Siria-Onu: Resa dei conti ? Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/09/2013, a pag.12, il pezzo di Paolo Mastrolilli. Dal FOGLIO quelli di Mattia Ferraresi e Nour Malas a pag. 1 e 3.

La Stampa-Paolo Mastrolilli:" Assad, via le armi chimiche. Ma l'Onu sta per incastrarlo"
Il rapporto che gli ispettori dell’Onu presenteranno la settimana prossima al Consiglio di Sicurezza punterà il dito contro Assad, per l’attacco chimico del 21 agosto scorso. Lo ha detto il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, proprio mentre la Siria inviava una lettera per annunciare la sua adesione alla Chemical Weapons Convention, cioè il trattato che vieta l’uso delle armi chimiche e impone la loro distruzione.
Sviluppi importanti, sullo sfondo del vertice a Ginevra tra i capi della diplomazia russa e americana, Lavrov e Kerry, mentre al Palazzo di Vetro la Francia ha avviato il negoziato su una seconda risoluzione, per vincolare Damasco alle sue promesse.
La lettera siriana di «accesso» alla Convenzione, che «La Stampa» ha letto, precisa in particolare due punti: primo,
Assad si impegna a rispettare da subito le condizioni del trattato, anche se i tempi dell’adesione ufficiale saranno più lunghi; secondo, l’ingresso nella Cwc non significa in alcun modo un riconoscimento di Israele. Peculiarità mediorientali, legate al fatto che, secondo Damasco, il suo arsenale chimico fa da deterrente per quello nucleare dello Stato ebraico.
Il punto importante per la crisi in corso è il primo, perché in teoria significa che Damasco dovrebbe cominciare a smantellare il suo arsenale chimico già da oggi, e consentire pieno accesso agli ispettori della Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons. Assad però, parlando alla televisione di Mosca Rossiya 24, ha detto una cosa diversa: consegnerà le informazioni sulle sue armi solo fra trenta giorni, e lo farà soltanto se gli americani elimineranno dal tavolo la minaccia di usare la forza contro di lui. Quindi ha anche intimato a Washington di sospendere gli «aiuti ai terroristi», ossia gli oppositori del regime, che prima o poi colpiranno anche l’Occidente.
Le modalità tecniche per il censimento e la distruzione dell’arsenale siriano sono al centro dei colloqui tra Kerry e Lavorv, e dal loro successo dipenderà il futuro della proposta avanzata da Putin. Una spinta però potrebbe venire dal rapporto degli ispettori dell’Onu guidati dallo svedese Ake Sellström, che nei giorni scorsi sono stati a Ghouta, sul lugo dell’attacco del 21 agosto. La rivista «Foreing Policy» ha anticipato che secondo fonti diplomatiche occidentali, il resoconto verrà presentato lunedì al Consiglio di Sicurezza e scaricherà la colpa su Assad. Quindi lo stesso Fabius ha spiegato perché: «Il rapporto dirà che c’è stato un massacro chimico, e conterrà certamente delle indicazioni. Solo il regime aveva le riserve di armi chimiche, i vettori per lanciare e l’interesse ad usarle. Quindi possiamo trarre una conclusione da questo».
Il mandato degli ispettori in realtà è limitato a stabilire se gli agenti vietati sono stati utilizzati, e non da chi. Ha voluto così lo stesso segretario generale Ban Ki moon, per evitare di essere strumentalizzato. Se però la squadra di Sellström ha raccolto parti dei razzi usati per l’attacco, e ha la prova che vengono dall’arsenale di Damasco, la responsabilità diventa chiara. Anche la composizione dei gas, il metodo per rilasciarli, e l’eventuale coinvolgimento dell’aviazione potrebbero dare le indicazioni a cui si riferiva Fabius. I portavoce di Ban naturalmente frenano, smentendo che Sellström sarà a New York nel fine settimana e lunedì consegnerà il rapporto, ma confermano che i laboratori al lavoro sui campioni raccolti sono raddoppiati, da due a quattro, proprio per accelerare le risposte.
In vista di questi sviluppi, Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna stanno scrivendo una nuova risoluzione molto tecnica da presentare al Consiglio di Sicurezza, che vincoli Russia e Siria alle loro promesse. La prima, circolata due giorni fa, conteneva un ultimatum di 15 giorni per la rivelazione delle armi possedute da Assad, e un riferimento al Capitolo 7 della Carta dell’Onu, che in caso di violazioni autorizza l’uso della forza. La nuova risoluzione, sempre legata al Capitolo 7, dovrà tenere conto dell’esito dei colloqui tra Kerry e Lavrov, diventando la base comune su cui incardinare l’intesa diplomatica raggiunta, o il terreno su cui dimostrare che Mosca non fa sul serio e rimettere l’opzione militare sul tavolo.
Il Foglio-Mattia Ferraresi:" Il silenzio dei vinti "

Lavrov e Kerry
New York. Il segretario di stato americano, John Kerry, ha portato con sé a Ginevra una pattuglia di esperti di armi chimiche per scrutare a fondo la credibilità della risoluzione diplomatica alla crisi siriana congegnata da Vladimir Putin e accettata – ma per il momento sono soltanto parole – da Bashar el Assad, a condizione però che l’America “smetta di aiutare i terroristi”, cioè di inviare armi ai ribelli. La macchina della diplomazia con il sigillo dell’Onu si è rimessa in moto, ma la politica dell’improvvisazione di Barack Obama, al quale è bastato un cenno di Mosca per passare dai tamburi di guerra a un fragile negoziato per ottenere la consegna delle armi chimiche di Assad, mostra che nella partita ci sono già dei perdenti. L’Onu, innanzitutto. Se anche il segretario generale, Ban Ki-moon, parla di un “fallimento collettivo” in Siria, significa che il potere negoziale del Palazzo di vetro è prossimo allo zero. Nel 2005 l’Onu ha adottato il principio della “responsabilità di proteggere”, ovvero l’obbligo di evitare genocidi, massacri e atrocità come quelli in Ruanda e nei Balcani, dai quali discende l’idea della grande riforma onusiana. La verità, ammette Ban Kimoon, è che “le atrocità continuano e noi continuiamo a non riuscire a proteggere le popolazioni” e l’incapacità di “impedire crimini di massa in Siria negli ultimi due anni e mezzo è una responsabilità che rimarrà sulle Nazioni Unite e sui suoi membri”. A mitigare parzialmente il senso di impotenza che promana dal Palazzo di vetro potrebbe essere il rapporto degli ispettori sulle armi chimiche che sarà presentato a Ban Ki-moon lunedì. Secondo indiscrezioni diplomatiche raccolte dalla rivista Foreign Policy, le prove raccolte dal team dello scienziato svedese Ake Sellström tendono a dimostrare che Assad, e non l’opposizione, è il responsabile dell’attacco con il gas sarin del 21 agosto che, secondo gli Stati Uniti, ha fatto 1.429 morti. Il mandato degli ispettori è quello di stabilire se e in che misura siano stati usati ordigni chimici, in violazione delle convenzioni internazionali, non di decretare il colpevole; tuttavia, dicono le fonti, “dalle prove circostanziate si potrà facilmente dedurre l’identità dell’autore”. Questo potrebbe determinare l’ennesima svolta in un negoziato in cui il broker fondamentale, la Russia, sostiene con ostinata convinzione che siano stati i ribelli a lanciare i missili chimici. Nel frattempo il regime siriano ha inviato all’Onu la documentazione per accedere al bando internazionale sulle armi chimiche, preludio allo smantellamento che Assad promette di cominciare un mese dopo l’adesione al trattato. “La forza dell’Onu è data dalla volontà dei suoi membri, in sé è una scatola vuota”, dice al Foglio P. J. Crowley, ex portavoce del dipartimento di stato. “Ha dimostrato nel caso della Siria la sua sostanziale incapacità di fermare un massacro in assenza di un accordo fra i membri del Consiglio di sicurezza, debolezza che è prevista dal suo statuto ma è anche il frutto dell’uso strumentale che gli stati fanno dell’Onu”, spiega. L’influenza del Palazzo di vetro in Siria, semmai, inizia ora che le parti cominciano a dialogare per trovare una soluzione diplomatica, e già si scontrano sulla forma che l’eventuale accordo dovrebbe assumere. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza, come chiedono gli americani, o una blanda dichiarazione del suo presidente, opzione non vincolante che i russi pongono come condizione necessaria del dialogo? “Questo, ammesso che i dialoghi producano qualcosa, è il primo problema – dice Crowley – Il secondo problema sarà quello della messa in sicurezza dell’arsenale chimico di Assad. Il Pentagono dice che servono 75 mila soldati per prendere il controllo delle migliaia di tonnellate di armi che si pensa il regime abbia, ma chi ce li mette i soldati? Obama ha promesso ‘no boots on the ground’ e altri attori dell’area che potrebbero mettere a disposizione le loro forze sono troppo invischiati nei meccanismi della lotta fra sciiti e sunniti per offrire garanzie. I Caschi blu sono l’opzione più credibile, ma bisogna negoziare un mandato e capire i dettagli. L’Onu in questa storia entra in scena a giochi fatti”. L’altro sconfitto della partita è la leadership americana. Obama ha accettato di lasciare a Putin il posto privilegiato nel proscenio diplomatico in cambio del congelamento di un attacco militare impopolare e vincolato al voto del Congresso, dominato da un’eterogenea fazione di oppositori. Un voto contrario sarebbe un disastro politico, ma è lui stesso ad averlo propiziato rinunciando a usare il potere di commander in chief per cercare la legittimazione del ramo legislativo. L’obiettivo di queste manovre, dominate dalla logica della reazione ai condizionamenti esterni più che da una linea politica positiva, è “rovesciare il tavolo”, dice Crowley. “C’è molta improvvisazione nelle decisioni di Obama, questo è vero, ma niente per lui conta più del risultato. Il suo calcolo funziona così: se le trattative vanno a buon fine la crisi si risolve senza un intervento militare e le conseguenze politiche che comporta. Se il negoziato si rivela un bluff della Russia per prendere tempo, Obama è in una posizione più forte rispetto a quella in cui era due settimane fa. Potrà dire di avere fatto di tutto per evitare l’attacco, e il Congresso non potrà non tenerne conto”. Un calcolo sottile, forse anche scaltro, che però è legato a decisioni che si prendono a Mosca, a Damasco o a Ginevra, non a Washington.
Il Foglio-Nour Malas: " La rivoluzione è morta, ci avete venduto" dicono i ribelli"

Con l’attacco americano alla Siria messo in temporaneo stand by, i ribelli sostenuti dall’occidente ammettono di avere il timore di aver perso la loro migliore occasione per deporre velocemente il presidente Bashar el Assad e mettere in disparte gli estremisti islamici. I ribelli, già frustrati dai ritardi nella consegna degli aiuti militari promessi dagli americani, hanno dichiarato mercoledì di aver rinunciato all’idea di un aiuto straniero determinante dopo che il presidente Barack Obama ha chiesto al Congresso di rimandare il voto sull’attacco alla Siria. Obama ha messo in pausa il suo slancio militare martedì notte, per dare tempo alla diplomazia di fare il suo corso dopo la proposta russa di consegna delle armi chimiche da parte di Damasco, in uno sforzo atto a evitare l’attacco. L’Amministrazione Obama si è mossa mercoledì con l’intenzione di seguire gli sviluppi della proposta russa, con il segretario di stato John Kerry diretto a Ginevra per incontrare la sua controparte russa, Sergei Lavrov. La Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti hanno presentato proposte per una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu a New York mercoledì, anche se un diplomatico occidentale ha dichiarato che i negoziati sul testo non sarebbero iniziati se non dopo aver saputo il risultato dell’incontro Kerry-Lavrov. “La rivoluzione è morta. E’ stata venduta”, ha dichiarato Mohammad al Daher, comandante dell’Esercito siriano libero, il gruppo di ribelli appoggiato dall’occidente. “La gente si era ormai abituata a pensare che Assad sarebbe stato deposto, nessun dubbio in merito. Ma non mi stupirebbe se il risultato finale di queste negoziazioni fosse lasciare Assad in carica, trasformandolo inoltre nell’eroe nazionale che ha salvato la patria”. Lo sforzo degli Stati Uniti di armare i ribelli, autorizzato da Obama a giugno, sembrava un passo avanti mercoledì. Gli Stati Uniti avevano iniziato a rifornire di armi l’Esercito siriano libero, secondo Khalid Saleh, portavoce della Coalizione nazionale siriana. Saleh si è però rifiutato di fornire ulteriori dettagli. Funzionari americani hanno dichiarato invece che il programma è stato rimandato a causa delle iniziali obiezioni dei legislatori americani e della difficoltà di stabilire tratte sicure per consegnare le armi ai combattenti moderati. La Casa Bianca e la Cia, che porta avanti il programma di armamento, hanno rifiutato di rilasciare commenti sul fatto che le prime armi siano effettivamente arrivate a destinazione. Il ritardo dell’attacco americano ha dato ai suoi sostenitori al Congresso una nuova opportunità per promuovere la loro causa. Ma le manovre diplomatiche – e l’offerta di una possibile via di fuga per Assad – sono nuovi motivi di disappunto per i ribelli siriani. I ribelli con base nei sobborghi di Damasco, facendo conto sul supporto degli Stati Uniti, hanno già perfezionato i loro piani di battaglia. Aspettandosi attacchi aerei americani che secondo loro potrebbero aiutare a neutralizzare la forza aerea di Assad, hanno progettato di farvi seguito con un attacco alla capitale siriana che, nelle loro speranze, avrebbe spezzato il regime. Tali aspettative – così come altre speranze dei ribelli per un intervento americano in grado di cambiare completamente gli scenari dopo un conflitto che si trascina da due anni e mezzo – sembrano però irrealistiche. Obama ha proposto un’azione militare americana come metodo per punire il governo di Assad per l’uso di armi chimiche – non come aiuto ai ribelli nella battaglia di terra.Funzionari militari americani hanno dichiarato che la minaccia di un attacco ha in realtà già influenzato la battaglia: hanno detto di aver registrato nelle scorse settimane una ritirata da parte delle forze di Assad, che si sono spostate da posizioni di attacco ai bunker, per ripararsi da una possibile ondata di bombardamenti. Come risultato, il regime ora sarebbe in posizione più debole nell’attaccare le postazioni dei ribelli, particolarmente attorno alla città di Aleppo, secondo questi funzionari. Ma questa settimana i report su nuovi attacchi da parte del regime di Assad suggeriscono che la marea sia cambiata nel momento in cui è sfumata la minaccia di un attacco immediato da parte degli Stati Uniti. Il senatore John McCain (repubblicano), fra i principali sostenitori dell’intervento militare, mercoledì ha definito la proposta russa una tattica per mantenere intatto il regime – e ha detto che le forze governative siriane hanno ricominciato la loro campagna aerea contro le postazioni dei ribelli martedì, incrementando anche gli attacchi di terra. McCain ha detto inoltre che le operazioni militari suggeriscono che Assad si ritenga in grado di poter fare ciò che vuole, restando impunito, mentre la Casa Bianca dibatte su come rispondere alla proposta russa. Il ritardo porta benefici anche ai ribelli estremisti, dicono i ribelli filo occidentali. Quando è emersa la possibilità di attacchi mirati americani a seguito dell’attacco con armi chimiche il 21 agosto, gli estremisti legati ad al Qaida e i jihadisti stranieri loro alleati, siti nella più grande postazione dell’opposizione della Siria del nord, si sono nascosti temendo di diventare anch’essi obiettivo dell’attacco. I ribelli dell’Esercito siriano libero hanno rivelato di ritenere che gli estremisti riemergeranno rinforzati e pronti a una guerriglia ancor più mobile. La presenza e la forza degli estremisti rendono più difficile per i moderati convincere l’occidente che la sconfitta di Assad non trasformerebbe la Siria in una nazione priva di controllo dominata dai terroristi. Tale preoccupazione rallenta anche l’arrivo di aiuti stranieri, dicono i moderati, dato che gli estremisti rinforzano i dubbi occidentali sulle idee e sugli scopi del movimento dei ribelli. “I jihadisti beneficiano di tutto questo caos”, dichiara Samir Nachar, membro della Coalizione nazionale siriana che si oppone ai ribelli estremisti. “Ne beneficiano perché i moderati esitano in attesa del resto del mondo”. L’ultima promessa di intervento non ha rappresentato per l’opposizione siriana e per le forze ribelli a essa alleate la prima volta nella quale si è modificata la strategia in attesa dell’aiuto americano. L’Esercito siriano libero si è riorganizzato e ha cambiato diverse volte la struttura di comando dall’inizio della guerra civile con la convinzione, hanno dichiarato i rappresentanti dei ribelli, che seguire il modello suggerito dall’occidente avrebbe potuto ripulire i ranghi dagli estremisti e garantire un afflusso più consistente di fondi e, possibilmente, di armi. Il leader del supremo consiglio militare, il generale di brigata Salim Idriss, e altri membri del consiglio hanno dichiarato che finora il supporto fornito è stato inadeguato. I funzionari americani d’altro canto hanno dichiarato che i ribelli hanno aspettative prive di fondamento e spesso hanno male interpretato le loro dichiarazioni e le loro azioni. La frustrazione per il rinvio dell’intervento americano si è estesa anche al mondo arabo. “Non perdete tempo a temporeggiare o procrastinare”, ha detto il ministro degli Esteri del Bahrein, lo sceicco Khalid bin Ahmed al Khalifa, a nome del Consiglio di cooperazione delle sei nazioni del Golfo, in una dichiarazione diretta alle nazioni occidentali coinvolte nelle trattative sugli attacchi alla Siria. I delegati della più ampia Lega araba, riuniti al Cairo, hanno dichiarato che sperano nel successo della proposta russa, ma hanno anche sottolineato come la comunità internazionale “debba ancora prendere una decisione su misure efficaci e vincolanti per assicurare la cessazione immediata delle ostilità in Siria”. I leader dell’opposizione siriana erano già scettici sulla possibilità che i potenti stati del Golfo facessero una qualsiasi mossa risolutiva di loro iniziativa. “Non si muovono senza il consenso americano. Lo capiamo, la cosa è evidente da ormai tre anni”, ha detto un membro anziano della Coalizione nazionale siriana. Copyright Wall Street Journal per gentile concessione di MF/Milano Finanza Traduzione di Sarah Marion Tuggey