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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
17.09.2013 Siria, il verdetto dell’Onu: scritte in russo sui razzi al sarin
cronache di Carlo Panella, Maurizio Molinari, Redazione di Libero, Alberto Stabile. Intervista a Tarek Osman di Francesca Paci

Testata:Libero - La Stampa - La Repubblica
Autore: Carlo Panella - Redazione di Libero - Maurizio Molinari - Francesca Paci - Alberto Stabile
Titolo: «La metà dei ribelli vuole la guerra santa - Washington-Mosca braccio di ferro sulla risoluzione Onu - Il Medioriente è una regione nel caos. L’incertezza di Obama va apprezzata - Maalula, tra i combattenti cristiani: con il raìs per fermare gli islamisti»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 17/09/2013, a pag. 19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " L’Onu inchioda Assad. E inguaia Putin e Obama ", l'articolo dal titolo " La metà dei ribelli vuole la guerra santa ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Washington-Mosca braccio di ferro sulla risoluzione Onu ". Dal sito internet della STAMPA, l'intervista di Francesca Paci a Tarek Osman dal titolo " Il Medioriente è una regione nel caos. L’incertezza di Obama va apprezzata ", preceduta dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 17, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo "Maalula, tra i combattenti cristiani: con il raìs per fermare gli islamisti".
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : "  L’Onu inchioda Assad. E inguaia Putin e Obama"


Carlo Panella

Bashar al Assad ha ordinato di lanciare missili terra terra con testate contenenti ben 350 litri del mortale gas Sarin il 21 agosto scorso: il rapporto degli ispettori dell’Onu pubblicato ieri conferma quello che tutto il mondo sapeva. Con un di più di elementi raccapriccianti. Il rapporto infatti precisa che l'attacco chimico contro i quartieri della periferia est di Damasco controllati da ribelli di Goutha, Ein Tarma, Moadamyah e Zalmaika è stato sferrato tra le 2 e le 5 del mattino, per massimizzare fino in fondo le conseguenze letali. Le basse temperature della notte e l’umidità nell’aria che li appesantisce, hanno infatti permesso infatti al gas letale di penetrare nei rifugi sotto il livello del suolo dove si rifugiavano i civili sterminandoli in massa. Tracce di gas nervino sono state trovate nel sangue prelevato dalle vittime dell’85% dei casi. Gli ispettori dell’Onu non hanno avuto la possibilità materiale di accertare con certezza la provenienza dei razzi e quindi non individuano esplicitamente il responsabile - indicano solo “indizi di colpevolezza”- ma testimoni oculari indipendenti e i satelliti Usa hanno rilevato che 18 razzi sono stati lanciati quel giorno su Goutha e gli altri quartieri dall’aeroporto militare di Mezzeh, sotto controllo delle truppe di Assad, mentre l’Unità 8200 dell’esercito di Israele ha intercettato le comunicazioni tra il quartier generale del regime e le truppe in cui venivano chiaramente chieste informazioni sull’impiego del Sarin. D’altronde, che l’esito del report degli ispettori Onu fosse esplicito sulle responsabilità di Assad è stato chiaro già sabato scorso quando il solitamente prudentissimo segretario dell’Onu Ban Ki Moon ha detto che «Assad è un criminale di guerra che dovrà essere processato », aggiungendo poi ieri che quello di Damasco è il peggior attacco chimico dai tempi di Saddam.
COME SADDAM
Il rapporto dell’Onu si sofferma anche su altri 13 episodi in cui in Siria è stato impiegato il Sarin durante i combattimenti, tra i quali, pare, uno per responsabilità dei ribelli (ma le accuse non sono specifiche). È comunque evidente che solo le forze armate di Assad dispongono delle strutture (in specie l’Unità 450) che possono armare una così grande quantità di gas Sarin ed effettuare 18 lanci di missili terra-terra come è avvenuto il 21 agosto. Naturalmente, il rapporto Onu ha effetti deflagranti sul già fragile accordo siglato a Ginevra tra Sergjej Lavrov e J. F. kerry sul disarmo chimico di Damasco. Accordo che ovviamente Assad ha definito domenica scorsa: «Una nostra grande vittoria ». Innanzitutto viene totalmente sgretolata dal punto di vista formale della legalità internazionale rappresentata dagli ispettori Onu la credibilità di un Assad che ha sempre negato l’impiego da parte delle sue truppe di gas proibiti e che peraltro sino a 5 giorni fa si è rifiutato di ammettere di disporre di quelle armi chimiche che ora si dice disposto a distruggere. In secondo luogo, il rapporto Onu mette in non poche difficoltà la Russia di Putin, che ha sinora protetto e continua a proteggere il suo alleato Assad, che ora si trova nella scabrosa situazione di partner internazionale di un «criminale di guerra». La tensione si è quindi subito scaricata sui rapporti Usa-Russia.
RUSSIA IMBARAZZATA
Ieri Serghei Lavrov, ha lamentato «la mancanza di comprensione » con gli Usa e ha voluto precisare che qualsiasi riferimento all’uso della forza (esplicitamente invocato più volte dopo l’accordo sia da Kerry che da Barack Obama) «rischia di distruggere gli sforzi di pace». Semmai, ha avvertito Lavrov, si dovranno «costringere i ribelli a negoziare». Da parte sua Kerry al termine di un incontro a Parigi tra i capi delle diplomazie di Gran Bretagna e Francia, e di un incontro col presidente Hollande, ha chiesto una risoluzione Onu «forte e robusta da approvare possibilmente entro la settimana», che fissi una precisa e vincolante tabella di marcia per mettere sotto controllo le armi chimiche. Kerry, ha anche avvertito che gli americani non tollereranno misure dilatorie, se Bashar Assad «non manterrà gli impegni ci saranno gravi conseguenze».

LIBERO - " La metà dei ribelli vuole la guerra santa "

È sbagliato sia sostenere che gli oppositori di Bashar Assad sono tutti integralisti, sia dimenticare che lo stesso Bashar si appoggia ad altri integralisti: da Hezbollah al regime iraniano, seppure ora con il volto più rassicurante di Rohani. Ma il peso nella rivolta di elementi vicino a al-Qaida sta comunque aumentando in modo allarmante: lo attestano in modo indipendente tra di loro uno studio del noto think tank britannico di temi della difesa Jane’s e il rapporto degli ispettori Onu. Lo studio, pubblicato dal Daily Telegraph, dà i numeri, nel senso che calcola lediverse componenti della lotta armata contro Bashar Assad, a partire da interviste a membri degli stessi gruppi armati e elaborazioni di servizi di informazione. Sarebbero 100.000 combattenti in tutto, divisi addirittura in un migliaio di formazioni differenti. Almeno 10.000 di loro sarebbero legati direttamente a al-Qaida, e tra i 30 e i 35.000 ad altri gruppi integralisti magari non direttamente qaedisti, ma comunque molto poco raccomandabili. La principale differenza tra i qaedisti e gli altri islamisti, secondo Jane’s, è che i primi vogliono scatenare una deflagrazione mondiale, mentre i secondi hanno effettivamente l’obiettivo di scalzare Bashar Assad. Ma per imporre un regime integralista, piuttosto che lo Stato laico e democratico promesso dalle altre componenti della rivolta. Charles Lister, autore dello studio, osserva peraltro che se l’Occidente non apparisse più interessato a far cadere Assad è probabile che la proporzone degli estremisti crescerebbe ulteriormente, e peraltro al-Qaida sta cercando di crearsi spazio anche attraverso una campagna sistematica di assassinii di comandanti appartenenti al laico Esercito Siriano Libero. Questo sempre maggior peso di una componente integralista sempre più feroce è confermato appunto dal brasiliano Sergio Pinheiro, presidente della commissione creata dall’Onu per indagare sulle violazioni dei diritti umani in Siria. Pinheiro non nasconde che il governo per conto suo sta bombardando civili a tutto spiano e in modo criminale, ma denuncia come stiano crescendo anche le violazioni dei diritti umani compiute da gruppo di oppositori estremisti.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Washington-Mosca braccio di ferro sulla risoluzione Onu "


Maurizio Molinari    Barack Obama, Vladimir Putin

Siglato l’accordo sul piano di disarmo chimico della Siria, il braccio di ferro fra Washington e Mosca riprende dalla sua trasformazione in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il Segretario di Stato John Kerry fa tappa a Parigi per incontrare gli alleati più stretti: Francia, Gran Bretagna, Turchia e Arabia Saudita. «Non tollereremo ritardi da parte di Bashar Assad, serve una risoluzione forte per realizzare il disarmo» dice il Segretario di Stato, pronunciandosi a favore di un testo che prevede «conseguenze» in caso di inadempienza, ovvero faccia riferimento al capitolo VII della Carta dell’Onu che legittima il ricorso alla forza.

Il collega britannico William Hague e quello francese Laurent Fabius gli danno manforte: «Non devono esserci vie d’uscita per Assad». D’altra parte l’accordo sul disarmo siglato a Ginevra da Kerry con il collega russo Sergei Lavrov cita esplicitamente il capitolo VII. Se i tre alleati premono è anche perché vogliono esercitare il massimo di pressione sul regime Assad, che entro sabato deve consegnare la lista completa dei propri armamenti chimici: è il primo banco di prova del piano concordato con Mosca. Ma il Cremlino ritiene che le minacce occidentali abbiano l’effetto contrario, irrigidendo Assad.

La Russia ha in mente un’altra strada diplomatica, tesa ad allentare la pressione su Damasco: varare una risoluzione che minacci co n se g ue n z e senza però prevedere il ricorso esplicito alla forza, ipotizzando che in casi di violazioni gravi vi sarebbe una seconda risoluzione basata, forse, proprio sul capitolo VII. Ciò significa allungare i tempi e dare maggiori margini ad Assad, disinnescando la minaccia di intervento militare. Ecco perché Lavrov da Mosca ribatte aspro alle dichiarazioni che arrivano da Parigi: «Non vi sarà ora nessuna risoluzione Onu con il ricorso alla forza, volerla imporre significa far saltare Ginevra 2» ovvero la conferenza sulla transizione politica per il dopo-Assad.

Mosca minaccia il veto sul ricorso alla forza e chiedea Washington, Londra e Parigi di «fare di più per spingere l’opposizione a sedersi al tavolo delle trattative». L’accusa di Lavrov alla diplomazia americana è di «impegnarsi più per l’uso della forza che per la composizione della crisi». Sul fronte di Ginevra, è Fabius che fa un’apertura a Lavrov. «La percezione del pubblico di un contrasto netto fra il regime di Assad e i gruppi islamici è errata, deve emergere il ruolo dell’opposizione non islamica» afferma il ministro degli Esteri francese, lasciando intendere che Parigi è al momento la più impegnata su questo fronte. Fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro aggiungono che «Parigi sta moltiplicando gli sforzi per aprire canali anche con i gruppi dei ribelli che negli ultimi 18 mesi avevano guardato all’Italia» ma dopo la svolta di Roma sulla crisi siriana, con le aperte critiche all’ipotesi dell’intervento militare, «hanno iniziato a guardare altrove».

Nei colloqui con gli inviati di Ankara e Riad Kerry si è soffermato sulla necessità di rafforzare i gruppi di ribelli non collegati ad Al Qaeda e ha chiesto più coordinamento con gli Stati Uniti, che da tre settimane hanno accelerato la consegna di armi leggere agli insorti. Per Washington il braccio di ferro all’Onu con la Russia sulla risoluzione è infatti parallelo alla volontà di accelerare il rafforzamento dei ribelli sul territorio.

Ma non è tutto perché, dietro le quinte, continua lo scambio di messaggi fra Washington e Teheran. Il presidente iraniano Hassan Rohani fa sapere di essere pronto ad «appoggiare qualsiasi leader siriano eletto dal popolo», aprendo di fatto al dopo-Assad, mentre fonti vicine alla Casa Bianca non escludono la possibilità di un suo incontro con Obama a margine della nuova sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu.

Nell’Amministrazione Obama è forte la convinzione che l’apertura di un canale diretto con l’Iran sulla soluzione della crisi siriana potrebbe risultare decisivo nello spingere Assad, e i generali alawiti che lo sostengono, ad accettare la transizione verso un governo ad interim capace di traghettare la Siria fuori dalla guerra civile.

La STAMPA - Francesca Paci : " Il Medioriente è una regione nel caos. L’incertezza di Obama va apprezzata "

Un'intervista molto interessante, stupisce che non sia stata inclusa nell'edizione cartacea del quotidiano.


Francesca Paci                Tarek Osman

Il Medioriente non è mai stato prevedibile, ma oggi lo è meno che mai. Per questo, forse, la cautela tanto imputata al presidente americano Obama può servire più dell’irruenza. Parola di Tarek Osman, economista di formazione, editorialista di testate come il Financial Times, Foreign Affairs, the Guardian e autore del premonitore e acclamatissimo «Egypt on the Brink (Yale University Press, 2010), pubblicato pochi mesi prima della rivoluzione del 2011 e tradotto in arabo, francese, giapponese e olandese.
Gli attivisti siriani sono delusi dall’accordo Usa-Russia, sostengono che la montagna abbia partorito il topolino e confermano il loro giudizio negativo su Obama. 
 
Come mai, per quanto mostri discontinuità, l’attuale presidente americano è ormai più inviso alle piazze arabe di George W. Bush? 
«Sebbene agli arabi piaccia pensare il contrario, non sono sicuro che alla fine della fiera la popolarità di Obama al Cairo, Beirut, Damasco, sia davvero rilevante: per lui conta il processo decisionale più che l’immagine e conta il come renderlo comprensivo al suo partito e al suo elettorato. Per l’America poi viene assai prima la propria sicurezza nazionale dell’umore di Tahrir. Voglio dire che ragionare oggi sulla base del discorso di Obama al Cairo nel 2009 non aiuta, perchè da allora il Medioriente è cambiato tanto e sta ancora cambiando in maniera così radicale che per trovare un parallelo bisogna tornare alla prima guerra mondiale. Insomma, oggi per gli Stati Uniti il focus è sulla strategia, la popolarità può attendere». 
 
Putin è all’offensiva. Pensa che voglia o possa vincere la battaglia per il cuore e la mente del mondo arabo? 
«L’editoriale di Putin per il New York Times era ben scritto ma credo che il suo destinatario, più che le piazze arabe, fosse il Congresso americano. L’articolo era una specie di esercizio della logica “divide et impera” per insinuare nel Congresso i dubbi decisivi sull’intervento facendo leva sul terrorismo, il nervo scoperto degli americani».
 
Nessuna ambizione mediorientale dunque, nello zar Putin? 
«Può darsi che io sbagli, ma credo che la Russia sia lontanissima dal Medioriente, negli ultimi 40 anni la sua unica relazione “araba” è stata con la Siria e sebbene abbia soldi non ha alcuna nozione geopolitica. Ci sono tre grandi attori regionali oggi: l’Arabia Saudita, gli altri paesi del Golfo e l’Egitto. Per quanto riguarda Riad, sebbene la fiducia nell’America sia diminuita in seguito alla fretta di Obama di scaricare Mubarak e al mancato aiuto nel reprimere la rivolta in Bahrain (nonostante gli Usa abbiano lì la loro 5° flotta), i rapporti con Washinton resteranno forti e non solo per il petrolio (rispetto al quale esistono già altri partner) ma per via dell’Iran, la cui minaccia allinea gli interessi sauditi americani e israeliani. Gli altri paesi del Golfo, Qatar in testa, ragionano grosso modo come Riad. Infine c’è l’Egitto, dove gli Stati Uniti hanno di fatto “creato” l’esercito e per essere sostituiti in questo dalla Russia ci vorrebbe tanto tempo. Tra l’altro, al di là dei brontolii reciproci, non credo che Usa e militari egiziani vogliano davvero separarsi perché ci andrebbe di mezzo la pace con Israele che nessuno vuole rompere e quel che resta ancora stabile di una regione nel caos, dalla Siria alla Libia alla Tunisia fino all’Algeria».
 
Qualcuno in Egitto rimpiange il discorso di Condy Rice, ritenendolo più deciso di quello di Obama
«Obama nel 2009 voleva riposizionare l’America in Medioriente dopo gli anni di Bush, cercava una nuova via. Oggi però siamo di fronte a una regione diversa, Condy e Obama non sono comparabili ma neppure Obama 2009 e Obama 2013. La partita è cambiata, per quanto drammatica sia la guerra in Siria è solo una proiezione del vero scontro con l’Iran».
 
Nel dibattito sull’ipotesi di intervento in Siria s’inseriscono i libici, gli unici che lo sostengono in virtù della propria esperienza
«E’ probabile che i libici potessero sbarazzarsi di Gheddafi solo con la Nato. Per il resto, parlare nel mondo arabo dell’intervento in Siria significa parlare dell’intervento americano in Siria e gli Stati Uniti sono impopolari nelle piazze egiziane sin dal 1940. Questo ha forse cambiato qualcosa nell’alleanza strategica tra Usa e Egitto? No. Oggi, dopo le primavere arabe, l’opinione pubblica viene presa maggiormente in considerazione, l’immagine conta di più, ma la strategia non cambia».
 
Non è curioso che Obama sia poco amato anche in Israele? 
«C’è chi gli rimprovera gli scarsi risultati nel conflitto israelo-palestinese, ma penso innanzitutto che i palestinesi siano troppo divisi per negoziare e poi che si tratti di un nodo troppo complicato da sciogliere in questo momento, sarebbe come voler mettere in ordine la casa mentre il giardino va a fuoco. Per il resto le critiche all’incertezza di Obama, il presidente Amleto, non mi convincono. Se fossi un americano per esempio apprezzerei la sua incertezza verso una guerra in cui non saprei con chi schierarmi. Magari vincessero i ribelli liberali, ma quanti sono? E giacchè chi controlla il terreno oggi in Siria sono da ambo le parti i cattivi, il cinismo geopolitico suggerisce che sia meglio farli ammazzare tra loro. Certo, poi c’è l’aspetto umanitario, la Siria è un dramma, ma forse nell’incapacità di trovare una soluzione l’esitazione di Obama è prova di saggezza più che di stupidità».
 
Last but not least l’Egitto. Anche lì Obama sembra non aver capito bene cosa accadesse: la rivoluzione, la caduta di Mubarak, Morsi, i militari. Perchè non ha saputo convincere nessuno al Cairo, nè i liberali nè i Fratelli Musulmani? 
«Per l’impopolarità storica di cui gode al Cairo Obama avrebbe sbagliato comunque, da qualsiasi parte si fosse schierato. Detto questo l’Egitto è un nodo cruciale, l’hub culturale della regione, grande, strategico, influente. E credo che un presidente americano debba curarsi meno di quanto l’Egitto sia entusiasta di lui che di quanto sia stabile in generale. E oggi, con la regione intera in fiamme, l’Egitto regge. Sarebbe avventato pensare che abbia messo fuori gioco per sempre l’islam politico dei Fratelli Musulmani, perché invece in qualche modo tornerà, ma il paese regge».

La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Maalula, tra i combattenti cristiani: con il raìs per fermare gli islamisti "


Alberto Stabile

MAALULA — L’elicottero bianco volteggia attorno al santuario in cerca della preda. Poi, d’improvviso, punta la fusoliera verso terra, resta sospeso per un attimo in quella posizione innaturale e fa partire due missili che, lasciandosi dietro una scia bianca, si schiantano con un boato sulla parete della montagna. Ma, da sotto, i ribelli rispondono sparando ordigni che esplodono contro il cielo azzurro, non lontano dal velivolo dell’aviazione siriana. “Sharmuta!” (figli di puttana) esclama Mikail, il capo della Difesa Nazionale, una milizia cristiana formata da cittadini di Maalula, che assiste a riparo allo scontro, in attesa di lanciare un rischiosissimo contrattacco per riconquistare il villaggio da cui sono stati costretti a fuggire. «Vuole sapere perché hanno attaccato Maalula? Perché questa è la culla della lingua di Gesù, l’Aramaico, perché siamo cristiani e dunque infedeli e perché appoggiamo il presidente Assad», risponde Mikhail, un giovane alto ed atletico nella sua mimetica nuova fiammante. Il quale, prima del 5 settembre, frequentava la scuola alberghiera da cui si sarebbe diplomato a fine anno per correre a dare una mano nel piccolo albergo di famiglia, non lontano dal monastero di Santa Tecla, in cui i guerriglieri islamici del Jabat al Nusra, si sono asserragliati assieme ad alcune suore e una decina di orfani. Montagne arse, color argilla, frastagliate di grotte e cunicoli, eremi scolpiti nella roccia trasformati in postazioni di cecchini. Santuari poveri e silenziosi violati dal clamore della guerra. È qui, in questo scenario rimasto immutabile per centinaia di anni, che i cristiani si sono visti costretti ad armarsi per sopravvivere e a scegliere tra il regime e i suoi nemici, perché, come dice uno dei difensori di Maalula, Faisal, «per noi è giunto il momento in cui o sei contro o sei a favore, non puoi stare in mezzo ». E dunque, «sì, appoggiamo Assad per difendere la nostra libertà e la nostra identità». È un’adesione forzata, ma leale, verso il regime, la loro, che non provoca disagio neanche di fronte alle notizie che arrivano dalle Nazioni Unite, alla certezza che il il gas Sarin è stato usato il 23 agosto contro la popolazione civile della Goutha la grande pianura che circonda Damasco, e all’ipotesi che a farlo siano state le forze governative. «Le bombe chimiche usate nel giorno in cui arrivano gli ispettori? No, non lo crediamo. E poi l’esercito non ha bisogno di usare i gas, basta la sua supremazia nelle armi convenzionali per tenere a bada gli insorti. Sono soltanto bugie» ripetono i miliziani scambiandosi gli argomenti. Ma ci sono anche le accuse di Obama e di Ban Ki-moon, oltre al rapporto degli ispettori. «Obama sta creando una gran confusione. Le sue minacce di bombardare la Siria hanno dato forza e coraggio ai ribelli, non ha capito che siamo noi l’anello debole della catena. Loro, gli americani, hanno subito gli attentati dell’11 settembre ed adesso aiutano i terroristi», ribatte con veemenza Lavandios, il veterano del gruppo, un muratore oltre i 50 anni. Nel riparo a qualche centinaio di metri dall’ingresso di Maalula, risuonano i colpi dell’artiglieria che martella le alture che sovrastano il santuario, da dove i cecchini di Jabat al Nusra tengono nel mirino chiunque tenti di avvicinarsi al villaggio. È una guerra di posizione dispendiosa. Dall’inizio della battaglia, 14 soldati siriani ci hanno rimesso la vita. Ma soprattutto, la gente di Maalula, ha dovuto abbandonare il villaggio, rifugiandosi soprattutto a Bab Tuma, il quartiere cristiano di Damasco. Tutti via, tranne la superiora, madre Sayaf, altre sei suore e alcun bambini, rimasti nelle mani dei ribelli (non meno di 300, si dice). Resta da capire perché il più pacifico e ispirato dei siti religiosi, dove cristiani e sunniti avevano da sempre convissuto in armonia, sia diventato improvvisamente un inferno. Non è stato soltanto, lo scontro settario che si confonde tra le molte “ragioni” di questa guerra civile siriana, ad avere mosso i jihadisti del Fronte al Nusra all’attacco di Maalula. «L’obbiettivo dei ribelli — spiega Mikail — è più strategico, ed è aprire una via di rifornimenti dalla Valle della Bekaa, in Libano, alle porte di Damasco, un piano che hanno tentato di attuare a Qusayr, qualche mese fa, ma hanno fallito». La geografia della regione sembra dargli ragione. Maalula è al centro di una catena di montagne che corre parallela all’Antilibano, a di la del quale si distende la valle della Bekaa e la Bekaa, contesa tra le milizie sciite degli Hezbollah, alleati del regime di Damasco e le fazioni sunnite che appoggiano la rivolta armata contro Assad, essa stessa in gran parte sunnita, è la retrovia della guerra siriana. «Da qui a Balbeck, la capitale della Bekaa — assicura Mikail — ci sono soltanto sette ore di cammino. Le ho contate io stesso, una volta, quando si poteva fare».

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