Riportiamo da FORMICHE.NET l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " 16 ottobre '43: una ferita ancora aperta ". Dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/10/2013, a pag. 11, l'intervista di Francesco Battistini ad Aharon Appelfeld dal titolo " Lui sarebbe felice di essere odiato seppelliamolo in silenzio senza perdono ", a pag. 8, l'intervista di Gian Guido Vecchi a Monsignor Marcello Semeraro dal titolo " «I Lefebvriani non fanno parte della Chiesa» ", la breve dal titolo " «L’ex SS? Amico e soldato fedele» ", l'articolo dal titolo " Il negazionismo diventa reato. Primo sì in Senato ".

Erich Priebke
Ecco i pezzi:
FORMICHE.NET - Fiamma Nirenstein : " 16 ottobre '43: una ferita ancora aperta"

Fiamma Nirenstein
C’è un segno di dolore nella Comunità di Roma, nonostante la sua vibrante vitalità. Specialmente le donne, che sono madri, hanno come un eco rauco nella voce. Un segno di dolore e di tradimento. Si racconta che alcuni fra i 207 bambini che furono deportati fra i 1259 ebrei trascinati via, molti in pigiama e camicia da notte alle 5 di mattina del 16 ottobre 1943, svariati furono gettati dal primo piano dentro i camion, come pesi morti, per poi finire ad Auschwitz. I rastrellamenti non si limitarono al ghetto dove gli ebrei vivevano dal 1555: i tedeschi inseguirono le famiglie ebraiche in tutta Roma, per esempio in Trastevere, e la città intera porta le cicatrici delle urla dei nazisti, delle spinte per le scale, delle botte col calcio del fucile, delle fughe disperate a piedi, senza le proprie cose, senza i propri cari, dietro il primo angolo, sul primo tram, via per sempre. Anche Kappler, il comandante tedesco della deportazione, lo riporta: non ci furono manifestazioni antisemite di giubilo, come invece era accaduto in molte città d’Europa dove imperversavano le razzie. Ma neppure proteste. Le leggi razziali del ‘38, che nel dibattito storiografico sono ritenute da alcuni molto più blande di quanto non siano state effettivamente, sono a volte state viste come una blandizie mussoliniana nei confronti di Hitler, una concessione del duce che invece non aveva, secondo alcuni, nulla contro gli ebrei e non condivideva il razzismo dell’alleato tedesco. Molti italiani, si dice oggi, non capirono come mai si privassero di diritti consolidati e acquisiti i loro concittadini, ormai tali da duemila anni, ovvero dal tempo di un’altra deportazione, quella di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, da parte dei Romani.
Ma mia madre mi ha raccontato che nessuno dei compagni di scuola o dei professori levarono una sola voce per protestare contro il suo allontanamento, né contro quello di sua sorella. Quanto al nonno Giuseppe Lattes stesso, un distinto dipendente della Banca commerciale italiana, oltretutto reduce della prima Guerra mondiale, la sua cacciata dal lavoro non fece alzare un sopracciglio. E i fratelli antiquari di mia nonna furono denunciati e catturati a causa delle spiate dei loro dipendenti, che poi, così mi è stato raccontato, si impossessarono dei loro negozi.
Gli ebrei del ghetto di Roma furono traditi due, tre volte: furono innanzitutto, in modo assai semplice e fattuale, traditi dai tedeschi. Kappler, ormai padrone di Roma, chiese la consegna di 50 kg d’oro in cambio della salvaguardia, e ognuno ha visto al cinema la disperata raccolta di fedi, catenine, piccole stelle di David da cui quel popolo semplice si separò, raggiungendo in fretta la quota raggiunta e superandola fino a 80 kg, certo che quello scudo di difesa tutto d’oro li avrebbe salvati.
La lezione, tuttavia, rimase la solita nei secoli: la violenza antisemita non conosce patti quando non sei considerato un interlocutore, ma un essere inferiore, un subumano.
L’interiorizzazione dell’impotenza fu precedente alla deportazione: la direzione ebraica, dice Raul Hilberg nel testo fondamentale La distruzione degli ebrei d’Europa, benché consapevole del pericolo, restò acquattata e zitta per non provocare ulteriormente i tedeschi e per non allarmare gli ebrei. Il rabbino capo Zolli fuggì (nel ‘44 si fece cristiano), nessuno chiuse la sinagoga. Gli ebrei, e questo è il secondo tradimento, furono traditi dalla fiducia nell’idea che non si sarebbe andati oltre, tanto che il pontefice non avrebbe consentito la deportazione sulla soglia della sua casa. Ci fu un flebile tentativo dell’arcivescovo Hudal, curato della Chiesa tedesca di Roma, che lanciò un appello al generale Stahel. Non ottenne niente, e non si fece null’altro, né per prevenire né, più tardi, per protestare. Il Papa, con grande sollievo di Hitler, mantenne il silenzio. Ciò non significa che i monasteri non si dettero poi da fare per nascondere gli ebrei fuggiti, circa la metà della comunità. Ma il blando popolo italiano di fatto assistette alla terribile razzia del ghetto senza colpo ferire. Il 30 novembre il ministero dell’Interno italiano emise istruzioni rivolte ai capi delle province nelle quali si stabiliva che gli ebrei dovevano essere raggruppati in campi di concentramento e che i loro beni dovevano essere sequestrati. L’illusione degli italiani brava gente si infrangeva sulla Repubblica di Salò: le legioni, la polizia, i carabinieri, la milizia riuniti nella Guardia nazionale repubblicana, i membri del Partito fascista riuniti in “Brigate nere” si resero disponibili per le retate.
È logico pensare che dopo il mostruoso evento delle deportazioni e dopo le leggi razziali, l’Italia avrebbe dovuto chiedere perdono in ginocchio. Ciò non accadde affatto. Per abrogare le leggi razziali dal 25 luglio ‘43 si deve arrivare al 20 gennaio del ‘44, e per stabilire una prima forma di indennizzo si arriva addirittura al marzo del ‘55. Molti analisti, come Giorgio Israel, hanno dimostrato come gran parte dell’intellettualità più stimata non abbia mai fatto ammenda per il suo antisemitismo, e come i maggiori nomi dell’Accademia messi in cattedra a spese delle epurazioni dei professori ebrei siano rimasti intatti fari della cultura italiana. Mi ha sempre stretto il cuore pensare che quando il professore Attilio Momigliano fu reintegrato nella sua cattedra, la trovò sdoppiata perché quello che gliel’aveva portata via potesse restare al suo posto. Sdoppiata. Questa è l’immagine che gli ebrei italiani non possono dimenticare del loro alveo italiano, checché possano sostenere per amore di pace e nonostante le ripetute affermazioni di solidarietà degli anni successivi. Da una parte brilla l’immagine dell’italiano affettuoso e amichevole, il cui migliore amico è sempre ebreo, che subisce le leggi razziali senza poi intenderle veramente. Ma essa resterà storicamente contraddetta dall’ inerzia e persino dall’opportunistica complicità di chi ha subito nella sua capitale la selvaggia razzia di quel giorno di ottobre.
Adesso, l’Italia, come quasi tutti i Paesi europei è di nuovo contagiata dalla tabe dell’antisemitismo. I dati sono impressionanti, le sue espressioni sanguinose. Se ci fosse un sussulto di dignità, la lotta per combatterlo da parte di chi ha assistito o ha partecipato all’eliminazione di 6 milioni di persone, dovrebbe essere furiosa, determinata. Ma non è così: la paura di dispiacere di infrangere un tabù intoccabile, il rifiuto di guardare in faccia residui di destra e di sinistra della malattia peggiore che il nostro continente abbia mai contratto, la difficoltà di intimare alla componente islamica immigrata, veementemente antisraeliana e antisemita, di cessare dall’incitamento antisemita e antisraeliano, disegna uno scenario pauroso e incerto per il futuro. Le continue menzogne su Israele che anche Napolitano ha riferito soprattutto a una strisciante ripresa dell’antisemitismo, non vengono di fatto condannate né combattute. Il ghetto è stato di nuovo assalito dall’antisemitismo che ha fatto decine di feriti ed è costato la vita nell’82 al bambino Stefano Tachè. Gruppi di fanatici hanno assalito gli ebrei romani a casa loro ripetutamente. Le deportazioni sono lontane, il nazismo è morto, ma il lavoro da fare per curare la ferita è ancora tanto.
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CORRIERE della SERA - Francesco Battistini - " Lui sarebbe felice di essere odiato seppelliamolo in silenzio senza perdono "

Aharon Appelfeld
GERUSALEMME — «Non so se vale la pena di fare tanto rumore, intorno alla morte d’un nazista come Priebke. Non so nemmeno quanto conti il luogo e il modo in cui viene sepolto. Alla fine, da qualche parte deve pur essere messo. Io non proclamo la vendetta su un morto e credo che la gente non dovrebbe chiedere vendetta. Lui non è energia: è solo cenere e tenebre».
Anche a Yad Vashem, il memoriale ebraico dell’Olocausto sulle colline di Gerusalemme, oggi si ricorderanno i settant’anni dei rastrellamenti nel Ghetto romano. Anche stavolta, Aharon Appelfeld non ci sarà: «Non vado mai a queste cerimonie». Resterà nella sua casa di Mevaseret Zion, il sobborgo dei falascià di Gerusalemme famoso per un castello lasciato dai Crociati, per il primo Mc Donald’s kosher del mondo e soprattutto perché, a 81 anni, ci sopravvive lui: lo scrittore della Shoah. Che era un bambino quando fu sterminata la sua famiglia. E tutto solo riuscì a scappare da un lager in Romania. E venne adottato «da quel sottosuolo fatto di contrabbandieri e assassini in cui capii che ci sono criminali molto meno criminali dei criminali di guerra». E diventò cuoco dell’Armata Rossa. E arrivò sulle spiagge tra il Lazio e la Campania stando nascosto, rubando la frutta e l’acqua per campare, tenendosi stretto la vita che uno come Priebke gli avrebbe voluto rubare: «Sentivo parlare molto di lui...». Era un ragazzo che voleva solo dormire, Aharon, ma lo sguardo doveva stare spalancato: «Allora pensavo a nascondermi nei boschi. Per non essere preso. Le mie grandi esperienze di vita, le ho fatte tutte tra il 1939 e il 1945. Dai sette ai tredici anni. A quell’età, certi nomi ti s’incidono per sempre nella memoria...».
Le opere di Appelfeld sono maturate in Israele ma la testa, com’è per tutti i sopravvissuti, è rimasta in quei boschi. Ha letto sui giornali ebraici quel che succede a Roma: «Non si possono applicare i parametri della convivenza umana, quando si parla di quelli come Priebke. Non si può pensare ai fiori, a qualcosa da dire in memoriam. Lui era un assassino orribile, un essere umano di seconda classe: non può certo avere dei funerali di prima classe. Altrimenti è il nero che diventa bianco. La bugia che si fa verità. Le vittime che devono spiegarsi, mentre l’assassino diventa la vittima». Detto questo, riposi senza pace: «C’è una responsabilità storica della Germania, è vero. E capisco la tentazione di dire: lo tengano loro. Ma in fondo gli è stato concesso di vivere a Roma, di morire a Roma. Sapeva che cosa sarebbe accaduto. Queste sono persone che hanno vissuto seminando odio, morire raccogliendo odio è quasi una soddisfazione postuma. Vanno sepolte e basta, come si fa con tutti i grandi criminali. Senza onoranze. Senza parole. I loro delitti sono storia, la loro morte è solo cronaca».
Il perdono lo lascia ai cristiani, se ne sono capaci: «No, no, no, no, no — scandisce cinque volte Appelfeld, che le parole le pesa una per una —. C’è un confine, una montagna altissima che non si può scalare nel cammino di chi ricorda. Il limite è il perdono. Non può essere donato a un assassino di massa. La peggiore umiliazione per lui è che gli altri ricordino, non cerchino vendette e insieme, però, non perdonino. In uno dei miei occhi non c’è il perdono, nell’altro adesso c’è l’accettazione della sua morte: lo brucino o lo mettano da qualche parte sottoterra. In un buco piccolo. Coprano tutto. E lo lascino lì». Dice lo scrittore che essere uomini, da vecchi, non è un dovere facile da adempiere. Ma per un vecchio nazista è impossibile: «Non è un essere umano come gli altri. Questi criminali si sono spinti così avanti da non ritrovare più un significato al loro essere uomini. Oggi si chiudono nella difesa ripetitiva dell’ordine eseguito, del non aver potuto far altro, anche se loro hanno voluto fare quello. Non sono uno storico, non ho studiato le responsabilità di tutti i criminali di guerra e non so quanti nazisti vivi ci siano ancora, in giro per il mondo: hanno novanta, cento anni, però non è che siamo andati a cercarli proprio tutti... È rimasto un buco nella memoria pubblica. Si parla tanto di Shoah, ma spesso non s’è fatto molto per onorarla. Molti criminali sono riusciti a sfuggire al processo. C’è gente come Priebke che ha potuto superare i cento anni praticamente indisturbata. Hanno già avuto la loro buona sorte, perché le loro vittime a quell’età non sono potute arrivare».
Il male banale, che Hannah Arendt vedeva nella gabbia di Eichmann, oggi sembra trasformarsi nel male più idiota: «Ho visto in tv che al funerale si sono presentati anche i neonazisti. Gente che s’identifica nell’assassino, nell’errore assoluto senza sapere nulla, aver visto mai nulla. A questi ragazzi non hanno spiegato a scuola che cos’è stata la Seconda guerra mondiale? Forse sono duri a capire. Forse hanno avuto gli insegnanti sbagliati. Forse c’è una mentalità molto difficile da cambiare». Questo male non ha paragoni, dice Appelfeld, ma epigoni sì. E pericolosi eredi: «Le parole del figlio di Priebke sono la cosa peggiore. Il suo messaggio è: date pure mio padre agli israeliani, loro sono cannibali, se lo mangeranno anche da morto. Le idee non se ne vanno con Priebke...». Il sospiro è profondo quanto il disgusto: «Questa gente non mi piace quando muore e nemmeno quando rinasce».
CORRIERE della SERA - Gian Guido Vecchi - " «I Lefebvriani non fanno parte della Chiesa» "

Monsignor Marcello Semeraro
Come ricorda anche Semeraro stesso nel corso dell'intervista, Benedetto XVI ha revocato la scomunica dai Lefebvriani. Come possono, quindi, essere definiti 'al di fuori della Chiesa' ?
La risposta del vescovo è un'arrampicata sugli specchi. La realtà è che Papa Benedetto XVI ha riammesso all'interno della Chiesa cattolica, pur con qualche distinguo, i lefebvriani. Semeraro può smentire finché vuole, ma la realtà è questa.
CITTÀ DEL VATICANO — «Mi dispiace se è capitato che il dissenso sia stato espresso anche in modo violento o con offese, così si aggiunge sofferenza a sofferenza. Tuttavia la reazione e lo scandalo della popolazione di Albano erano prevedibili. E dimostrano quanto fosse nel giusto il Vicariato di Roma quando ha escluso esequie pubbliche proponendo una preghiera privata e discreta che è stata rifiutata...». Monsignor Marcello Semeraro, 65 anni, è il vescovo di Albano e una delle persone più vicine a Francesco. Il Papa lo ha nominato segretario del suo «G8», il Consiglio di otto cardinali. Già docente di ecclesiologia alla Lateranense, è appena rientrato a casa. Fuori c’è il caos. «I lefebvriani hanno una sede qui ad Albano dai tempi dello scisma. Io non sapevo nulla dei funerali, la loro comunità non dipende da me: non è la Chiesa Cattolica».
Eccellenza, dopo la revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani c’è molta confusione. Nel 2009 Benedetto XVI volle tendere la mano alla Fraternità San Pio X, perché rientrasse nella Chiesa. Tre anni di discussione sono finiti al punto di partenza: rifiutano il Concilio e tutto ciò che è accaduto dopo. La trattativa è fallita. E ora?
«La situazione resta la stessa di prima. Non sono in comunione con la Chiesa cattolica. C’è stata la revoca delle scomuniche ma lo stesso Benedetto XVI aveva chiarito che non per questo mutava lo statuto canonico della Fraternità. Poiché non sono in comunione con il successore di Pietro, i loro atti erano e rimangono illegittimi, come resta la sospensione a divinis».
Dice che ciò che è accaduto dimostra che il Vicariato aveva ragione...
«È evidente. Si parlava di “pubblico scandalo” ed è ciò che è avvenuto. Il Vicariato non ha escluso la preghiera di suffragio, in forma discreta e privata, per invocare la misericordia del Signore. La preghiera non si nega a nessuno, è un atto cristiano. Ma la legge canonica proibisce il funerale, che è un atto liturgico pubblico, ai peccatori “manifesti” che non abbiano dato segni di pentimento e là dove questo è motivo di scandalo per i fedeli. La proibizione è legata a eventi pubblici e notori...».
Cioè la responsabilità del capitano delle SS nella morte di 335 persone alle Fosse Ardeatine, la negazione della Shoah, la rivendicazione dei propri atti fino all’ultimo?
«Certo. Pubblico è notorio è il delitto, pubblica e notoria è la mancata conversione, pubblico e notorio è lo scandalo che suscita nella comunità cristiana. È già accaduto: in alcune diocesi del Sud Italia i vescovi hanno proibito le esequie là dove è evidente e nota la responsabilità nei delitti di mafia e l’assenza di pentimento».
I lefebvriani non la pensano così...
«La proibizione delle esequie per “pubblico scandalo” c’era anche nel Codice di Pio X, che dovrebbero conoscere. Nelle loro valutazioni, evidentemente, ritengono che Priebke non abbia commesso un delitto e che non avesse nulla di cui pentirsi. Si vede che certe posizioni negazioniste, come quella del vescovo Williamson, non erano poi così isolate».
Il vescovo Fellay, superiore dei lefebvriani, ha detto che Francesco è «un modernista» e seguirlo «metterebbe in pericolo la nostra fede».
«La Chiesa cerca sempre la riconciliazione. Ma queste non sono parole di un bimbo, non si possono prendere alla leggera. Sono dichiarazioni molto gravi, offensive e ingiuste».
CORRIERE della SERA - " «L’ex SS? Amico e soldato fedele» "

don Floriano Abrahamowicz
Le camere a gas? «Erano usate per disinfettare». Priebke? «Un amico, un cristiano, un soldato fedele, unico caso di innocente dietro le sbarre». Pensieri e parole espressi ieri a «La Zanzara» di Radio24 da don Floriano Abrahamowicz (foto ), prete lefebvriano espulso per le sue posizioni. E proprio alla confraternita che l’ha cacciato ha fatto i «complimenti» per aver accolto la salma di Priebke.
CORRIERE della SERA - " Il negazionismo diventa reato. Primo sì in Senato "

Il negazionismo imbavaglia le testimonianze dei sopravvissuti.
Il voto in Commissione Giustizia al Senato è un primo passo, speriamo che quella contro il negazionismo diventi presto una legge a tutti gli effetti, come negli altri Paesi civili europei.
ROMA — Con un iter lampo, durato poche ore, la commissione Giustizia del Senato ha approvato a larghissima maggioranza un brevissimo disegno di legge che istituisce il reato di negazionismo. Una nuova fattispecie, spiega il presidente della commissione Francesco Nitto Palma (Pdl), che potrà essere introdotta nell’articolo 414 del codice penale (ultimo comma), che già prevede il reato di apologia, punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Il testo — che ora passa all’esame dell’aula — è praticamente passato all’unanimità in commissione Giustizia del Senato. Hanno votato contro solo Carlo Giovanardi (Pdl) ed Enrico Buemi (Psi). Per il capogruppo del Pdl Renato Schifani, l’approvazione in commissione di questo testo «è un risultato di grande valore per il nostro Paese. Tanto più importante perché arriva alla vigilia di una giornata di enorme significato per le vittime della ferocia nazista. Da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso». Anche il Pd, con la senatrice Monica Cirinnà, esprime soddisfazione per questo primo risultato raggiunto: «L’approvazione del testo sarà una risposta definitiva anche a quanto contenuto nel testamento di Priebke che negherebbe l’esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento. Un atteggiamento odioso che ora diventa una preciso reato».
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