Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Usa-Russia: incontro/scontro a S.Pietroburgo Commenti di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari
Testata:Il Giornale-La Stampa Autore: Fiamma Nirenstein-Maurizio Molinari Titolo: «Quei sorrisi di plastica sull'orlo di una guerra-Obama, partita a poker con lo Zar»
Sull'incontro/scontro a S.Pietroburgo tra Obama e Putin, riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 06/09/2013, a pag.17,il commento di Fiamma Nirenstein. Dalla STAMPA quello di Maurizio Molinari, inviato speciale in Russia, a pag.3-
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " Quei sorrisi di plastica sull'orlo di una guerra"
Fiamma Nirenstein
Il grande freddo fra Obama e Putin indossa le piume della festa. Arrivano nel palazzo Costantino di San Pietroburgo al G20 i boss dei venti Paesi più industrializzati del mondo, sfilano salutando il padrone di casa, Vladimir Putin, sulla porta e spariscono dentro verso una doppia agenda: una falsa, sull’economia mondiale, e una vera, la guerra contro Assad di Siria. I due uomini che si salutano con un sorriso di circostanza e posano per i fotografi, sono due leader incerti sugli esiti di questa riunione, anche se si sorridono alquanto. Obama mostra a Putin e alle tv di tutto il mondo come si balza pieni di energia fuori da una limousine, ma sa che deve convincere il maggior numero possibile dei leader del mondo che in Siria non esiste altra soluzione che quella militare. Ha elaborato una sua ragione morale: non sono stato io, ha detto, a inventarmi la “linea rossa” legata all’uso delle armi di distruzione di massa. Siete voi che l’avete creata, il mondo intero, e quindi la responsabilità è tanto mia quanto vostra. Questa tesi subito rimanda alla responsabilità internazionale rispetto all’Iran, Obama la suggerisce chiaramente: se il mondo non interviene quando si gassano i propri concittadini, che direte sulla distruzione di massa per eccellenza, l’atomica? Ripete questa ragione anche il leader repubblicano John Mc Cain quando annuncia il suo sostegno, e a San Pietroburgo, Obama in mezzo a un mondo patchwork, a strisce, a macchie, pensa forse: meglio contare sul voto del Congresso. Putin, sulla porta, sembra sicuro, ma non lo è: gli sorride, ma si sono letti negli occhi in quel secondo che Putin ha dato del bugiardo a Kerry (“E’ triste, ha detto, che presenti i ribelli come moderati, lo sa che sono di Al Qaeda”), che Snowden è da qualche parte in Russia, che Obama ha invitato i gay russi a incontrarlo. Due leader in competizione, con pareri completamente diversi sulla questione più importante, quella della Siria, ma due leader che avrebbero interesse a trovare un accordo, perché nessuno dei due è forte. I due hanno scopi opposti: Obama sa quale è il suo scopo immediato, non gli importa tanto del risultato finale (se Assad, resterà, sarà destituito, se i ribelli saranno amici o nemici); Putin invece, che non è molto affezionato ad Assad, e tantomeno agli Hezbollah e agli iraniani vuole capire chi siederà al potere una volta finita la guerra, chi gli garantirà l’accesso al porto mediterraneo di Tartus e al Medio Oriente. Putin indaga, si informa, fa la faccia feroce, ma vuole sapere cosa può ottenere e nello stesso tempo mantiene la faccia dura con gli USA, gli dona in patria. Il consesso internazionale è alla ricerca di una soluzione mediata. Così lui media: il tema “Siria” non è sull’agenda, dice, parliamo di economia, a cena poi discuteremo della guerra. Un modo di rimandare ancora, di studiare, di osservare… Intanto invia il suo ministro degli esteri a incontrare quello siriano a Damasco, cerca forse un accordo per un summit. La Cina ha dichiarato esplicitamente le sue preoccupazioni per l’economia mondiale, tutti pensano a quei pipeline di petrolio che passano ovunque, ai 50mila barili della Siria, ai 3milioni e 800mila che passano da Suez tutti i giorni e sono la nostra benzina quotidiana, i condotti che percorrono la Turchia, l’Iran, l’Iraq, l’Algeria… Il Sud Africa è contrario all’idea di un intervento militare, così l’Argentina, e probabilmente anche il Brasile e il Messico. La Francia fino ad ora ha rappresentato la rocca di Obama in Europa, ma in queste ore si parla di una sua preferenza per la trattativa, l’Italia vuole l’autorizzazione ONU, Ban Ki Moon è là nel ruolo tipico dell’ONU: non fare niente. Il teatro mediorentale intanto si scalda: dal Libano giunge la notizia che gli Hezbollah possono mobilitare diecimila combattenti, e che li userà, quando l’Iran lo ordinerà, in parte per occupare il terreno in Siria quando Assad collasserà, e in parte, soprattutto, per attaccare Israele. Ma Obama ormai ha deciso, salvo novità eccezionali. Putin, alla fine, è messo male: non ha via di uscita a meno di non voler essere ricordato come l’iniziatore della terza guerra mondiale, cosa difficile da credere.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Obama, partita a poker con lo Zar "
Maurizio Molinari
Al G20 è duello sulla Siria fra Barack Obama e Vladimir Putin. Inizia subito, appena il presidente americano arriva da Stoccolma al summit, quando ad accoglierlo trova il capo del Cremlino. Si scambiano un’occhiata gelida mentre il linguaggio dei corpi descrive reciproca rigidità. Si parlano per 15 secondi. «Hanno parlato del bel tempo che c’è a San Pietroburgo» dice, irridente, un portavoce americano. Da quell’attimo i due leader separati dalla crisi siriana seguono percorso il crescente contrapposizione. Putin vede il leader cinese Xi per suggellare il patto del veto pro-Assad all’Onu, poi accoglie il premier giapponese Abe promettendo una schiarita sul trattato di pace - che manca dal 1945 - se non seguirà Obama sulla Siria e infine abbraccia l’italiano Letta, il premier del Paese Nato più apertamente ostile all’intervento militare.
Ma ciò a cui Putin più tiene è la riunione con i leader dei Brics - Brasile, India, Cina e Sudafrica oltre alla Russia - perché le economie emergenti firmano un doppio comunicato di sfida a Washington. Affermano che la crisi siriana «mette a rischio la ripresa globale» e sostengono il presidente del Brasile, Dilma Roussef, che rinvia la visita alla Casa Bianca per protestare contro lo «spionaggio elettronico americano» svelato da Edward Snowden, l’ex analista dell’intelligence Usa fuggito all’estero e protetto dall’asilo in Russia.
Quando Dmitry Peskov, portavoce di Putin, parla ai reporter l’approccio russo al summit prende forma: «Abbiamo seri disaccordi con l’America sulla Siria, solo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu può decidere il ricorso alla forza, le prove contro Assad sui gas non sono né convincenti né legittime«. E la ciliegina sulla torta è l’arruolamento di Papa Bergoglio nell’offensiva anti-Usa: «Stiamo traducendo la sua lettera, non l’abbiamo ancora letta perché il presidente era in Estremo Oriente ma se è vero che ci chiede di continuare gli sforzi per la pace, questo è proprio quello che faremo».
Nella cena dei Venti, Putin gioca a poker: dà la parola al segretario generale dell’Onu Ban Ki moon per far risaltare che è lui a sostenere la soluzione politica, poi parlano Obama e Hollande per sostenere l’«intervento limitato», chiudono la Merkel e Letta (che dice: «La lettera del Papa interroga le coscienze»). Putin vuole raggiungere l’accordo al summit su una dichiarazione scritta sulla Siria che, pur durissima sui gas, tagli la strada al blitz militare. Riuscendo così a ostacolare i piani dell’ospite americano, con cui però le formalità non vengono mai meno perché Putin non vuole umiliarlo: persegue piuttosto l’obiettivo di evidenziarne isolamento.
Sul fronte opposto Obama gioca la partita opposta. Vede il giapponese Abe e prepara i colloqui odierni con il francese Hollande e il cinese Xi puntando sulla validità delle prove che inchiodano il regime di Assad alla responsabilità dell’uso di circa 50 litri di gas contro i civili a Damasco, che hanno causato oltre 1400 vittime. Sulla «validità delle prove» Obama ha l’assenso di Parigi e incassa anche quello di Berlino mentre da Londra David Cameron assicura: «Ne abbiamo di altre e confermano la responsabilità del regime di Assad». Il presidente Ue Van Rompuy prende atto della convergenza fra i maggiori Paesi membri e Washington: «Dicono di avere prove contro il regime di Assad ma è giusto aspettare il Consiglio di Sicurezza».
È questo l’assist che Washington cerca perché, con il consigliere Ben Rhodes, commenta: «L’Onu non può agire perché la Russia lo blocca e dunque serve un’altra risposta». La stessa frase è stata messa nero su bianco dai leader scandinavi a Stoccolma come dal giapponese Abe e Samantha Power, ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro, ne sottolinea il significato dicendo «il problema è l’Onu in ostaggio della Russia». Per Washington ciò che conta è avere il sostegno politico degli europei alla validità delle prove che legittimano l’intervento ovvero una posizione in sintonia con quella di Lega Araba e Turchia di Erdogan.
Per questo la Casa Bianca definisce «implausibili» le tesi di Mosca sulla responsabilità dei ribelli, accusando Putin di «sostenere Assad fino al punto di ostacolare la soluzione politica della crisi». Nulla da stupirsi se il commento di Rhodes, consigliere strategico della Casa Bianca, alla lettera della Santa Sede è assai prudente: «Non l’abbiamo vista, dobbiamo leggerla, diamo sempre il benvenuto alle posizioni della Chiesa cattolica che ha un impegno di lungo termine per la pace». Come dire: è troppo presto per affermare che il Papa stia con Putin. E sul documento finale gli Usa sono scettici su qualsiasi riferimento alla Siria perché sanno che potrebbe trasformarsi in un freno all’intervento militare.
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