Riprendiamo oggi, 11/09/2013, dalla STAMPA due servizi di Maurizio Molinari a pag.11 su Obama in crisi dopo il pacco ricevuto dal duo Putin/Assad, una intervista a Michael Walzer, il commento di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE a pag. 14, quello di Bernard-Henri Lévy sul CORRIERE della SERA a pag.15
La Stampa-Maurizio Molinari: " Obama avverte il raiss, il disarmo sia veloce"


Maurizio Molinari
Barack Obama apre al piano russo per il disarmo chimico siriano e rinvia la richiesta al Congresso di autorizzare l’uso della forza ma chiede a Bashar Assad di disfarsi dei gas proibiti in maniera «veloce», «credibile» e «verificabile» minacciando in caso contrario di dare luce verde al blitz militare.
Per la Casa Bianca l’accettazione siriana della proposta russa di porre sotto controllo internazionale l’intero arsenale chimico è un risultato che «si deve alla credibile minaccia della forza esercitata dagli Stati Uniti», afferma il presidente in una raffica di interviste tv che precede il discorso alla nazione pronunciato questa notte, alle 3 del mattino ora italiana. L’amministrazione fa filtrare una raffica di indiscrezioni sulla ricostruzione degli eventi degli ultimi giorni per avvalorare tale argomento: da Obama che al G20 di San Pietroburgo avrebbe «personalmente detto a Putin che era determinato ad attaccare» fino al Segretario di Stato John Kerry che lunedì mattina avrebbe «discusso con il collega russo Sergei Lavrov» il piano poi annunciato da Mosca. Rivendicare alla minaccia del blitz il merito delle «nuove posizioni di Russia e Siria che attendevamo da anni», aggiunge Obama, è un tutt’uno con l’approccio alla battaglia diplomatica sulla risoluzione Onu. Obama lo concorda con i leader di Gran Bretagna e Francia poco prima che Kerry lo illustri al Congresso: «Il disarmo chimico deve avvenire in tempi rapidi, deve essere credibile e verificabile». A tale proposito Obama cita la frase di Ronald Reagan sui negoziati del disarmo durante la Guerra Fredda: «Non basta fidarsi bisogna anche verificare». Ciò significa voler far approvare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione che renda impossibile ad Assad evadere gli impegni. Da qui anche la volontà di redigerla sulla base del Capitolo VII della Carta Onu, che prevede il ricorso alla forza in caso di violazione. È questo approccio, tutto all’offensiva, che si ritrova nelle mosse a Capitol Hill: incontrando un gruppo di deputati e senatori, il presidente fa sapere di voler «ritardare» il voto dell’aula sull’autorizzazione all’uso della forza per «dare tempo all’opzione diplomatica». In concreto ciò significa che Harry Reid, capo della maggioranza democratica al Senato sta redigendo un nuovo testo che indicherà un limite di tempo preciso entro il quale Assad dovrà portare a compimento il disarmo chimico, superato il quale Obama avrà l’autorizzazione di ricorrere alla forza. La scelta del Pentagono, resa nota dal ministro Chuck Hagel, di mantenere lo schieramento navale attorno alla Siria è l’ulteriore tassello della strategia di Obama di non allentare la pressione militare contro il regime di Assad.
Tutto ciò non toglie che sul fronte interno, Obama sia in evidente difficoltà. Il «Washington Post» parla di «strategia condannata alla sconfitta» a causa di una serie di «errori e contraddizioni», il columnist conservatore Charles Krauthammer si sofferma sullo «scacco matto dei russi ai principianti della Casa Bianca» e il sito «The Politico» ricorre alla definizione di «Accidental Diplomacy» - diplomazia casuale - per riassumere gaffes e repentini rovesciamenti di posizione da parte del presidente e dei suoi più stretti collaboratori. L’assenza di una maggioranza alla Camera a favore dell’intervento e i sondaggi che confermano come il 60 per cento degli americani siano contrari all’intervento contribuiscono ad evidenziare l’isolamento di Obama, che tuttavia nelle interviste tv ribadisce l’approccio alla crisi siriana: «È nell’interesse nazionale degli Stati Uniti intervenire per evitare l’uso di armi di distruzione di massa» come fatto da Assad contro i civili di Damasco lo scorso 21 agosto.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Walzer e l'11 settembre: ci ha lasciato in eredità un nuovo isolazionismo"

Michael Walzer
L’ anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001 è segnato da un’opinione pubblica che negli Stati Uniti è ostile a interventi militari all’estero e per il sociologo di Princeton Michael Walzer, direttore di «Dissent» ed anima critica della sinistra americana, si tratta della «conseguenza dello scontento per come sono andate le ultime guerre» innescando «una nuova ondata di isolazionismo a destra come a sinistra».
Perché a 12 anni dall’11 settembre prevale l’opposizione all’intervento in Siria?
«Nelle scuole militari insegnano che spesso i generali combattono la guerra precedente. Ebbene, l’America continua a combattere l’ultima sua guerra. Quella in Iraq, sulla quale prevale un giudizio negativo che influenza l’approccio alla crisi siriana. Ascoltando l’intervento del leader laburista Ed Miliband al Parlamento britannico ho avuto la sensazione che anche in Gran Bretagna sia la repulsione dell’eredità degli anni di Bush e Blair ad essere determinante nell’approccio alla Siria».
Eppure sulla Libia nel 2011 il consenso c’è stato...
«L’intervento in Libia ha peggiorato le cose. Gli americani hanno la diffusa percezione che le guerre in Afghanistan e in Iraq, giuste o sbagliate, hanno prodotto conseguenze di molto inferiori alle attese se non negative. L’intervento in Libia ha avvalorato tale opinione perché Bengasi prima ha accolto in festa gli americani liberatori e poi è diventata il teatro della brutale uccisione del nostro ambasciatore Chris Stevens. In Libia come in Iraq e Afghanistan prevalgono confusione, disordine e violenza. Facendo venire meno l’appetito popolare per nuovi interventi».
Perché l’immagine di civili uccisi dai gas non scuote le coscienze di una nazione che teme attacchi terroristici?
«In effetti si tratta di immagini orrende che fanno percepire il rischio di attacchi con i gas contro i nostri soldati in Medio Oriente, se non le nostre città. Ma l’America oggi si sente più sicura. Dagli attacchi dell’11 settembre 2001 è passato oltre un decennio. Non vi sono stati altri grandi attentati sul territorio nazionale e questo successo dell’anti-terrorismo ha portato i cittadini a sentirsi più protetti e dunque ad essere meno propensi a rischiare vite umane e risorse economiche in guerre deludenti».
Quali sono le conseguenze politiche della prevalenza di questi sentimenti?
«Le vediamo al Congresso. Fra i democratici come fra i repubblicani è presente una folta pattuglia di neoisolazionisti. L’entità di questo schieramento è di una forza che non si ricorda dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Spinge l’America a rinchiudersi, ignorando cosa avviene lontano dalle sue coste anche se si tratta di crimini orrendi come quelli commessi con i gas».
Barack Obama come sta affrontando questa situazione?
«Il Presidente sta tentando di far comprendere al Congresso che c’è ancora una missione per l’America nel mondo. È nel nostro interesse nazionale combattere la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Ma si trova ad affrontare resistenze forti».
Quali saranno le conseguenze per il Medio Oriente?
«L’isolazionismo americano è destinato a indebolire la nostra presenza nella regione, portando le potenze del Medio Oriente a confliggere. Penso ad esempio a Israele dove la percezione dell’allontanamento americano può indurre a prendere l’iniziativa militare contro l’Iran. Meno America in Medio Oriente significa più possibilità di una grande guerra, dalle conseguenze imprevedibili».
Può essere un’occasione per la Ue di assumersi maggiori responsabilità?
«Certo, potrebbe esserlo. Ma non sembrano esserci molti Paesi europei pronti a cogliere tale opportunità».
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " Assad dà retta a Putin e apre l'arsenale "


Fiamma Nirenstein
Damasco dice sì e accetta la proposta russa di mettere il proprio arsenale chimico sotto la lente di ingrandimento della comunità internazionale. La via per la pace, che allontana l'attacco americano sulla Siria, passa per Mosca. A una condizione, spiega tuttavia il presidente Putin: la proposta «potrà funzionare solo se gli americani e tutti quanti sostengono gli Usa, respingeranno l'uso della forza », contro la Siria.
Nel caos diplomatico che si sta avviluppando intorno al regime di Assad - fatto di proposte, marce indietro e apparenti bluff - l'inquilino del Cremlino ha aggiunto che la consegna delle armi chimiche siriane sarà «un buon passo avanti per una soluzione pacifica», al conflitto siriano.
La svolta comunque c'è. Ed è nata- sottolinea il Cremlino- al G20 di San Pietroburgo, durante il breve ma intenso faccia a faccia tra Vladimir Putin e Barack Obama. «Siamo pronti ad annunciare dove si trovano le armi chimiche, a cessarne la produzione e a mostrarne le strutture ai rappresentanti della Russia, di altri Paesi e delle Nazioni Unite», ha annunciato in serata da Mosca il ministro degli Esteri siriano Muallem. «La nostra adesione all'iniziativa russa ha per obiettivo quello di cessare di avere tutte le armi chimiche», ha aggiunto, assicurando che Damasco vuole aderire alla Convenzione per l'interdizione di tali armi.
Rivolgendosi in diretta tv agli americani (nella notte italiana), il presidente statunitense insiste sulla necessità di annientare l’arsenale chimico del regime e si dice d'accordo sull' avvio di un confronto con Mosca e Pechino, per arrivare a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che preveda la distruzione dei gas letali in mano alle forze di Assad. Tutti gli occhi, dunque, sono ora puntati sull'Onu. Anche se il rischio di un nuovo muro contro muro- e quindi di un nuovo stallo- è dietro l'angolo. E infatti a poche ore dai venti di speranza, arriva la notizia che la riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che era in programma nel pomeriggio a New York è stata cancellata dopo che la Russia ha ritirato la richiesta. Un segno delle difficoltà incontrate nelle ultime ore per mettere a punto un testo di risoluzione sulla Siria. Il tutto mentre Obama chiede al Congresso - così riferiscono alcuni parlamentari che hanno partecipato a una colazione col presidente a Capitol Hill - di ritardare il voto sull’intervento militare per dare una chance all’opzione diplomatica.
Intanto mentre il dibattito si focalizza sull'utilizzo delle armi chimiche, su quella linea rossa tracciata da Washington e attraversata da Bashar El Assad, in Siria ci sono linee rosse superate e ignorate ogni giorno, con armi convenzionali, non chimiche, ma non per questo meno letali uccidono comunque e da marzo del 2011 hanno ucciso più di 110mila persone e reso profughi due milioni di siriani. Le forze del rais Bashar El Assad, che si erano ritirate da molte posizioni militari nella capitale per timore di un attacco americano, sono tornate ad agire in queste ore.
Gli aerei hanno bombardato ieri sobborghi della capitale, quartieri sunniti popolari che sono sacca della ribellione anti-Assad e lo hanno fatto per la prima volta dagli attacchi chimici del 21 agosto. I jet hanno scaricato le loro bombe nei sobborghi a Ovest, a Mouadamiya, ma anche a Nord e a Est. Nei giorni della diplomazia, si è combattuto ferocemente per la cittadina cristiana di Maaloula, passata di mano diverse volte dal regime ai miliziani islamisti antiAssad.
Corriere della Sera-Bernard-Henri Lévy: " Se i governi si piegno alla dittatura dell'opinione pubblica "

Bernard-Henri Lévy
C’era la democrazia dell’opinione pubblica. Ecco il tempo della diplomazia dell’opinione pubblica. Con lo stesso presupposto ma applicato, stavolta, alla questione della pace e della guerra fra le nazioni: essere eletto non basta; né basta disporre di poteri chiaramente definiti da una Costituzione; e nemmeno basta poter contare, in Parlamento, sul sostegno di rappresentanti che possono, se lo vogliono, censurarti; occorre ancora, prima di agire, cioè prima di decidere sulla politica internazionale del proprio Paese e prima di colpire, nella circostanza attuale, un regime fuori legge che fa uso di armi bandite da un secolo, ottenere il consenso dell’opinione pubblica.
Come definire l’opinione pubblica? Qual è l’affidabilità degli strumenti che consentono di misurarla? Qual è, soprattutto, la legittimità di un potere senza volto, inafferrabile, irresponsabile, di cui già Tocqueville si lamentava, ritenendo che veniva messo al di sopra di tutti gli altri ed esercitava una dittatura incontrollabile quanto illimitata?
Nessuno sembra porsi la domanda. Nessuno sembra stupirsi né, ancora meno, preoccuparsi del fatto che al verdetto di una opinione pubblica di cui bisognerebbe assicurarsi l’appoggio ininterrotto sono sospese: a) la sorte di un popolo (almeno centomila siriani assassinati da un regime che tutti i giorni contravviene alle regole più elementari della legge internazionale); b) la credibilità delle democrazie (definire una linea rossa e, quando viene superata, non essere più capaci di mantenere la parola e di reagire!); c) la sorte della pace mondiale (quale esempio, quale messaggio, per l’Iran, la Corea del Nord, Al Qaeda, se la montagna partorisse un topolino e se, dopo tanta tracotanza, alla fine non facessimo niente!).
E’ sbalorditivo che negli Stati Uniti come in Francia, i commentatori, i mass media e persino i responsabili politici ritengano implicito che il primo dovere di Hollande o di Obama, quasi la loro prima lotta, sia di prendere contatto con gli istituti di sondaggio Ifop e Gallup e non con Bashar Assad. E poiché un video cancella l’altro, un’emozione caccia via quella che aveva sommerso la precedente, un elemento di linguaggio appropriato contrasta voci non verificate, è scandaloso constatare che il loro primo compito divenga quello di scandagliare l’opinione pubblica, di entrare nei suoi ragionamenti o, meglio, nei suoi vaneggiamenti e, come gli aruspici dell’era predemocratica che scrutavano i visceri fumanti degli animali sacrificati per leggervi i presagi dell’avvenire, di chiedersi, ogni sera e ogni mattino: l’ho manipolata bene?
Di fronte all’abbassamento senza precedenti del politico umiliato da quello che gli antichi greci chiamavano la doxa che, nell’era del buzz marketing e di Twitter , diventa ancora più confusa, più oscura, più incoerente di quanto non sia mai stata; di fronte all’improvvisa accelerazione di quella che menti benevole hanno battezzato «contro-democrazia», consistente in una incessante persecuzione degli eletti e, innanzitutto, del primo di loro da parte di un corpo politico senza organi, sottoposto a tutte le passioni, pressioni e influenze e che non ha più niente a che vedere con il corpo elettorale del diritto politico, mi si consentirà di rievocare alcuni eventi che ciascuno ricorda anche se tutti, manifestamente, fingono di averli dimenticati.
François Mitterrand non si preoccupò dell’«opinione pubblica» quando prese la decisione storica di abolire la pena di morte. Charles de Gaulle non cominciò col sondare, rabbonire, sedurre l’«opinione pubblica» quando, eletto su un programma che prevedeva la continuazione della guerra in Algeria, decise di fare il contrario. Non reclutò «comunicatori» prima di scegliere, da solo, in virtù dei poteri che la Costituzione gli conferiva, di procedere al profondo sconvolgimento che l’uscita della Francia dalla Nato avrebbe provocato nel gioco di alleanze del Paese e, dunque, del suo sistema di sicurezza. Non mi risulta che fra i suoi successori, fra coloro che dovettero decidere di bloccare la carneficina in Bosnia e in Libia, o di intervenire nel Kuwait e nel Kosovo, o di formare un esercito afghano capace di resistere a Al Qaeda e ai talebani, ci sia stato un Presidente che, dovendo prendere la decisione, solitaria, segreta per natura e per definizione, di impegnare la forza militare, sia stato a tal punto incalzato da lasciarsi intimidire, se non fermare, da sondaggi sfavorevoli.
Governare è anche non piacere. Governare è, forti del mandato affidato da un popolo, resistere, se necessario, all’antipopolo che è l’opinione pubblica. C’è da rabbrividire all’idea di un meccanismo che, andando fino in fondo alla sua logica, obbligasse gli strateghi a sottomettere il piano dei loro bombardamenti, il loro calendario, il loro dosaggio, al consenso di chi fa chiacchiere da bar.
François Hollande è stato eletto per cinque anni e Barack Obama per quattro. Ci sarà il momento in cui dovranno render conto del loro operato al Paese e davanti alla Storia. Ma per ora hanno un solo dovere: dispiegare i mezzi che, secondo coscienza, a loro sembrano necessari per fermare il caos che deriverebbe dalla impunità di Bashar al-Assad sostenuto — troppo spesso si dimentica di precisarlo — dall’Iran degli ayatollah, dai Fratelli musulmani di Hamas, dall’Hezbollah terrorista, insomma da tutto quello che il pianeta annovera di islamisti veramente radicali.
Davanti a questo, i demagoghi e i sostenitori della politica spettacolo hanno un solo diritto: rispettare la Costituzione, la legge e i princìpi repubblicani.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
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