di loro e non si arrivi ad alcun accordo) mentre gli americani spingono per la presenza del nucleo storico dei ribelli, quello della Syrian National Coalition. S’incontreranno la settimana prossima in un bilaterale a Ginevra, i russi e gli americani, la questione dell’eventuale dipartita di Assad è sul tavolo, ma non condivisa. Mentre sembra confermato un raid di Israele nella terra degli Assad, Latakia, a Damasco si muore di fame, c’è un’epidemia di poliomielite in corso, i bombardamenti del regime continuano, le forze di Hezbollah sono ormai schierate come un esercito regolare. L’emergenza umanitaria è piuttosto evidente, il numero dei morti supera ampiamente le 100 mila vittime, ma si continua ad attendere una conferenza di pace che finirà per sancire la vittoria di Assad, e la cattiva coscienza dell’occidente.
La STAMPA - Francesca Paci : " Noi libanesi sopraffatti da una guerra non nostra "
«Gas chimici o meno, a rischiare la distruzione di massa siamo noi libanesi, tra poco qui ci saranno solo più siriani» borbotta il gioielliere Bassam Soutou nel suo negozio al centro di Zgharta, capitale dell’omonimo distretto cristiano a pochi chilometri dalla città frontaliera di Tripoli, dove gruppi sunniti locali si scontrano da giorni con gli avversari alawiti proiettando la vicina guerra civile sul Paese dei cedri. L’esodo delle famiglie in fuga dalla carneficina da 130 mila vittime ha investito la Giordania, l’Iraq, la Turchia, ma in maniera assai maggiore il Libano, dove sono riparati la metà dei 2,2 milioni di profughi (850 mila secondo i dati ufficiali, 1,3 milioni secondo le organizzazioni umanitarie), uno ogni 4 dei 4,5 milioni di abitanti. Bassam testimonia il disagio dei connazionali: «Passano il confine con le donne incinte, accettano qualsiasi lavoro per pochi dollari, non pagano tasse, la situazione dei siriani è drammatica ma noi siamo al collasso». A pochi isolati c’è uno scantinato con 18 posti auto, in ciascuno dei quali, senza finestre né riscaldamento, vivono dieci persone. «Per ogni garage paghiamo 100 dollari al mese» racconta Khaled el Aswad, scappato un anno fa da Hama insieme alla madre, ai sei figli e alla moglie Karima che a giugno ha partorito il piccolo Hassan. Nella loro «stanza» illuminata dalla luce bluastra della tv ci sono materassi, valigie con il lucchetto, uno specchio, un pacco-cibo dell’Onu da cui estraggono succhi di frutta per gli ospiti. In Siria Khaled faceva l’operaio, manteneva una casa a due piani e arrotondava raccogliendo olive in Libano. Ora lavora in cantiere per 5 dollari al giorno. Karima gli versa il tè e scuote la testa velata: «Tra poco la temperatura scenderà a 2 gradi e noi abbiamo solo le coperte. Altro che armi chimiche, finchè l’America non attaccherà non ne usciremo. Saddam è stato fatto fuori in cinque giorni, con Assad ce ne vorranno venti, ma è l’unica soluzione». Nel magazzino al piano terra, un camerone appena meno umido al prezzo di 250 dollari, la 21enne Mariam el Alaf può permettersi di abitare con il marito, il bimbo e nessun altro grazie ai risparmi della famiglia borghese di Homs: «Il regime era orrendo, ma ora preghiamo per Ginevra II, tutto fuorché questo inferno». La provincia di Zgharta, con i suoi 50 mila abitanti incatenati alla sorte dei 15 mila siriani che vivono tra loro, è il paradigma del Libano. «I turisti non vengono più e gli affitti sono lievitati, ma sono fiducioso, è un caso diverso da quello palestinese, alla fine della guerra ci sarà il controesodo» ragiona Antoine Franghia, interfaccia della federazione delle municipalità nel partnerariato con Oxfam Italia per l’assistenza ai rifugiati. Al di là della strada il commerciante Nabil monitora gli uomini e le donne in ciabatte che fanno la spesa con il voucher da 40 dollari dell’Onu: riso, zucchero, latte in polvere, niente sigarette né alcol. «I progressi sulle armi chimiche sono incoraggianti» commenta Khalil Harb, caporedattore di Assafir, il maggiore quotidiano libanese tutt’altro che ostile a Damasco. La prima pagina è sulla Siria. Ma le organizzazioni internazionali raffreddano gli animi: «Se anche il conflitto finisse domani, ci vorrebbero dieci anni per risolvere il problema dei profughi». L’ambasciatore libanese in America Chedid conferma che solo nel suo Paese l’esodo è costato all’economia 7.5 miliardi di dollari. Il prezzo umano è incalcolabile. «La crisi siriana sta tirando fuori il peggio di noi» ragiona la grafica 34enne Lana el Errawi in un caffè di Hamra, il quartiere alla moda di Beirut dove sono comparsi homeless e medicanti. Nel parlare posiziona prudente la borsa sotto la sedia. A Beirut s’incontrano i siriani più poveri o quelli con il Porsche Cayenne esuli dall’inizio della crisi. Guidando tra i vigneti e i campi di canapa della Beqaa invece, nella valle segnata dalle bandiere del partito filo-Assad Hezbollah e quelle degli avversari del movimento di Hariri sostenuto da Riad, si contano centinaia di tende. Il governo libanese non ha voluto costruire strutture come Zaatari, in Giordania, e si ritrova con ogni buco affittato e il 15% dei profughi che vive accampato tra la spazzatura. Nel campo profughi palestinese di Baalbek, uno dei 13 del Libano, il cielo è ancora più nero. Negli stessi 2 chilometri quadrati, dove i rifugiati del 1948 sono cresciuti fino a raggiungere quota 5 mila, si sono riversati almeno altrettanti profughi siriani palestinesi (85 mila in tutto il Paese) facendo esplodere il prezzo delle uova, la disoccupazione già al 35%, i rapporti sociali. «La differenza tra la Siria e il Libano è come tra il cielo e la terra» sospira mamma Darim allattando il piccolo Itmar. Un connazionale espropriato sessant’anni fa come i suoi nonni le affitta oggi un tugurio senza vetri alle finestre per 100 dollari. Ci dormono in undici, dice, stanno per scoppiare. Il Libano sta per scoppiare. Le armi chimiche detonano in un’eco lontana.
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