Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria: per ora nessuna conseguenza per Assad cronache di Francesca Paci, Paolo Mastrolilli, Alberto Stabile
Testata:La Stampa - La Repubblica Autore: Francesca Paci - Paolo Mastrolilli - Alberto Stabile Titolo: «Disarmo, Assad ora canta vittoria - Dall’Unifil 200 soldati a protezione degli ispettori - Tra i cristiani sul fronte di Damasco: se l’America bombarda vince la jihad»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 16/09/2013, a pag. 10, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Disarmo, Assad ora canta vittoria ", a pag. 11, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Dall’Unifil 200 soldati a protezione degli ispettori ". Da REPUBBLICA, a pag. 17, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo " Tra i cristiani sul fronte di Damasco: se l’America bombarda vince la jihad ". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Francesca Paci : " Disarmo, Assad ora canta vittoria "
Francesca Paci Bashar al Assad
Dopo mesi di stallo la diplomazia internazionale sembra voler bruciare i tempi sulla Siria. Nelle ultime ore i leader mondiali si sono messi in viaggio per sigillare con concrete strette di mano un accordo pieno di spifferi sulla cui precarietà gravano anche i toni trionfali di Damasco, convinto di averla spuntata. Oggi, mentre il Consiglio di Sicurezza Onu si accinge a ascoltare il rapporto sulle armi chimiche in Siria del segretario generale Ban Ki-moon, il segretario di Stato americano Kerry arriva a Parigi per incontrare i colleghi francese e britannico Fabius e Hague, un summit tattico a cui il luogotenente di Obama ha invitato anche il ministro degli Esteri turco Davutoglu per includere quei paesi (la Turchia con i suoi 500 mila profughi in testa) che pur avendo accolto positivamente il patto Usa-Russia avrebbero preferito l’intervento.
Kerry sbarca a Parigi dopo un lungo faccia a faccia con il premier israeliano Netanyahu, al quale ieri ha confermato «il ricorso alla forza» nel caso Assad bleffasse. L’israeliano, più favorevole ai raid che alla sia pur intimidatoria «moral suasion», riconosce l’importanza della diplomazia. Ma quando parla di Siria pensa all’Iran: «Il regime di Damasco deve rimuovere le armi chimiche, il mondo deve assicurarsi che i regimi radicali non dispongano di armi chimiche. Non contano le parole ma il risultato».
Teheran, che aveva già inviato segnali a Washington, pare aver ricevuto «il messaggio siriano» degli ultimi giorni e risponde con uno scambio di lettere «esplorative» tra il presidente iraniano Rohani e Obama.
La distruzione degli arsenali chimici di Assad, che anche la Germania si offre di finanziare, smorzerà la guerra? Ne dubitano gli oppositori armati e disarmati che, attraverso la Coalizione nazionale siriana chiedono d’imporre a Damasco lo stop ai missili balistici e all’aviazione oltre alla consegna dei gas letali.
«Sentire Assad che brinda per aver guadagnato tempo con la comunità internazionale è tragico per chi come me ha iniziato a mani nude questa rivoluzione» dice l’attivista Rifaie Tammas dalla Turchia dov’è fuggito dopo l’evacuazione di al Qusair. Ieri il ministro della riconciliazione Ali Hadair ha spiegato la soddisfazione del regime: «L’intesa è una vittoria ottenuta grazie ai nostri amici russi».
Sullo sfondo si agitano gli altri attori internazionali. La Lega araba, che ora auspica un cessate il fuoco globale. La Cina, che ieri ha sottolineato al ministro degli Esteri francese Fabius la propria approvazione per il nuovo corso della crisi siriana. Baghdad, che smentisce il rapporto del quotidiano libanese al Mustaqbal su 20 camion di sostanze letali appena passati dal confine siriano a quello iracheno. Infine l’Arabia Saudita, che se da un lato subisce la retromarcia di Obama e per far buon viso a cattivo gioco invita il presidente iraniano Rohani alla Mecca, dall’altro, nota Marc Lynch su «Foreign Policy», incassa un bonus: ora che la diplomazia si è spesa per Damasco si può risparmiare tempo con Teheran.
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Dall’Unifil 200 soldati a protezione degli ispettori "
Paolo Mastrolilli
La crisi siriana riguarda anche il Libano, e questo è un tema che tocca direttamente gli interessi italiani, perché il contingente Unifil guidato dal generale Paolo Serra potrebbe essere chiamato a fornire uomini per garantire la sicurezza degli ispettori che dovrebbero andare a scovare e distruggere le armi chimiche di Assad.
Il Libano sarà al centro di un vertice che si terrà all’Onu il 25 settembre, a margine dell’Assemblea generale. Intorno al tavolo si siederanno i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, l’Unione Europea, la Banca Mondiale, l’Alto commissariato per i rifugiati, il generale Serra e altri attori istituzionali. L’Italia avrebbe voluto partecipare in maniera diretta, oltre che attraverso il comandante di Unifil, ma il format era già definito da tempo e non è stato possibile modificarlo, a meno di novità dell’ultimo momento.
L’agenda è puntata sulla necessità di dare sostegno economico e politico al Libano, affinché la crisi in corso non lo travolga. Anche prima dell’esplosione della guerra civile in Siria, il paese era attraversato dalle tensioni etniche e religiose che lo avevano insanguinato per anni. La «faida tra sunniti e sciiti», come molti analisti descrivono la dinamica bellica in corso in larga parte del Medio Oriente, esiste naturalmente anche in Libano. Hezbollah, stretto alleato dell’Iran e di Assad, ha qui la sua sede, e combatte apertamente dalla parte del regime in Siria. Gli attentati e gli atti di violenza sono comuni e abbastanza ricorrenti in tutto il Paese, basti pensare alla bomba del 23 agosto che ha fatto vittime tra i sunniti a Tripoli, e quella che una settimana prima aveva preso di mira le milizie sciite nella zona meridionale di Beirut. I profughi arrivati in massa dalla Siria hanno contribuito a complicare la situazione, mentre i ribelli sono arrivati ad accusare Damasco di aver nascosto una parte del suo arsenale chimico proprio in Libano e in Iraq.
Nel sud del paese, poi, continua la missione Unifil guidata dagli italiani, che ha lo scopo di tenere separati Hezbollah e Israele, e possibilmente evitare una ripresa delle ostilità anche su questo fronte. Il contingente, però, potrebbe essere coinvolto anche in Siria. Nei giorni scorsi fonti diplomatiche hanno rivelato che il Dipartimento dell’Onu per le operazioni di peacekeeping ha ricevuto la sollecitazione a tenersi pronto, per collaborare alla realizzazione dell’accordo siglato a Ginevra dal segretario di Stato americano Kerry e dal ministro degli Esteri russo Lavrov. In particolare, è stato chiesto di individuare circa duecento caschi blu di Unifil, da trasferire in Siria nel giro di una settimana, quando bisognerà garantire la protezione degli ispettori della Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons incaricati di individuare e in seguito distruggere le armi chimiche di Assad. È importante sottolineare che stiamo parlando solo di ipotesi. La situazione è estremamente fluida, l’accordo è stato appena concluso, potrebbe non avere seguito, e le diplomazie stanno ancora definendo la risoluzione Onu per incardinarlo. Dunque i dettagli non sono definiti, e la logistica può cambiare in ogni momento. Se però il ruolo di Unifil venisse confermato, magari mettendo gli uomini trasferiti in Siria sotto un altro cappello, il generale Serra potrebbe trovarsi nella condizione di dover individuare caschi blu di diverse nazionalità ben accette, per garantire la protezione degli ispettori da cui dipenderà la missione finalizzata ad evitare l’escalation e possibilmente riavviare il processo politico.
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Tra i cristiani sul fronte di Damasco: se l’America bombarda vince la jihad "
Alberto Stabile
DAMASCO — Al posto delle note gioiose della Marcia Nuziale, sono i colpi di cannone a risuonare sotto le arcate della Chiesa del Cristo, mentre May e Kinan, perfetti nei loro abiti da copertina, sfilano mano nella mano in mezzo alla folla di amici e parenti che le difficoltà della guerra ha ridotto dai previsti 500 ad appena un centinaio. Per il resto, assicura Dina, la sorella di May «non ci sono stati contrattempi. La vita deve continuare». Eppure, nonostante il sole che inonda il sagrato, gli abiti eleganti che svolazzano al vento e la lunga fila di ospiti che s’affrettano a salutare gli sposi, chi allungando una busta, chi soltanto un abbraccio, c’è qualcosa che stona in quest’allegria un po’ obbligata. Forse perché siamo nel quartiere di Kassàa, a duecento metri da Piazza degli Abassidi e a non più di tre chilometri da Jawbar, la roccaforte dei ribelli su cui il 23 agosto si è abbattuto il bombardamento chimico che ha fatto tremare il mondo. E da Jawbar la guerriglia tiene sotto tiro questo quartiere, come testimoniano le carcasse carbonizzate di due automobili parcheggiate di fronte alla chiesa, colpite da razzi Katiuscia. Il fronte dell’interminabile battaglia di Damasco passa da qui. La ragnatela di posti di blocco che l’avvolge e ne strozza le arterie s’è irrobustita. Le postazioni di sacchetti di sabbia dicono che un attacco viene considerato possibile ovunque. Un nuovo nemico s’affaccia per le strade quando cala il buio, ed è la criminalità. All’autista che mi porta a Damasco hanno rapito il figlio. Sequestro lampo. Riscatto di 25 mila dollari. Un’enormità. Due milioni di rifugiati provenienti dalle città dove impazza la guerra civile hanno fatto saltare servizi e prezzi. Un taxi che l’anno scorso costava 100 pound oggi ne costa 500. Eppure il regime, almeno qui a Damasco, non dà segni di cedimento. Le scuole sono riaperte regolarmente, l’Università è affollata. Dopo essere stati evacuati per precauzione, nei giorni scorsi, i ministeri hanno ripreso a lavorare. «Quelli che s’aspettano la caduta di Assad sono come quelli che s’aspettano un film porno trasmesso da Al Manar (la tv degli Hezbollah, ndr) », sorride un amico siriano. Tra fatalismo e rassegnazione. «Cos’altro ci può capitare che non abbiamo già visto in questi due anni e mezzo di guerra civile? », la minaccia americana di bombardare i siti militari siriani, in risposta all’attacco chimico di Jawbar, è piombata sulla gente di Damasco come un altro inutile flagello. «Perché Obama s’è indignato per i morti di Jawbar e non per i centomila che sono stati uccisi prima e per quelli che vengono uccisi davanti alle telecamere al grido di Allahu Akbar? », si chiede monsignor Isak Barakat, vescovo di Afemia (la Città Vecchia) del Patriarcato greco ortodosso di Damasco, che ha officiato il matrimonio di May e Kinan. «E poi, scusate — insiste polemico — tutti abbiamo visto le immagini delle vittime. Ma dov’erano i genitori, le famiglie di quei bambini?». Non è qui, tra i cristiani di Siria, stretti tra un’adesione opportunistica al regime e la minaccia non infondata che se a vincere dovessero essere i jihadisti di Jabat al Nusra il futuro per loro sarebbe anche peggiore, che la minaccia dell’uso della forza da parte di Obama può trovare adesioni. «Non avrebbe senso bombardare la Siria — continua il vescovo — perché l’America non farebbe altro che aggiungere dolore al dolore. Anche se si è parlato soltanto di obiettivi militari, sappiamo, perché lo abbiamo visto molte volte in passato, che le bombe non hanno occhi. Soltanto il dialogo può servire a mettere fine alla guerra». «In ogni caso — aggiunge Jamal, il cognato di May, che ha condotto la sposa all’altare — sarebbe soltanto la gente a perdere ». E poi vaglielo a dire ai cristiani siriani, sempre più numerosi quelli che partono, sempre meno quelli che restano, di essere imparziali. Al di la dell’eclatante e incomprensibile battaglia di Ma’lula, il santuario di Santa Tecla a 40 chilometri da Damasco, “conquistato” dai Jihadisti di Jabat al Nustra, per un motivo evidentemente simbolico, o propagandistico, ognuno qui ha una sua storia “piccola” ma dolorosa da raccontare, un episodio da mettere agli atti in quella che rischia di diventare l’odissea di una minoranza. Sugli scalini di marmo che portano alla chiesa, la dottoressa Bassima, abbraccia una nipote che ha vissuto una brutta esperienza qualche mese fa, allorquando, mentre cercava di espatriare in Giordania è stata bloccata al confine da una banda islamista e rispedita indietro. «L’hanno tenuta per quattro ore nelle oro mani — dice, cercando di fermare le lacrime — senza un perché, mentre tutte le altre donne musulmane sono state fatte passare». Yusseph, orafo di Bab Tuma, lo storico quartiere cristiano della Città Vecchia, racconta della sua casa di campagna saccheggiata e incendiata, la bibbia dissacrata. Maria, chimica all’Università, ricorda il fratello, fermato dai jihadisti mentre cercava di rifugiarsi ad Harasta. «La mia famiglia viene da Hamas. Io sono stata la prima a trasferirmi a Damasco. Lui, George, è voluto restare. Voleva essere l’ultimo ad andarsene perché non voleva lasciare la casa e il lavoro. Ancora lo aspettiamo ». Ma monsignor Isak non s’associa a questi lamenti. «Io noto che se molti hanno deciso di partire da Damasco per andarsene all’estero, tanti altri cristiani sono arrivati dalla provincia e hanno ricevuto ospitalità. È per questo che ogni domenica nella nostra parrocchia si celebrano due o tre matrimoni. Vi sembra questo un segno di paura o un segno di forza?».
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