Riportiamo da LIBERO di oggi, 12/09/2013, a pag. 19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Massacri sì, ma non con i gas. La folle diplomazia di Obama ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Al Qaida esulta, Obama confuso è quasi meglio dell’11 settembre ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 42, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Lo Zar Putin torna in Medio Oriente grazie alla crisi siriana (e a Obama) ". Da REPUBBLICA, a pag. 27, l'articolo di Thomas Friedman dal titolo " L'Hitler mediorientale e il Churchill che non c'è", preceduto dal nostro commento.
LIBERO - Carlo Panella : "Massacri sì, ma non con i gas. La folle diplomazia di Obama"

Carlo Panella
«A questo punto c’è da aspettarsi che a Oslo decidano di assegnare un Nobel per la Pace se non a Assad, quantomeno a Putin... ». L’amaro commento off the records di un generale americano coglie in pieno il disastroso esito probabile della pazzotica condotta di Barack Obama in Siria. Previsione paradossale, ma nontroppo. Assad e Putinhanno infatti saputo ribaltare con abilità le minacce - sempre procrastinate - di raid franco-americani sulla Siria stessa, e oggi si presentano al mondo come giudiziosi costruttori di pace, pronti a fare in modo che le armi chimiche siriane vengano consegnate all’Onu. Questo mentre è ormai chiaro che il feroce dittatore siriano potrà comunque continuare ad ammazzare i suoi concittadini - donne e bimbiinclusi - senzache Obama si faccia né in qua né in là. Basta che li massacri uno a uno o anche in massa, ma con le armi convenzionali: mitragliate dagli elicotteri, colpi di cannone dei carri armati contro le abitazioni, granate nelle strade e nelle case, bombe dagli aerei sui quartieri poveri delle città ribelli e via maciullando. Intendiamoci, un attacco inquesto momento sarebbe deleterio, più che altro sgombrerebbe il campo all’avanzata anche politica dei fondamentalisti vicini ad AlQaeda - e i racconti di Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa liberato qualche giorno fa, hanno confermato che gli islamisti hanno preso decisamente la guida del fronte ribelle. Resta comunque il disastro diplomatico di Obama. Il quale, da par suo, ha posto la sua «linea rossa» per un proprio intervento militare contro Assad solo e unicamente in caso di suo impiego delle armi chimiche. Solo in questo caso - per ragioni chiare solo a lui e ai suoi collaboratori - era ed è disposto a abbandonare la sua linea multilateralista, a snobbare il via libera dell’Onu e a mandare i suoi missili e aerei abombardare i gangli militari di Assad. Per il resto non intende far nulla, qualsiasi cosa accada, qualsiasi massacro si compia in Siria con armi convenzionali, qualunque cifra raggiungano i profughi siriani nei Paesi vicini che sono già più di 2milioni, su 22 milioni di abitanti, il 10 per cento della popolazione. Ecco, invece avrebbe potuto e dovuto intervenire. Ma a tempo debito. È chiaro dunque che Vladimir Putin - e di risulta anche Bashar al Assad - escono del tutto vincitori sul piano politico e d’immagine da queste ultime due settimane di apparente tregenda. L’uno e l’altro hanno infatti saputo sfruttare con clamorosa perizia l’in - credibile assist che ha tirato verso di loro il presidente americano, che nel frattempo ha ordinato al suo immaginario portiere di tornare in panchina edi non provare neanche a parare il tiro. Obama si è impantanato da solo in una trattativa diplomatica sulla consegna delle armi chimiche siriane alle autorità internazionali che durerà mesi se non anni, e che avrà aspetti grotteschi. Secondo quanto riporta il quotidiano spagnolo filo obamiano El Paìs, la Cia stima che Assad disponga di non meno di 100.000 tonnellate di armi chimiche, dislocate in unacinquantina di siti. Per consegnarne le componenti (inquasitutti i casisonoseparate e vengono «armate» nelle ogive solo all’ultimo momento) gli esperti valutano che ci voglia da uno sino a dodici anni (Le Figaro). Dunque Obama si è impigliato da solo in una contorta querelle diplomatica, che naturalmente dovrà passare per le lungaggini dell’Onu, avrà esito non scontato per quanto riguarda la consegna effettiva di tutto l’arsenale chimico siriano, ma che avrà il risultato certo di fornire ulteriore ossigeno alle capacità repressive - con armi convenzionali - del regime di Assad. Il tutto, si badi bene, con un impatto disastroso per gli Usa negli equilibri politici mondiali. Assad infatti, grazie al padrino Putin e all’alleato Iran, ha ampiamente dimostrato alla platea dei Paesi emergenti (inclusa Cina, Brasile, India e Sud Africa, vale a dire i cosiddetti Brics) di saper mettere incampo unaeccellente coalizione a copertura della sua politica feroce. All’opposto, per la prima volta nella storia recente Obama non solo non è riuscito a costruire alcuna coalizione a supporto delle proprie scelte, ma addirittura si è ritrovato solo con un alleato - l’amletico Hollande - e non è riuscito a convincere ad appoggiarlo (per la prima volta dal 1779) neanche la Camera dei Comuni inglese, si è ritrovato con un’Europa divisa in tre e, ovviamente, con un’Onu incontrollabile e incontrollata. Un disastro per l’immediato futuro: ora gli ayatollah atomici iraniani l’aspettano al varco.
Il FOGLIO - Pio Pompa : " Al Qaida esulta, Obama confuso è quasi meglio dell’11 settembre "

Barack Obama
Esulta al Qaida nel vedere il nemico di sempre, cioè gli Stati Uniti d’America, stretti in un angolo e annaspare sulla crisi siriana. “Li abbiamo presi per stanchezza”, avrebbe affermato Abu Hafiza, lo psichiatra maghrebino ritenuto uno dei principali strateghi della galassia qaidista, in un messaggio diretto ai capi di al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi). A raccontarlo al Foglio è un alto funzionario d’intelligence mediorientale secondo cui lo stesso capo di al Qaida, Ayman al Zawahiri, starebbe per diffondere un messaggio nell’ambito del quale l’isolamento internazionale dell’Amministrazione Obama verrebbe salutato come una vittoria storica per i jihadisti di tutto il mondo e addirittura superiore a quella dell’11 settembre. “In buona sostanza – continua la fonte d’intelligence – è come se i qaidisti avessero fiutato l’odore di un nemico confuso e indebolito che, da un giorno all’altro, è stato abbandonato dalla maggior parte dei suoi alleati. Gli stessi che non hanno compreso i termini e la portata di una scelta di campo che di fatto, oltre a dividere l’occidente, costituisce una resa per stanchezza non solo nei confronti del criminale di guerra, Bashar el Assad, ma soprattutto della minaccia jihadista. Non è un caso che i ‘professori’ di Doha, così vengono chiamati i rappresentanti talebani impegnati in Qatar nelle trattative di pace sull’Afghanistan, parlino ora di un rilancio dell’offensiva terroristica non solo in quel paese ma anche in Pakistan, nello Yemen, in Iraq e in tutto il nord Africa. Il ragionamento è semplice: il ruolo cruciale svolto dagli islamisti nelle varie primavere arabe ha sconvolto gli equilibri mediorientali rimescolando la rete di alleanze su cui potevano contare gli americani e l’occidente fino a provocare, con il conflitto siriano, uno scontro internazionale come non accadeva dall’epoca della Guerra fredda. Quale occasione migliore per implementare il jihad specie se il nemico è diviso al suo interno ed è stanco di combattere quasi vergognandosi, dimenticandosi dell’11 settembre 2001, delle guerre in Iraq e Afghanistan?”. Sulla stessa lunghezza d’onda si sarebbero attestate le formazioni filoqaidiste nordafricane, da Aqmi al Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) confluito insieme ai miliziani guidati da Mokhtar Belmokhtar nel nuovo gruppo terrorista di Mourabitoun, tra l’altro impegnate in Siria con oltre 600 elementi al fianco dei qaidisti di Jabhat al Nusra e dello Stato islamico d’Iraq e del Levante. “Dallo Yemen – puntualizza il nostro interlocutore – ha fatto sentire la sua voce anche il numero due di al Qaida, Nasir al Wuhayshi alias Abu Basir, già segretario personale di Bin Laden, salutando le incertezze americane sull’intervento in Siria come una vittoria del jihad e invitando i mujaheddin a cogliere un’occasione irripetibile per colpire al cuore i crociati che si nascondono dietro i droni uccidendo donne e bambini. Ciò dimostra tutta la miopia dell’occidente e di coloro che sostengono la tesi che l’intervento militare statunitense contro Assad avrebbe finito con l’aiutare i terroristi. Come vedete le informazioni in nostro possesso dimostrano l’esatto contrario e anche la svolta delle ultime ore, per cui il rais siriano la farebbe ancora una volta franca qualora consegnasse entro sette giorni alla comunità internazionale l’intero arsenale chimico, viene interpretata dai vertici di al Qaida come una ritirata tattica che segnerebbe la fine dell’èra della guerra globale al terrorismo”. Intanto l’incertezza si è impadronita anche delle neo costituite “Brigate della resistenza siriana”che erano pronte, partendo da diversi paesi europei inclusa l’Italia, a schierarsi con i ribelli e a sostegno dell’intervento americano.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Lo Zar Putin torna in Medio Oriente grazie alla crisi siriana (e a Obama) "

Antonio Ferrari
Almeno uno dei grandi leader del mondo ha ragioni di gratitudine nei confronti di Bashar al Assad, che tanti considerano un reietto, un delinquente, un criminale da ripudiare. È il presidente russo Vladimir Putin che in pochi giorni, grazie alla crisi siriana ha ricevuto, con gli interessi, quanto non era mai riuscito ad ottenere in anni e anni di potere assoluto, coltivato con piglio dittatoriale: l'attestazione di essere un credibile e abilissimo diplomatico.
La sua mediazione per disinnescare la pericolosissima mina mediorientale, che esplodendo avrebbe potuto trascinare il pianeta verso un conflitto globale, si sta rivelando determinante. E potrebbe essere davvero vincente, sempre che prevalga il clima collaborativo e disteso che si sta respirando in queste ore, dopo settimane di autentica paura.
Mosca e Damasco sono legate indissolubilmente da decenni. Almeno dalla guerra dei Sei giorni del 1967, quando le superpotenze si schierarono: gli Stati Uniti con Israele e l'Unione Sovietica con gli arabi. In realtà, non con tutti gli arabi. Il Cremlino aveva e ha conservato un rapporto speciale solo con Damasco. Al punto che, negli anni Ottanta, la Siria era considerata il satellite mediorientale dell'impero sovietico. Il rapporto non è cambiato dopo l'arrivo di Gorbaciov. Uno dei primi ambasciatori della perestrojka, Felix Fedotov, fu inviato proprio a Damasco e in un'intervista che mi diede per il Corriere disse che la Siria, «amico leale, seguendo le strade fondamentali del nazionalismo, dell'unità araba e del socialismo, aveva realizzato una felice osmosi tra l'educazione francese e le tradizioni mediterranee». Ma oltre queste considerazioni filosofiche, la Russia ha in Siria un'importante base navale, a Tartous, e quella di Damasco è l'unica via percorribile per rilanciare un ruolo di grande potenza anche nel Mediterraneo, ruolo che il crollo dell'Unione Sovietica aveva enormemente ridimensionato, rendendolo quasi irrilevante. Ora Putin ritrova l'amico di sempre e trova il modo (forse il pretesto) per presentarsi da protagonista.
In sostanza, la guerra che nessuno voleva, a cominciare da coloro che all'inizio l'avevano preannunciata (gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia), probabilmente non si farà più. La proposta di Mosca di porre sotto il controllo internazionale e poi di distruggere gli arsenali siriani di gas venefici è tale da poter essere salutata con soddisfazione. Se a questo si somma la richiesta a Damasco di aderire alla Convenzione di Parigi sulle armi chimiche del 1993 (che la Siria non aveva sottoscritto), si può dire che è diventata inutile la presenza delle navi da guerra che, nel Mediterraneo orientale, già avevano caricato i missili per colpire.
La «piena disponibilità» espressa dal ministro degli Esteri siriano Walid Moallem ad accettare la proposta russa è la prova che finalmente è stata imboccata la strada per risolvere questa crisi. Non certo per risolvere il gigantesco problema rappresentato da una guerra civile feroce, già costata decine di migliaia di morti (forse centomila), quasi mezzo milione di feriti, quattro milioni di sfollati e due milioni di profughi, fuggiti nei Paesi vicini. Sarebbe però esiziale limitare gli anatemi al conteggio delle vittime del gas, che sono una minima parte del bilancio di un conflitto devastante. Non si può infatti condannare l'utilizzo del sarin (senza sapere con certezza chi l'abbia usato: se il regime o i ribelli), ritenere accettabili gli altri strumenti di morte ed evitare di accogliere l'appello di papa Francesco contro i commercianti illegali di armi che si moltiplicano a ogni guerra.
La vittoria diplomatica di Putin, nonostante i dubbi affiorati nel G20 di San Pietroburgo, rende ora meno decisivo il voto del Congresso, al quale il presidente Barack Obama ha chiesto il consenso a prescindere dalla risoluzione che si sta prospettando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tutto sommato, a ben vedere, l'aiuto di Mosca potrebbe servire allo stesso presidente americano, quasi a far ritenere che vi sia stato un abilissimo gioco delle parti. Infatti, poco prima dell'annuncio del Cremlino, era stato il segretario di Stato, John Kerry, a prospettare che soltanto la consegna dei depositi di armi chimiche alla comunità internazionale avrebbe potuto impedire l'attacco.
In questo nuovo clima, dopo la grande paura, potrebbe essere rilanciata la possibilità di giungere finalmente a una conferenza internazionale per mettere assieme le parti, privilegiando i moderati ed escludendo gli estremisti. Se avverrà, si potrà dire che questa crisi è stata persino salutare, e il riconoscimento a Putin sarebbe più che meritato.
La REPUBBLICA - Thomas Friedman : " L'Hitler mediorientale e il Churchill che non c'è "

Thomas Friedman
Thomas Friedman dà sempre un colpo al cerchio e uno alla botte ma, nella frase finale della sua analisi, rivela il dramma dell'Unione Europea: manca un Winston Churchill o, aggiungiamo, una Margaret Thatcher in grado di prendere decisioni e dare una direzione alla politica estera europea.
Ecco il pezzo:
Se siete cittadini americani e siete confusi e preoccupati di fronte alla prospettiva che il nostro Paese venga risucchiato in una guerra civile senza soluzione, in Siria, avete ragione: significa che state dedicando attenzione al problema. Ma se siete un deputato o un senatore e siete ancora in dubbio se concedere o no al presidente Obama l’autorità per dissuadere con la forza il presidente siriano Bashar al-Assad dal tornare ad assassinare centinaia dei suoi stessi concittadini con gas velenosi, in questo momento ha senso prendersi una pausa di riflessione: anche in questo caso significa che state dedicando attenzione al problema. Negli ultimi due giorni è venuta a crearsi una situazione nuova, con l’offerta russa (abbracciata da Obama, da tutti i nostri maggiori alleati e dalla Cina, ma per il momento accettata solo in modo vago dal governo di Damasco) di mettere sotto il controllo della comunità internazionale tutto l’arsenale di armi chimiche della Siria. Non facciamoci illusioni: c’è la concretissima possibilità che russi e siriani stiano semplicemente prendendo tempo, e che alla fine facciano marcia indietro; e anche se gli uni o gli altri (o gli uni e gli altri) fanno sul serio, ci sarebbero comunque enormi ostacoli logistici e politici prima di riuscire a mettere in sicurezza in tempi rapidi tutte le armi chimiche siriane. Una parte di me si domanda: c’è qualcuno che ha ragionato a fondo su tutta la faccenda? Ma tutto il resto di me vuole riconoscere che se – un grosso se – la Siria consegnasse davvero il suo arsenale di armi chimiche, questa crisi immediata si concluderebbe in modo positivo. Il tabù mondiale sull’uso di gas velenosi verrebbe mantenuto e l’America non verrebbe risucchiata nell’inferno siriano. In questo contesto, penso che sia il caso che Obama e il Congresso minaccino di mettere in programma una votazione per ratificare la minaccia di Obama di ricorrere alla forza – nel caso siriani e russi dimostrassero di non essere in buona fede – ma per il momento di non fissare nessuna data per la votazione. (Questo in sostanza era il messaggio del presidente nel suo discorso dell’altra sera). Obama, minacciando di minacciare, conserverebbe un’arma di pressione per dissuadere siriani e russi dal non dare seguito concreto a un eventuale accordo, senza però essere costretto a mettere alla prova la reale volontà del Congresso di tradurre in pratica quella minaccia. Perché se i parlamentari americani negassero l’autorizzazione all’uso della forza, russi e siriani non avrebbero nessun incentivo a impegnarsi realmente. Tutto questo potrà sembrarvi incredibilmente contorto e confuso, e lo è. E se è vero (bisogna ammetterlo) che Obama e i suoi collaboratori hanno contribuito a complicare la faccenda con dichiarazioni decisamente troppo affrettate e improvvide, è vero anche che c’è una ragione strutturale di fondo: Obama deve misurarsi con un mondo arabo diversissimo da quello con cui hanno fatto i conti tutti i suoi predecessori. Fino al 2010, il Medio Oriente arabo era relativamente stabile da 35 anni. L’effetto combinato della guerra fredda, dell’ascesa di dittatori che grazie ai proventi del petrolio erano riusciti a costruire forti Stati di polizia e la pace tra Egitto e Israele avevano imposto l’ordine. Ma dal 2010 in poi, la convergenza di fattori come l’esplosione della rabbia delle masse arabe, la mancanza di lavoro, il degrado ambientale, la scarsità di acqua, il calo dei proventi del petrolio e la rivoluzione dell’informazione hanno mandato gambe all’aria governi che un tempo apparivano solidi – Siria, Egitto, Tunisia, Iraq, Libia e Yemen – costringendoci a fare i conti con interrogativi nuovi e molto scomodi, non semplicemente con l’uso della forza. Uno degli interrogativi di cui sopra è: certe cose sono vere anche se George W. Bush era convinto che lo fossero? Nessuno, falco o colomba, ha la minima voglia di vedere le nostre truppe in Siria, in nessun caso. Io sono fra questi. L’unico problema è che è impossibile immaginare una soluzione al conflitto siriano senza qualche forza esterna che invii truppe sul campo. Quando si arriva a un collasso statale e sociale come quello a cui è arrivata la Siria, e in una società multitribale e multiconfessionale come la Siria, non esiste più nessuna fiducia per governare e gestire un’alternanza al potere. E allora serve una levatrice, o un Mandela, o un esercito che goda della fiducia della popolazione (all’egiziana) per arbitrare la transizione a un nuovo ordine. E dal momento che la Siria non ha né un Mandela né un esercito che goda della fiducia della popolazione, le servirà una levatrice esterna. Posso ben capire che i volontari per tale compito non abbondino, ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu alla fine dovrà affrontare queste realtà, se non vuole che la Siria diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. Ci sono anche un po’ di domande scomode che dobbiamo porre ai nostri alleati arabi. Durante la guerra fredda, la nostra paura del comunismo e della dipendenza dal petrolio ci induceva a schierarci con chiunque combattesse contro i sovietici. Non abbiamo mai interrogato i nostri alleati arabi su quali valori promuovessero in casa propria. Bene, ecco una domanda che dovremmo cominciare a porci: ci sono migliaia di giovani arabi e musulmani che vengono da ogni dove, perfino dall’Australia, per unirsi alle milizie jihadiste che combattono per creare uno Stato islamista sunnita in Siria. Ma quanti giovani arabi e musulmani sono affluiti nel Paese mediorientale per combattere insieme agli elementi più decorosi dell’Esercito libero siriano per creare una Siria multiconfessionale, pluralistica e democratica, cioè la Siria che speriamo e immaginiamo che nasca? Nessuno, a quanto si legge. Armi sì, ma non persone pronte a mettere in gioco la vita. Io sono felice che i leader dei Paesi del Golfo ci diano pubblicamente il loro sostegno (nella maggior parte dei casi sono dei moderati, nel contesto mediorientale), ma tutti sanno che in quegli stessi Paesi moschee e organizzazioni di beneficenza stanno finanziando i jihadisti. Attenzione: ora che sovietici e oleodotti non ci sono più, gli americani di oggi non intendono spendere sangue e soldi per difendere posti e persone, nel mondo arabo, che non condividono i nostri valori e non sono pronti a sacrificarsi per essi. Non possiamo più permettercelo, e non abbiamo più bisogno di farlo. Perciò riconosciamo a Obama il merito di aver difeso un principio importante in una regione caotica. Ma riconosciamo qualche merito anche al popolo americano, che sta dicendo ai nostri leader una cosa importante: è difficile continuare a fronteggiare gli Hitler del Medio Oriente se dall’altra parte non c’è nessun Churchill.
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