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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
18.09.2013 Siria: le prove dell'utilizzo delle armi chimiche e la loro provenienza
cronache e commenti di Carlo Panella, Daniele Raineri, Francesco Semprini. Interviste a Maurizio Barbeschi e Carla Del Ponte di Paolo Mastrolilli e Valeria Fraschetti

Testata:Libero - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Paolo Mastrolilli - Francesco Semprini - Valeria Fraschetti
Titolo: «Lavrov faccia tosta: 'Le armi chimiche? Rubate a Gheddafi' - Negli occhi dei bimbi di Damasco ho visto tutto l’orrore dei gas - Ban Ki-moon non chiude all’uso della forza - La Del Ponte: Armi chimiche, indizi anche a carico dei ribelli»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 18/09/2013, a pag. 21, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "  Lavrov faccia tosta: «Le armi chimiche? Rubate a Gheddafi» ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Cosa dicono gli iraniani che combattono in Siria per fare vincere Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 1-15, l'intervista di Paolo Mastrolilli a Maurizio Barbeschi  dal titolo " Negli occhi dei bimbi di Damasco ho visto tutto l’orrore dei gas ", a pag. 15, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Ban Ki-moon non chiude all’uso della forza ". Da REPUBBLICA, a pag. 17, l'intervista di Valeria Fraschetti a Carla Del Ponte dal titolo " La Del Ponte: Armi chimiche, indizi anche a carico dei ribelli ".
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : "  Lavrov faccia tosta: «Le armi chimiche? Rubate a Gheddafi» "


Carlo Panella

La Russia continua a penetrare come il coltello nel burro nelle fragili difese della diplomazia di Usa, Francia e Gran Bretagna che devono ormai prendere atto che l’accor - do di Ginevra sul disarmo chimico della Siria favorisce in realtà solo Bashar Assad. Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri di Mosca, al termine di un incontro col suo omologo francese Laurent Fabius è arrivato sino a smentire l’evidenza del rapporto degli ispettori dell’Onu che, sia pure indirettamente, attribuiva all’esercito di Assd la responsabilità del massacro del 21 agosto. È tutto scritto nero su bianco, così come nere su acciaio sono le scritte in cirillico delle ogive che hanno ucciso 1400 civili nei quartieri di Damasco occupati dai ribelli. Ma Lavrov ha ormai gioco per fare il furbo, per smentire la casa Bianca e lo stesso segretario dell’Onu Ban Ki Moon che hanno dichiarato Assad «criminale di guerra». Lavrov insinua addirittura che i ribelli si sono tirati addosso il gas da soli: «Tutti i fattori devono essere studiati in modo approfondito; nella regione girano armi di ogni tipo, dei tempi sovietici e anche recenti. Quelle armi che sono state consegnate durante il conflitto in Libia nonostante l’embar - go dell’Onu, sono in circolazione in tutta l'Africa settentrionale e forse anche oltre; ci sono basi serie per credere che si sia trattato di una provocazione…». Ma, oltre la beffa, Usa, Francia e Inghilterra si rendono ormai conto di dover pagare anche lo scotto di un gravissimo loro danno politico e che probabilmente saranno presto costrette a una ingloriosa ritirata diplomatica. La Russia infatti si rifiuta tassativamente di permettere nella apposita risoluzione che l’Onu autorizzi l’uso della forza quando e se ci si renderà conto che Assad in realtà non disarma affatto tutto il suo arsenale chimico. Secondo Lavrov in quel caso «tutto dovrà ritornare al Consiglio di Sicurezza», dove peraltro è già pronto a opporre il veto a qualsiasi azione armata contro Assad. Una incitazione chiara e palese al dittatore siriano perché continui nei suoi massacri, con la garanzia di essere impunito e impunibile. Intanto, mentre i combattimenti con le armi convenzionali continuano feroci in tutta la Siria, mentre il comandante militare dei ribelli siriani Selim Idriss chiede invano a Usa e Europa di inviargli indispensabili armamenti e di imporre ad Assad una «no fly zone », la crisi siriana contagia la Turchia. Ieri è infatti esplosa una autobomba al valico di frontiera tra Siria e Turchia di Bab al Hawa /7 morti), probabile ritorsione all’abbattimento dell’altro ieri, da parte dell’aviazione turca, di un elicottero siriano. «Le forze armate turche sono pronte a difendere il proprio territorio», ha detto minaccioso il ministro degli esteri turco Davutoglu. Ed è un ipotesi drammatica che non si può escludere.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Cosa dicono gli iraniani che combattono in Siria per fare vincere Assad "


Daniele Raineri

Roma. Il comandante iraniano parla seduto su una sedia di plastica, descrive le milizie irregolari di combattenti siriani che guida in battaglia contro i ribelli. E’ il tramonto, su una terrazza di Aleppo, la città nel nord della Siria divisa a metà tra governo e guerriglia. “La maggior parte dei combattenti siriani su questo fronte li abbiamo addestrati noi in Iran. Sono bravi, hanno poche aspettative, hanno bisogno soltanto di due cose: di sigarette e del loro tè”. E’ un’intervista video girata quest’estate e trovata addosso a un uomo ucciso dai ribelli siriani, è in farsi – la lingua iraniana – ed è stata confermata come autentica da due analisti iraniani sentiti a Teheran dal corrispondente del New York Times. E’ la prova più recente del coinvolgimento nella guerra civile siriana di militari mandati dal governo di Teheran. Questa interferenza pesante è anche la ragione del cambio strategico di Israele, annunciato ieri in un’intervista dall’ambasciatore uscente a Washington, Michael Oren, che ha detto che “i ribelli siriani, anche se alleati con al Qaida, sono da preferire come vicini a Bashar el Assad, che è alleato con gli iraniani”. Per questo Israele vorrebbe che Assad cadesse – ed è una posizione netta rispetto all’attendismo precedente. Il calcolo potrebbe essere questo: se americani e russi riusciranno davvero a trasferire e distruggere l’arsenale chimico di Assad entro metà del 2014, allora il governo di Gerusalemme vedrà nell’accozzaglia magmatica di gruppi ribelli una minaccia minore rispetto all’asse Bashar-Iran. Nel video trafugato il comandante iraniano parla con tono accondiscendente dei filogovernativi siriani, li tratta con distacco superiore, come ascari locali. “Nel loro esercito sono trattati con durezza, sono umiliati, noi invece gli parliamo con rispetto. Tornano volentieri a combattere con noi, anche se ogni 25 giorni c’è la rotazione, non restano mai più a lungo nello stesso posto. Questa non è una guerra tra l’esercito e il popolo, è una guerra tra il bene e il male, noi siamo il bene, dall’altra parte ci sono Israele, l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar…”. Il rapporto tra i consiglieri militari stranieri e i soldati siriani e i civili sunniti che esce fuori dall’intervista e dalle immagini ricorda la counterinsurgency, la strategia americana per conquistare la simpatia dei locali in Iraq e Afghanistan. “Guidiamo piano i veicoli in mezzo a loro, stiamo attenti a salutare sempre”. A tratti spunta fuori anche il sentimento di superiorità persiano: “Qui prima non c’erano esseri umani, era un luogo abbandonato”, dice un iraniano in macchina. “Nemmeno adesso, ci sono soltanto arabi…”, risponde un altro. Ieri un articolo scritto da Farnaz Fassihi per il Wall Street Journal rivelava che migliaia di volontari sciiti arrivano di notte da paesi arabi, a bordo di bus con i finestrini coperti, in una grande base delle Guardie della rivoluzione a 20 km da Teheran. E’ il sito dove le Guardie tengono i loro missili balistici e da quest’anno serve anche come campo d’addestramento e indottrinamento delle milizie che andranno in Siria a combattere per difendere il territorio ancora controllato dal presidente Bashar el Assad. I corsi sono misti: come sparare con armi pesanti, ma anche lezioni con predicatori sciiti che sottolineano il carattere di jihad, di guerra santa, della campagna in Siria. L’ideatore di questa gigantesca operazione di aiuti militari è il generale iraniano Qassem Suleimani, capo dell’unità “Al Quds” (“Gerusalemme”), che si occupa delle missioni all’estero delle Guardie della rivoluzione. La rappresentanza iraniana alle Nazioni Unite nega qualsiasi interferenza in Siria. Ma è stato l’intervento di Suleimani a salvare dal collasso l’esercito di Assad, con un commissariamento militare che va sotto il nome di “Piano Suleimani” – e sabato tutto il governo iraniano ha reso riverentissimo omaggio al generale, al funerale della madre. Teheran decise di intervenire dopo l’attentato del 18 luglio 2012, che spazzò via metà dell’establishment assadista, inclusi il ministro della Difesa e il capo dell’intelligence, e dopo l’assalto dei ribelli ad Aleppo, la città più popolosa del paese. Già alla fine dell’estate 2012 i militari iraniani avevano stabilito centri di comando al fronte e si erano inseriti nella catena di comando dell’esercito siriano. Un comandante ribelle dice via Skype al Wall Street Journal: “E’ Suleimani a governare la Siria, Assad è soltanto il suo podestà”.

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Negli occhi dei bimbi di Damasco ho visto tutto l’orrore dei gas "


Paolo Mastrolilli     Maurizio Barbeschi

Trema di commozione, la voce del dottor Maurizio Barbeschi, mentre racconta l’orrore che ha visto in Siria. Lui era il capo della componente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella squadra che ha fatto le ispezioni sui luoghi dell’attacco chimico del 21 agosto, ed è uno dei tre firmatari del rapporto consegnato lunedì al Consiglio di Sicurezza. Nato a Roma, Barbeschi ha studiato in Italia, a Berkeley e al Mit di Cambridge, prima di cominciare una carriera che lo ha portato nelle zone più pericolose del mondo, dai controlli sulle armi in Iraq, alle pandemie globali. Per capire il suo mestiere, bisogna immaginare uno di quei drammatici film sulle grandi epidemie, tipo «Outbreak». Solo che Barbeschi queste scene non le vede al cinema: le vive nella realtà, da protagonista.

Lei era con gli ispettori che hanno raccolto i campioni?

«Viaggiavo sulla macchina numero uno, quella contro cui hanno sparato. Hanno mirato prima alle gomme posteriori, e poi al cofano. Poi ad altezza d’uomo».

Chi è stato?

«Io non sono riuscito a vedere. Comunque attraversavamo la zona controllata dalle milizie di Assad».

Cosa avete fatto dopo gli spari?

«Per fortuna l’auto era blindata. Siamo tornati indietro, l’abbiamo sostituita, e siamo ripartiti».

Perché?

«Per la gente, per i colleghi dell’Onu. Gli spari sono stati davvero la parte più facile di quella giornata. Moadamiyah, il quartiere dove è avvenuto l’incidente, era isolata da nove mesi: nemmeno gli aiuti Onu potevano entrare. Una situazione straziante. Ho visto un padre che girava con una bambina in braccio che pesava venti chili, e ci chiedeva aiuto. Dovevamo tornare, non potevamo lasciare quella gente senza prendere campioni e raccogliere testimonianze. Dopo di noi, infatti, anche gli aiuti Onu sono tornati a chiedere i permessi per passare».

Ha parlato con dei sopravvissuti?

«Io sceglievo le persone da esaminare e intervistare. Ho parlato con un bambino che nell’attacco aveva perso 26 famigliari. Era rimasto solo: i suoi occhi non li scorderò mai più. È vero che c’erano già stati già centomila morti nella guerra, e non esiste una classifica delle atrocità. Ma così, con le armi chimiche, mancano le parole per descrivere».

Cosa le hanno detto i testimoni?

«Ho parlato con i casi peggiori, più acuti. Mentre li visitavo ho incontrato questo medico, responsabile dell’ospedale di fortuna, e mi ha raccontato che la notte dell’attacco per andare da casa sua al luogo di cura doveva camminare sui feriti e sui cadaveri. Forse perché erano corsi a cercare aiuto, ed erano morti per strada».

Inpassatoc’eranostatialtriattacchichimici: perché questo è stato così letale?

«La quantità del gas e l’inversione termica. Per capire come funziona il sarin, dovete immaginare le discoteche quando sul pavimento rovesciano l’anidride carbonica: si spande allo stesso modo. Se fa relativamente freddo, come quella notte, resta a terra e si diffonde più velocemente. Infatti i sopravvissuti con cui ho parlato abitavano al secondo o terzo piano, dove è arrivato meno gas».

Alcuni ambasciatori hanno detto che l’alta qualità del sarin usato fa pensare alla responsabilità del regime.

«Non è nel nostro mandato stabilire responsabilità. Noi crediamo però che per vedere sintomi così forti, in persone così diverse, a cinque, sei, anche sette giorni dopo l’attacco, sia stata usata una grande quantità di gas con metodi non artigianali di dispersione. Se hanno fatto potenzialmente mille vittime, vuol dire che almeno diecimila persone sono state colpite».

Anche il metodo di lancio e i razzi incolpano il regime?

«Non è il mio campo. Però nel rapporto le traiettorie sono indicate...».

Come operatore di un’organizzazione umanitaria, che tipo di accountability si aspetta?

«L’ufficio legale ci ha spiegato che esistono tre livelli di colpevolezza: l’uso delle armi chimiche è vietato sempre, anche in guerra, ma l’uso sui civili è un’aggravante, e l’uso indiscriminato su larga scala è un’aggravante ulteriore. Il 21 agosto si sono realizzate tutte queste condizioni. Ora tocca al Consiglio di Sicurezza decidere».

Perché lei fa questo mestiere?

«Per la gente che possiamo aiutare. Ma i veri eroi sono altri, tipo le nostre mogli che hanno la pazienza di sopportarci».

Tornerà in Siria, se l’accordo tra Usa e Russia verrà confermato?

«Penso di sì, anche se poi continuerò a non dormire la notte».

La STAMPA - Francesco Semprini : " Ban Ki-moon non chiude all’uso della forza "


Francesco Semprini

Ritmi serrati al Palazzo di Vetro dove all’indomani della divulgazione del rapporto sull’uso di armi chimiche in Siria, sono riprese pressoché immediatamente le consultazioni per giungere a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Il «day-after» del giorno più lungo e controverso della crisi siriana, si è aperto con la conferenza stampa di Ban Ki-moon per presentare i lavori della 68a Assemblea generale durante la quale il Segretario generale è tornato sul tema. Ha auspicato la prosecuzione decisa e celere dei lavori sottolineando la necessità che l’accordo tra Usa e Russia sulle armi chimiche sia «tradotto in azione». Non sono ammesse divisioni, avverte Ban, tra i quindici membri del Consiglio di Sicurezza. L’obiettivo è il raggiungimento di un’intesa per l’adozione di una risoluzione che «rafforzi» proprio l’accordo di Ginevra. È intorno al Capitolo 7 della Carta dell’Onu che si articola, ancora una volta, il confronto, specie tra i 5 membri permanenti del Cds, con la Russia e la Cina contrarie a ogni riferimento al ricorso alla forza in ultima ratio in caso non vengano rispettati i dettami di una risoluzione Onu.

Usa, Gran Bretagna e Francia sono tornati a riunirsi nel pomeriggio di ieri con gli altri due membri permanenti nell’ambito di consultazioni informali per discutere sulla risoluzione. Sul tavolo negoziale c’è ancora la seconda bozza elaborata da Parigi che contiene il riferimento al Capitolo 7, nonostante Washington nei giorni scorsi avesse ammesso di essere pronta ad attendersi una risoluzione orfana del riferimento in questione. E sul «capitolo della controversia» si è pronunciato Ban, seppur a microfoni spenti, spiegando che è senza dubbio lo strumento «più efficace» per applicare i contenuti della risoluzione sulla Siria. Perché se «in linea di principio tutte le risoluzioni sono legalmente vincolanti, in realtà - ha proseguito - avremmo bisogno delle chiare linee guida che solo il capitolo 7 della Carta Onu fornisce». Secondo fonti del Palazzo di Vetro, tuttavia, la contesa rischia di diventare una questione di principio anche perché il Capitolo 7 non fa solo riferimento al ricorso all’uso della forza ma anche a sanzioni economiche e di diverso genere.

Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, in una conferenza a Mosca con il collega francese, Laurent Fabius, ha ribadito che il rapporto dimostra solo il fatto che sono state usate armi chimiche in Siria, ma restano molti interrogativi da chiarire, tanto da parlare di «possibili provocazioni», ribadendo così che nella risoluzione non ci sarà spazio per l’uso della forza. Lavrov ha inoltre respinto ogni insinuazione relativa al ritrovamento di armi in cirillico da parte degli ispettori sul Ground zero degli attacchi chimici. Fabius invece, è convinto che il rapporto non lasci dubbi sul fatto che dietro gli attacchi c’è il governo di Assad. E a suo sostegno arriva un rapporto di Human Rights Watch secondo cui i dati dell’Appendice 5 del dossier rivelerebbero che «i percorsi di volo degli ordigni convergono sulla base militare Republican Guard 104th Brigade, situata pochi chilometri a nord del centro di Damasco».

La REPUBBLICA - Valeria Fraschetti : " La Del Ponte: Armi chimiche, indizi anche a carico dei ribelli "


Valeria Fraschetti    Carla Del Ponte

«In Siria il regime ha commesso crimini di guerra, ma sulle responsabilità nell’uso di armi chimiche non avremo prove conclusive finché Damasco non garantirà accesso alla Commissione Onu».
Da bravo magistrato, mostra cautela Carla Del Ponte. Ma, all’indomani della pubblicazione del rapporto che accusa indirettamente le forze siriane dell’attacco del 21 agosto, l’ex procuratrice capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, oggi membro della Commissione Onu sulle violazioni ai diritti umani in Siria, lascia anche trapelare frustrazione. Lei ha appena ricevuto un invito “personale” da Damasco. Un regalo per le sue dichiarazioni passate su un sospetto uso dei gas da parte dei ribelli?
«Temo di sì, ma abbiamo ribadito alle autorità siriane che la mia visita deve essere ufficiale. La richiesta della Commissione di entrare in Siria però continua a essere ignorata».
Quindi, come procede l’indagine Onu?
«Lavoriamo nei Paesi vicini, intervistando profughi, disertori, membri d’opposizione. E sul territorio, con telefonate e via Skype ».
Che può dirci sulle responsabilità dei crimini di guerra?
«Su quelle dei lealisti abbiamo ormai prove conclusive. È stata creata una lista di nomi affidata all’Alto Commissariato per i diritti umani, che potrebbe essere impiegata qualora, in seno al Consiglio di Sicurezza, ci fosse la volontà politica di chiedere il deferimento dei responsabili all’Aja».
E sulle violenze dei ribelli?
«L’assenza di un loro comando unificato rende il lavoro arduo: abbiamo censito circa 700 fazioni ».
Avete indizi sull’uso di armi chimiche da parte loro?
«È stato forse usato Sarin il 19 marzo. Ma dobbiamo accertarlo, come per tutti i 14 casi sospetti su cui stiamo indagando. Non esistono ancora prove concludenti».
L’accordo fra Stati Uniti e Russia è un vero progresso?
«È una svolta: potrebbe essere un primo passo verso la pace»
Che lezione abbiamo imparato dalla crisi balcanica?
«Un eventuale intervento armato in Siria porterebbe solo ad altre vittime. I negoziati sono l’unica via d’uscita».

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