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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.10.2013 Iraq: strage di bambini a pochi Km da Mosul
cronaca di Francesco Battistini

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 ottobre 2013
Pagina: 13
Autore: Francesco Battistini
Titolo: «Iraq, camion bomba contro la scuola. Strage di bambini»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 07/10/2013, a pag. 13, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "Iraq, camion bomba contro la scuola. Strage di bambini". Bene ha fatto Battistini nel raccontare la strage, che invece è stata largamente ignorata dai telegiornali.


Francesco Battistini

GERUSALEMME — Non fosse perché è entrato nella scuola elementare d’un piccolo villaggio del Nord e con un camion-bomba ha fatto esplodere l’intero edificio e ha ucciso quattordici bambini fra i 6 e i 12 anni, l’ultimo kamikaze non sarebbe nemmeno una notizia: solo nel finesettimana, in Iraq, ci sono stati almeno sette attentati e un’ottantina di morti (ma potremmo sbagliarci per difetto). Solo in settembre, mille ammazzati e duemila feriti. Cifre che non hanno uguali in alcun «dopoguerra» moderno. Si uccidono così anche i bambini, in questo 2013 iracheno che s’avvia a diventare il peggiore degli ultimi sei anni, e la strage di ieri mattina nella scuola di Qabak, a una settantina di km da Mosul, la biblica Ninive, sciocca perfino un Paese che ha avuto quasi seimila uccisi in nove mesi: «E’ una tragedia — piange il sindaco di Qabak, duecento abitanti e praticamente un bimbo morto in ogni famiglia, tutti sciiti turcomanni —, questi piccoli erano lì per studiare. Qual è la loro colpa?».
La loro, non c’è. Ma di colpe se ne trovano molte, in ciò che riserva il più dimenticato dei drammi mediorientali. Nel 2003, più o meno oggi, l’Onu votava la risoluzione 1.511 che autorizzava «ex post» la Forza multinazionale: il primo contingente (macedone) s’univa trionfale ad americani e inglesi. Nel 2003, due mesi più tardi, veniva catturato Saddam: il presidente Bush prometteva al mondo un Iraq «più libero e giusto». Trascorso un decennio, e venti mesi dopo il ritiro dell’ultimo soldato americano, la strage degli scolaretti di Qabak ci dice che il governo regolarmente eletto dello sciita Nour Maliki ha totalmente perso il controllo del Paese. Sia sabato che ieri, mentre attraversavano il ponte di Bagdad che collega il quartiere di Kadhimiya (sciita) con quello di Adhamiya (sunnita), sono stati uccisi 37 pellegrini che andavano a onorare la tomba d’un imam. E nelle stesse ore, esplodevano due caffè della capitale, venivano uccisi due giornalisti a Mosul, sirene e scoppi anche a Bassora… Dal 2006, e come ormai in gran parte dei teatri delle primavere arabe, anche il conflitto iracheno è diventato soprattutto interreligioso. La minoranza sunnita che si sente minacciata dagli sciiti, con un’opinione pubblica in realtà più spaventata che coinvolta e professionisti del terrore che, da quando se ne sono andati gli americani, agitano la propaganda e s’immolano in attentati ogni giorno più sanguinosi: i baathisti sunniti del vecchio regime riuniti sotto la sigla di Naqshabandi, i qaedisti dell’Isis che spesso li fiancheggiano (e che usano zone come Qabak per andare a combattere in Siria), gli irriducibili filo-iraniani seguaci dello sciita Moqtada Al Sadr. Nel 2008, altro annus horribilis da seimila morti, gli Usa riuscirono a raffreddare il clima con una specie di riconciliazione fra le parti: l’anno dopo, ci si «limitò» a dieci autobombe al mese. Oggi che le autobombe mensili sono settanta, non si vede chi possa placare gli animi. E da Washington, quando si guarda a Bagdad, in realtà si pensa a Kabul. Due missioni sempre andate in parallelo: già, che Afghanistan sarà dopo il ritiro?

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