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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Giornale-Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.09.2013 G20: cronaca e commenti di Maurizio Molinari, Fiamma Nirenstein, Niall Ferguson
e Obama incontra gli attivisti gay russi

Testata:La Stampa-Il Giornale-Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari-Fiamma Nirenstein-Niall Ferguson
Titolo: «Mosca, prove di leadership sugli emergenti-Putin -Obama, ognuno canta vittoria-Siria, il G20 dà una mano a Obama- Medio Oriente, la fine del panarabismo che deve preoccupare l'Occidente-Barack incontra gli attivisti gay 'essenziali per una società aperta'»

 Continua il G20, la Siria è sempre al centro delle polemiche, come la sfida tra Obama e Putin. Riprendiamo dalla STAMPA due articoli di Maurizio Molinari, inviato a S.Pietroburgo,  e una breve sull'incontro di Obama con gli attivisti gay russi, dal GIORNALE il pezzo di Fiamma Nirenstein,  dal CORRIERE della SERA  il commento di Niall Ferguson, preceduto da un nostro commento.

L'UNITA' pubblica una intervista con Richard Falk di Umberto De Giovannangeli, che lo presenta come  un giurista"  già relatore speciale dell'Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati", evitando di scrivere quale è stata la sua reale funzione di attivista anti-Israele, altrochè 'giurista' ! nell'intervista si scaglia contro gli Stati Uniti, solita solfa. Scriviamo queste righe perchè rendono bene l'idea della linea del giornale 'vicino' al PD.
Chi ne gvolesse sapere di più su Richard Falk, scriva il suo nome in HP di IC nella finestra in alto a sinistra 'cerca nel sito'. 

La Stampa-Maurizio Molinari: " Mosca, prove di leadership sugli emergenti"


Maurizio Molinari

Il G20 esce dal summit di San Pietroburgo trasformato dalla crisi siriana nel nuovo terreno di scontro fra Stati Uniti e Russia. Si tratta di una svolta brusca, dalle conseguenze imprevedibili.
Convocato in fretta e furia a Washington nel novembre 2008 per fronteggiare la devastante crisi finanziaria, trasformato dal summit di Londra del 2009 nella cabina di regia della globalizzazione e riuscito a Pittsburgh nel 2010 a strappare al G8 il titolo di «maggiore foro dell’economia mondiale», il G20 deve la propria forza alla scelta di Stati Uniti, Europa e Giappone di sedersi allo stesso tavolo con le economie emergenti per concordare le ricette della crescita.
Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica sono così divenute protagoniste interessate del benessere dell’Occidente, e viceversa. Ma questa formula della crescita nel XXI secolo si è arenata nelle sale del Palazzo di Costantino dove l’anfitrione russo ha sfruttato la crisi siriana per riconsegnare a Mosca la possibilità di guidare un’alleanza internazionale. E’ dalla dissoluzione dell’Urss che il Cremlino ha tale nostalgia, Putin l’ha espressa in più occasioni ed ieri è riuscito, per la prima volta, a enumerare pubblicamente i Paesi che preferiscono Mosca e Washington in un voluto show di forza politica. Elencando «Cina, India, Indonesia, Argentina, Brasile...» Putin si è mostrato raggiante, soprattutto perché sembra sicuro di aver trovato la formula vincente per mettere sulla difensiva Washington su scala globale. «L’attacco alla Siria fa temere a tutti il rallentamento della crescita e ad ogni Paese piccolo di essere aggredito da una potenza» dice Putin in una riedizione dell’anticolonialismo di metà Novecento, modellato su un XXI secolo che vede moltiplicarsi le nazioni in cerca di spazio, prestigio e prosperità sulla scena internazionale. Gli orizzonti di Putin e Barack Obama non potrebbero dunque essere più diversi. Il Presidente americano vuole punire Bashar Assad per aver usato i gas contro i civili - primo dittatore ad averlo fatto dopo Saddam Hussein nel 1988 a Halabja - con l’intento di scongiurare il rischio di altri despoti e tiranni attirati dalla possibilità di ricorrere ad armi di distruzione di massa per reprimere il dissenso interno o aggredire i Paesi vicini. E’ un obiettivo che rientra nella visione che Washington ha dei prossimi 30-50 anni dove la globalizzazione dell’economie è minacciata da terrorismo ed armi di distruzione di massa. Per questo accelera nella preparazione dell’intervento contro Assad. L’agenda del capo del Cremlino invece è tutt’altra, punta a una trasformazione radicale degli equilibri internazionali tentando di costringere al tramonto la primazia strategia esercitata dagli Stati Uniti dall’indomani della fine della Guerra Fredda. Ecco perché schierarsi fra Mosca e Washington conta per ogni capitale, europea o meno, assai più della disputa sulla legittimità di attaccare Assad per i gas adoperati a Damasco il 21 agosto.

Nel duello di San Pietroburgo fra Putin e Obama, evidenziato da scambi di sguardi gelidi al summit e posizionamenti di navi da guerra nel Mediterraneo Orientale, ciò che colpisce è la scelta di Pechino. Xi Jinping si è schierato con Putin, ma evitando la sfida aperta a Obama. La Cina affianca il proprio veto pro-Assad all’Onu a quello di Putin ma poi Xi smorza i toni, parla con Obama di scambi commerciali, investimenti hitech e lotta ai cambiamenti climatici. Dando l’impressione di considerare il duello siriano più come un residuo del secolo passato che la genesi dei equilibri di quello nuovo, oramai inoltrato. Resta l’interrogativo su come sarà cambiato il G20 quando tornerà a incontrarsi a Brisbane in Australia nel novembre 2014 ovvero se questo forum resisterà all’impatto dell’intervento siriano oramai in arrivo.

La Stampa- Maurizio Molinari: " Putin -Obama, ognuno canta vittoria"

La battaglia del G20 sulla Siria si conclude con Vladimir Putin e Barack Obama entrambi convinti di aver prevalso. Al termine di un braccio di ferro di 36 ore, i presidenti di Russia e Stati Uniti si incontrano per 20 minuti nel Palazzo di Constantino ed è quasi dialogo fra sordi. «Ognuno è rimasto sulle sue posizioni» assicura Putin. «Ci ritroveremo nel condividere la transizione politica a Ginevra» aggiunge Obama, guardando già al dopo-attacco. Quando affrontano i reporter in due sale distanti meno di 20 metri - raccontano il summit in maniera opposta. Per Putin «la minaccia di attacco alla Siria e di una nuova crisi in Medio Oriente frena la crescita globale» e la responsabilità è di quei Paesi «favorevoli ad un uso della forza illegittimo perché non sostenuto dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Li elenca: «Sono Stati Uniti, Francia, Canada, Turchia, Arabia Saudita e anche Gran Bretagna sebbene Londra non parteciperà all’attacco dopo il voto contrario del Parlamento». Si tratta di una «minoranza del G20» sottolinea il capo del Cremlino enumerando chi si oppone: «Russia, India, Cina, Indonesia, Argentina, Brasile, Sud Africa e Italia». È la descrizione di una spaccatura del G20 che Putin addebita alla Casa Bianca e condanna: «Simili azioni militari destabilizzano il mondo perché portano ogni Paese piccolo, minore, a temere di essere attaccato dalle maggiori potenze». Ed affinché la sfida a Obama sia completa, Putin aggiunge: «L’attacco chimico è stato una provocazione per legittimare il blitz, in caso di intervento continueremo a fornire armi a Damasco».

C’è anche il tempo per un affondo su Edward Snowden, l’ex analista della Cia a cui Mosca ha dato asilo irritando Washington: «Ma perché si sono arrabbiati tanto? Se Snowden è voluto rimanere qui è perché gli hanno proibito di andare altrove, ricordate come hanno bloccato l’aereo del presidente boliviano?» che fu obbligato ad atterrare a Vienna dalla chiusura dei cieli europei chiesta dalla Casa Bianca.

Passano meno di 10 minuti da quando Putin chiude la conferenza stampa e Obama inizia la propria. Il presidente americano descrive un G20 differente: «La totalità dei Paesi è d’accordo sul fatto che sono state usare armi chimiche a Damasco il 21 agosto e la vasta maggioranza condivide la convinzione che è stato il regime di Assad a farlo, la divisione c’è fra chi vuole agire nell’ambito dell’Onu e chi invece ritiene che lo stallo all’Onu impone comunque di dare una risposta».

A dare concretezza a tale lettura del G20 c’è la lista di 11 Paesi che la Casa Bianca diffonde perché «condannano l’attacco chimico e ritengono il regime di Assad responsabile». Si tratta di Australia, Canada, Francia, Italia, Giappone, Gran Bretagna, Corea del Sud, Spagna e Turchia oltre agli Stati Uniti. È una coalizione politica che Washington può vantare dallapropriapartee apuntellarlaè l’alleato turco Erdogan: «Quasi tutto il G20 è pro-intervento». Il francese Francois Hollande contribuisce alla manovra diplomatica promettendo: «Per attaccare aspetteremoilverdettodegliispettoriOnu e il voto del Congresso». «Anche io vorrei avere una risoluzione Onu aggiunge Obama - ma il veto russo lo impedisce e per questo dobbiamo agire senza le Nazioni Unite».

Ovvero: è Mosca ad aver creato la crisi di legittimità. Se a ciò si aggiunge che il G20 non include riferimenti alla Siria nel comunicato finale – come Washington auspicava – per Obama significa aver superato indenne l’ostacolo del summit e poter accelerare verso l’intervento. Da qui l’annuncio che martedì sera parlerà alla nazione dalla Casa Bianca come anche l’intenzione di dedicare i prossimi giorni ad un’offensiva per convincere i deputati «soprattutto del mio partito» che minacciano di affondare alla Camera la risoluzione che autorizza il ricorso alla forza. Incalzato dalle domande, Obama non si sbilancia sulla possibilità di attaccare senza l’avallo del Congresso: «Mi aspettavo l’opposizione ma l’intervento è necessario per impedire che altri dittatori si sentano autorizzati ad usare armi di distruzione di massa». E per convincere gli ultraliberal che fanno resistenza fa un paragone storico: «Quando Londra era sotto le bombe in America l’intervento in guerra era impopolare ma fu giusto, come lo è oggi in Siria per punire chi ha usato i gas per uccidere 1400 civili». E da Washington al presidente fa eco il suo ambasciatore all’Onu Samantha Power: «Tutte le alternative all’azione militare in Siria sono state esaurite».

Il Giornale-Fiamma Nirenstein:" Siria,il G20 dà una mano a Obama "


                                                                  Fiamma Nirenstein

Alla fine si sono incontrati. Nonostante Obama avesse orgogliosamente cancellato il bilaterale con Putin nell'ambito del G20 e Putin avesse fatto spallucce, i due ieri, dimostrando la loro basilare fragilità hanno scelto di scambiare qualche idea. Non che questo abbia smorzato lo scontro. Obama però si è accontentato di portare a casa (e davanti al Congresso) la firma incoraggiante della maggioranza dei Paesi (Italia inclusa), che in una dichiarazione congiunta hanno attribuito ad Assad la responsabilità delle violenze e dell'uso di armi chimiche, sostenendo comunque una soluzione non militare. Per entrambi i leader l'incontro è stato «costruttivo», per entrambi restano tutte le «divergenze». Putin, in conferenza stampa, ha rilanciato la sua furiosa campagna di delegittimazione dell'eventuale attacco americano alla Siria dal podio del G20, dimenticando all'improvviso tutta l'agenda economica che aveva propugnato da elegante padrone di casa. Obama triste e deciso ha risposto, fiero e americano come non lo era mai stato, costretto a ribadire la specialità del compito del suo Paese nello stabilire che cosa è morale e cosa non lo è nel mondo contemporaneo. Ha annunciato che martedì parlerà al popolo americano, dalla Casa Bianca, per spiegare al Paese che Assad è una minaccia per la pace e la sicurezza del mondo.

Nel mezzo della discussione infuocata l'Europa fa capolino con una proposta che accanto alla pretesa morale ha anche la caratteristica dell'inefficienza, come spesso le capita. Aveva sognato a suo tempo di sfilare Saddam Hussein dal pantano, poi la fantasia di pacificazione e salvezza era volata su Gheddafi, e adesso si posa come una farfalla in mezzo alla tempesta sulla ossuta spalla di Assad. L'idea sarebbe quella di risolvere con un gesto pacifista la crisi siriana a lato del G20. Ne parla un giornale libanese, Al Joumouria: Assad dovrebbe dimettersi in favore di un governo di transizione che metterebbe insieme uomini del governo e dell'opposizione fino alla conferenza di pace di Ginevra. Assad sarebbe d'accordo a tre condizioni: elezioni immediate dopo le dimissioni, uscita sicura per lui e la famiglia, certezza di non essere processato per crimini di guerra. Un altro giornale libanese, Al Mustaqbal, dice che Washington avrebbe rifiutato tutto il pacchetto ritenendo che Assad non abbia il diritto di scegliere un bel niente, e che l'opposizione non accetterebbe mai.

Intanto da Washington, nonostante le ripetute affermazioni che la guerra sarebbe «limitata e mirata» giungevano notizie per cui l'attacco sarebbe «notevolmente più largo». La campagna non verrebbe condotta solo con il lancio di Tomahawk dalle navi Usa nel Mediterraneo orientale, ma anche per mezzo di una campagna aerea di due giorni. Essa includerebbe un bombardamento aereo di missili e di bombe a largo raggio lanciate dai bombardieri B-2 che trasportano bombe teleguidate dai satelliti, missili da crociera dei B-52 e i B-1 che dal Qatar porteranno missili aria terra a lungo raggio. L'importanza della missione sembra commisurata alla necessità di colpire ben 50 siti dove sono raccolte, secondo le informazione di intelligence, le armi di distruzione di massa, che Obama dichiara di voler eliminare, e Putin ha denunciato come impossibili da colpire se non al prezzo di grandi pericoli per gli abitanti e i soldati. Il costo dell'operazione sale, Chuck Hagel parla di «decine di milioni di dollari». Anche Putin spende però i soldi del contribuente russo: ha spostato nel Mediterraneo le sue quattro navi da guerra più grosse, l'enorme Nikola Filchenkov, annunciando che porta un «carico speciale». Una minaccia misteriosa alla Putin, che non si capisce bene a chi sia rivolta: «In caso di attacco aiuteremo Damasco», ha detto ieri. Decisi fino alla morte l'Iran e gli Hezbollah: gli Usa hanno intercettato un ordine iraniano di attaccare gli «interessi americani a Baghdad». Hezbollah annuncia di aver radunato a Damasco diecimila combattenti pronti a difendere Assad e a attaccare Israele, che non c'entra niente, ma c'entra sempre.

Di fatto, al G20 Putin si è accorto che il suo punto di vista cinicamente pro Assad gli si è trasformato fra le mani in un comodo, popolare strumento pacifista che il mondo contemporaneo preferisce. Dal sostegno per un asse impresentabile come quello iraniano-siriano-Hezbollah, sta passando dalla parte virtuosa di chi è contrario alla guerra. Questa confusione dovrebbe essere evitata a tutti i costi, ma al contrario viene volontariamente equivocata da troppe virtuose nazioni. Rinasce l'antiamericanismo di maniera, che immagina l'America come un Paese che ama la guerra.  

Corriere della Sera- Niall Ferguson: "  Medio Oriente, la fine del panarabismo che deve preoccupare l'Occidente "

Niall Ferguson

L'analisi di Ferguson sarebbe perfetta se avesse aggiunto una considerazione riguardante Israele, l'unico paese mediorientale dove libertà,democrazia e rispetto dei diritti civili sono una realtà. E visto che ha accennato alla Conferenza di Sanremo/ Sykes-Picot, doveva ricordare che l'esistenza di uno Stato degli ebrei vi era previsto su un territorio che comprendeva persino l'attuale Giordania. E' stato il tradimento delle promesse, da Balfour in poi, a lasciare  in eredità quegli Stati - sorti dalle rovine dell'impero ottomano- che oggi insanguinano la regione.
Ecco l'articolo:

Non è la prima volta che la violazione dei diritti umani da parte di un tiranno mediorientale pone un dilemma alle sinistre su entrambe le sponde dell'Atlantico. Se, da un lato, il pubblico britannico non ama leggere notizie sull'impiego di armi chimiche contro la popolazione civile, dall'altro si dimostra profondamente riluttante a intraprendere azioni che possano porre fine ai massacri, per timore di dover ammettere che la potenza militare occidentale — e cioè, in pratica, quella americana — può essere una forza positiva. Sin dagli anni Novanta, quando gli Stati Uniti finalmente si decisero a muoversi per riportare la pace nei Balcani, soffocando le violenze scoppiate nella ex Jugoslavia, ho avanzato tre ipotesi che risultano sgraditissime alla sinistra. La prima è che la potenza militare americana rappresenta il mezzo migliore a nostra disposizione per prevenire i crimini contro l'umanità. La seconda è che, ahimè, gli Stati Uniti si sono trasformati in un «impero liberale» riluttante a causa di tre deficit principali: di manodopera, di risorse e di attenzione. E la terza tesi è che quando gli Stati Uniti faranno un passo indietro, rinunciando all'egemonia globale, vedremo non una riduzione, bensì un moltiplicarsi delle violenze. Più di recente, quasi esattamente un anno fa, sono stato aspramente criticato per aver sostenuto che le principali debolezze del presidente Obama stavano nella sua propensione a delegare le decisioni più difficili al Congresso e nella carenza di una strategia coerente per il Medio Oriente. Gli ultimi avvenimenti hanno confermato le previsioni avanzate in base alla mia analisi. Gli isolazionisti di destra e di sinistra accettano di buon grado la predilezione di Obama per le soluzioni approssimative, qualunque cosa pur di non rischiare «un altro Iraq». Ma tale compiacimento (per non dire insensibilità) sottovaluta le pericolose dinamiche in azione oggi in Medio Oriente. Solo perché gli Stati Uniti sono guidati dall'equivalente geopolitico di Amleto, ciò non significa imporre una situazione di stallo sullo scacchiere globale. Al contrario, meno interviene l'America, più rapidamente cambia la regione, man mano che nuovi attori si fanno avanti per guadagnare spazio e visibilità in un Medio Oriente post americano. La Siria di oggi si sta spaccando in due. Non dimenticate che qualcosa di simile è già avvenuto in Iraq. Ciò che accade sotto i nostri occhi non è solo la fine del Medio Oriente degli anni Settanta, ma la fine del Medio Oriente degli anni Venti. I confini che oggi conosciamo, come tutti sanno, risalgono all'opera dei diplomatici francesi e inglesi durante la Prima guerra mondiale. L'ignobile accordo Sykes-Picot del 1916 fu il primo di una serie di passi che condussero allo smembramento dell'Impero ottomano e alla creazione degli Stati che oggi conosciamo come Siria e Iraq, ma anche Giordania, Libano e Israele (inizialmente chiamato Protettorato britannico della Palestina). Nell'approssimarsi del centenario dello scoppio della Grande guerra, non si intravede alcun motivo per cui questi Stati debbano sopravvivere nella loro configurazione attuale. Si è tentati di pensare a questo fenomeno come a un processo di nuova ottomanizzazione, via via che la regione torna ai suoi confini precedenti il 1916. Sarebbe tuttavia più accurato vederlo invece come una nuova Jugoslavia, dove i conflitti settari porterebbero a «pulizia etnica» e a una ristrutturazione della carta geografica. Nel caso di Bosnia e Kosovo, un altro presidente democratico si trovò a esitare e tentennare a lungo prima di ammettere la necessità di un intervento americano. Non mi sorprenderebbe assistere al ripetersi di questo copione se la moglie di quel presidente dovesse succedere a Obama alla Casa Bianca. Dopo tutto, pare che Obama abbia accolto la «linea rossa» delle armi chimiche solo dietro le pressioni del Dipartimento di Stato, guidato da Hillary Clinton. Tuttavia, il presidente Obama potrebbe anche non riuscire a mantenere in piedi il suo stile di interventismo minimalista fino al 2016. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulle armi chimiche della Siria, i mullah iraniani continuano imperterriti nel loro sforzo di dotarsi di armamenti nucleari. L'ultimo rapporto dell'Agenzia internazionale dell'energia nucleare in proposito è agghiacciante. Mi riesce difficile credere che persino il cauto Obama sia in grado di ignorare che Teheran ha già varcato quella particolare linea rossa, e che questa sia stata tracciata non da lui, ma dal premier israeliano. Il fattore iraniano costituisce una delle differenze chiave tra lo smembramento della ex Jugoslavia e la frantumazione di Paesi come Siria e Iraq. Il Medio Oriente non è i Balcani. La sua popolazione è più numerosa, più giovane, più povera e meno istruita, e subisce il forte influsso dell'Islam radicale. È impossibile identificare in questo contesto un unico «cattivo» alla stregua di Slobodan Milosevic, l'orco della ex Jugoslavia per gli occidentali. Qui entrano in gioco molteplici attori regionali — Iran, Turchia, Arabia Saudita e anche la Russia — dotati tutti di risorse finanziarie e di notevoli capacità militari. Nel suo complesso, la fine del panarabismo appare un processo ben più preoccupante della fine del panslavismo. E più esita l'America, più si estendono e si aggravano i conflitti settari che già travagliano la regione. I sostenitori del non intervento — o, per meglio dire, di un intervento inefficace — devono guardare in faccia una semplice realtà: l'inazione è una scelta che avrà conseguenze misurabili anche in termini di vite umane, e sebbene le sinistre vedano nell'impero americano il male assoluto, questo presupposto non trova conferma alcuna nel corso della storia.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

La Stampa- Barack incontra gli attivisti gay "essenziali per una società aperta"

Il presidente americano Barack Obama ha incontrato stasera, dopo il G20, alcuni rappresentanti di associazioni che lottano per la difesa dei diritti umani e militanti della comunità gay, elogiando il loro lavoro. Ma non ha infierito contro le leggi «liberticide» varate in Russia dopo il ritorno di Putin al Cremlino, tra cui quella che vieta la propaganda omosessuale in presenza di minori, forse per non aggravare ulteriormente le tensioni con Mosca. Obama ha preferito raccontare l’inizio della sua carriera politica come attivista dei diritti umani, definendolo un lavoro importante per formare una società civile e aperta. Poi ha elogiato le attività delle organizzazioni presenti all’incontro, rappresentate dalla paladina ambientalista Ievghenia Cirikova, da Pavel Cikov dell’ong Agora e dal leader della comunità Lgbt locale Igor Kocetkov: «Sono essenziali per lo sviluppo della Russia».

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