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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Libero - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
05.09.2013 Siria: Obama al G20 chiede di fermare Assad
cronache e commenti di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Carlo Panella, Anna Zafesova, Guido Olimpio

Testata:La Stampa - Libero - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Anna Zafesova - Carlo Panella - Guido Olimpio - Maurizio Molinari
Titolo: «La vera guerra è tra Obama e Putin - Obama: il mondo fermi Assad - L’offensiva di Mosca: I ribelli hanno il gas - C’è una via politico-militare seria contro Assad, ma non è quella scelta da Obama - La pattuglia tunisina coi microchip agli ordini della Cia»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/09/2013, a pag. 1-15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La vera guerra è tra Obama e Putin ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama: il mondo fermi Assad", a pag. 4, l'articolo di Anna Zafesova dal titolo " L’offensiva di Mosca: I ribelli hanno il gas ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " La pattuglia tunisina coi microchip agli ordini della Cia ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " C’è una via politico-militare seria contro Assad, ma non è quella scelta da Obama ". Dalla STAMPA del 04/09/2013, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Incontro con gli attivisti gay Obama sfida Putin a casa sua ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La vera guerra è tra Obama e Putin "


Fiamma Nirenstein

“Ve l'avevo detto che non mi meritavo il Premio Nobel per la pace” ha ridacchiato ieri il presidente Obama durante una conferenza stampa a Stoccolma. Una battuta, una vacanza dall’ incessante dichiarazioni di principio che caratterizzano questi giorni di preparazione all’ ormai inevitabile attacco in Siria. Domani comincia in Russia il G20, Obama e Putin dopo la crisi su Snowden, non hanno in programma incontri diretti, ma il loro dialogo a distanza assorda la comunità internazionale. Sul Mediorente si misura in queste ore l’abilità dei due e il destino del mondo: Obama vuole affermare la forza morale degli USA, spazzare in poche ore ogni dubbio sull’egemonia occidentale su quell’area. Putin sa che il suo alleato è diventato imbarazzante ma può contare su una robusta coalizione sciita che non lo lascerà finché egli non li abbandonerà, e valuta in queste ore quanto la zampa dell’orso russo può essere ruvida, data la scarsa presentabilità dei suoi alleati Assad, Nasrallah, il capo degli Hezbollah, e Khamenei, l’ayatollah che domina l’Iran. Quindi, mantenendo le posizioni, apre qualche spiraglio al presidente americano.

Obama ha ripetuto ieri:“Il mondo deve agire”, dà per acquisito l’uso delle armi chimiche da parte di Assad, insiste che “l’approvazione ONU dell’azione militare non può essere una scusa per non fare niente”. Sfida il mondo:“Se ci sentiamo oltraggiati dalla strage degli innocenti, che faremo per contrastarla?”. A Washington imperversa la battaglia dei suoi ministri, Kerry, Hagel e Dempsey, per convincere la Commissione Esteri del Parlamento, e Kerry perora le posizioni del suo capo chiedendo quasi con le lacrime agli occhi: “Vi sentireste a posto con la vostra coscienza se Assad, a causa dell’inazione degli USA, potesse gassare di nuovo il suo popolo?”. Ormai è una questione di sopravvivenza morale. Obama spiega che non è lui ad avare messo la famosa “linea rossa”, ma la comunità internazionale, che qui mette il suo onore, e d’un solo fiato ricorda che è tutta sua l’autorità, non del Congresso, cui tuttavia chiede sostegno.

Putin, col solito volto guascone e pietroso nello stesso tempo, decide di fare titoli, mentre si capisce che non sa bene che fare: lui è certamente pronto a sostenere l’azione militare contro la Siria, se essa fosse sostenuta dall’ONU e se esistessero “prove al di là di ogni dubbio” che Assad ha usato armi chimiche. Ma tutti sanno che l’ONU non ha mai potuto utilizzare, per due anni, il meccanismo del voto contro Assad a causa del veto di Putin stesso. Eppure era noto che c’erano 100mila morti, e si sapeva chi li aveva fatti. Ma Putin ha subito spiegato come la pensa: Assad non ha mai usato armi chimiche, senza prove si tratterebbe di un’aggressione arbitraria, di un pretesto inammissibile. Allora, che cosa vuol fare Putin se Obama attacca? Prudente, ha informato che è sospesa la consegna dei missili S300 promessi a Assad. Se l’attacco avesse luogo, ha aggiunto,“abbiamo le nostre idee su quel che faremo e come lo faremo”.

Ma lo sa davvero? Putin ha mosso una grossa nave da guerra verso il Mediterraneo orientale, dove si trovano anche le navi americane. Una maniera di riaffermare una presenza padronale sulle onde: è la sua porta d’accesso a quell’egemonia sul Mediorente cui la Russia accede anche attraverso la base navale di Tartus, il centro del potere costale di Assad. In queste ore Putin si dibatte fra il vantaggio politico che gli dà la schermaglia con Obama, che lo mette al suo pari e gli fa conquistare consensi, e la eccessiva serietà dell’argomento. Fino a che punto la Russia può davvero legarsi al fronte siro-iraniano, che prepara la bomba atomica pericolosa anche per lui? E quanto Obama cercherà almeno la sua neutralità? La prossima puntata al G20.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama: il mondo fermi Assad "


Maurizio Molinari

«È il momento di agire sulla Siria, il mondo non deve tacere su tali atrocità, se la Russia cambierà atteggiamento saremo più efficaci con Bashar Assad»: Barack Obama sfrutta la tappa svedese per chiedere alla comunità internazionale di «unirsi» contro il regime di Damasco al G20 che si apre oggi a San Pietroburgo.

Forte dell’intesa sull’uso della forza in Siria registrata con i leader del Congresso a Washington, Obama affronta il G20 con l’intento di creare consenso internazionale attorno alla «punizione del regime di Assad» per aver usato i gas contro i civili lo scorso 21 agosto. «Non sono io ad aver fissato una linea rossa ma è la comunità internazionale ad averlo fatto approvando il Trattato contro le armi chimiche ratificato da Paesi che rappresentano il 98 per cento del pianeta» dice il presidente americano riferendosi alla Convenzione di Ginevra del 1925. Dunque «non è la credibilità mia ad essere a rischio ma quella della comunità internazionale» nella decisione di punire «l’uso dei gas con cui sono stati uccisi oltre 400 bambini e 1400 civili». Non facendolo «regimi e dittatori» si sentirebbero liberi di usare altre armi di distruzione di massa - dal nucleare al batteriologico - e dunque «tocca al mondo unirsi per far rispettare le norme che proteggono l’umanità».

Incalzato dalle domande dei reporter che sollevano dubbi sulla credibilità delle accuse ad Assad evocando il precedente dell’Iraq, Obama risponde: «Ero contro la guerra in Iraq, non ripeteremo gli errori commessi allora, quando la comunità internazionale si trova davanti a crimini come quelli commessi in Ruanda o Kosovo deve agire». C’è anche chi gli chiede se «si sente in contraddizione visto che ha ricevuto il Nobel per la pace» e Obama replica citando il discorso che fece ricevendolo nel 2009 a Oslo: «Dissi che rispetto ai predecessori non lo meritavo e spiegai che ogni nazione ha delle responsabilità e quelle dell’America sono di evitare crimini contro l’umanità quando si verificano in Ruanda, Sierra Leone, Libia o Siria». Bersagliato dalle critiche, Obama risponde: «Preferisco parlare di come migliorare l’educazione dei bambini di 3-4 anni anziché di bambini di 3-4 uccisi dai gas». È una maniera per far capire che il presidente è obbligato all’intervento per «indebolire l’arsenale chimico di Assad e spingerlo a non usare più i gas» puntando «ad una soluzione politica attraverso il dialogo a Ginevra». Da qui l’approccio alla Russia di Vladimir Putin, maggiore sostenitore di Assad. «Il reset dei rapporti ha funzionato ma siamo in disaccordo sulla Siria, con il loro contributo saremmo più efficaci» ma Mosca «continua ad impedire all’Onu di compiere ogni passo» anche se la Casa Bianca condivide con il Cremlino «la pericolosità dei ribelli di al-Nusra – legati ad Al Qaeda – la necessità dell’integrità territoriale siriana e della soluzione politica». Come dire, Obama ha fatto molti passi verso Putin ed ora tocca a Mosca abbandonare Assad.

I bilaterali in programma a San Pietroburgo servono a puntellare la coalizione antiAssad: Obama vedrà il francese Hollande, alleato di ferro, il giapponese Abe, pronto a dare contributi non militari, e il cinese Xi sperando di riuscire a staccarlo da Mosca. Ed agli europei incerti, Washington indica l’esempio del premier svedese Reinfeldt che, pur sostenendo la necessità dell’Onu, aggiunge che in presenza dello stallo al Consiglio di Sicurezza «tali violenze non possono rimanere senza risposta». Al G20 vi saranno altri Paesi pro-intervento dalla Arabia Saudita della Turchia - e ciò consente a Obama di puntare ad un summit capace di evidenziare l’isolamento di Putin nel sostegno ad Assad.

La STAMPA - Anna Zafesova : " L’offensiva di Mosca: I ribelli hanno il gas "


Vladimir Putin

Sono i ribelli siriani ad aver usato le armi chimiche, e Mosca sostiene di avere le prove dell’utilizzo del sarin contro i militari di Assad. Alla vigilia dell’appuntamento del G20 dove Barack Obama sperava ancora di «far cambiare idea» a Vladimir Putin, il ministero degli Esteri russo lancia ufficialmente l’accusa: il 19 marzo, in un sobborgo di Aleppo, 26 militari e civili sono morti e altri 86 sono rimasti intossicati a seguito dell’utilizzo di un’ordigno chimico «costruito artigianalmente con materiali non in dotazione all’esercito siriano». Poche ore prima Putin aveva condizionato il suo appoggio all’intervento contro Damasco a «prove evidenti» dell’uso di armi chimiche da parte di Assad, e all’assenso dell’Onu (che finora è stata proprio la Russia a bloccare con il veto nel Consiglio di Sicurezza), sostenendo che il Congresso non ha il diritto di «legittimare un’aggressione». Ma intanto è Mosca che sostiene di avere le prove della colpevolezza dei ribelli: il documento, 100 pagine di perizie compiute da esperti russi sui campioni raccolti dai siriani, è stato consegnato all’Onu. E, in attesa delle «prove evidenti» degli americani, Putin ha ripetuto l’ipotesi già ventilata da Mosca nei giorni scorsi che le accuse dell’attacco chimico ordinato da Assad siano «una provocazione dell’opposizione siriana per dare ai suoi protettori il pretesto per intervenire».

A questo punto, per quanto Putin neghi il «gelo» tra Mosca e Washington e non ritenga «una catastrofe» il vertice cancellato con Obama alla vigilia del G20, è rottura su tutti i fronti. Ieri mattina, in un’intervista congiunta ai giornalisti russi e a quelli dell’«Associated Press», Putin aveva già dato del «bugiardo» a John Kerry, che ha cancellato la sua partecipazione al G20. «Dice bugie e sa di essere bugiardo, che brutto», ha commentato il presidente russo attribuendo al segretario di Stato americano l’affermazione che tra l’opposizione armata in Siria non ci siano affiliati di Al Qaeda (per quanto i giornalisti russi non siano riusciti a trovare il passaggio incriminato negli stenogrammi del Congresso americano). Il leader russo è apparso perfettamente calato nella parte dell’antagonista degli Usa, usando toni da guerra fredda: al vicedirettore dell’Ap che gli chiedeva della reazione all’eventuale intervento americano in Siria ha risposto bruscamente: «Ma che domande fa, lavora per un media o per la Cia?», e ha accusato Washington di voler «screditare» le Olimpiadi invernali di Sochi accusando la Russia di calpestare i diritti dei gay russi che invece, secondo Putin, non vengono minimamente discriminati: «Ci sono persone così alle quali ho addirittura dato medaglie e premi per il loro lavoro, e amiamo Ciakovsky, non certo perché dicono fosse omosessuale, ma per la sua musica».

Così, mentre Obama da Stoccolma rievoca ancora il «reset» con Mosca, Putin pare averlo seppellito definitivamente: «Ciascuno di noi difende i propri interessi e principi, un lavoro che facciamo insieme, non facile, ma è routine». Che gli interessi siano ormai opposti lo testimoniano anche le bellicose intenzioni della marina militare russa, di rinforzare lo schieramento delle navi nel Mediterraneo. E se prima si parlava soltanto di un pattugliamento (anche per la composizione della flottiglia), ieri il comando della marina militare ha dichiarato all’Interfax di «essere pronto a influire seriamente sulla situazione militare», coinvolgendo anche sottomarini: «Nel 1956 la sola presenza delle navi sovietiche ha impedito l’aggressione degli Usa contro l’Egitto», ha spiegato un portavoce, rievocando la crisi di Suez e quindi smentendo Putin che ieri ha negato di voler difendere l’alleato Assad.

Il FOGLIO - Carlo Panella : " C’è una via politico-militare seria contro Assad, ma non è quella scelta da Obama "


Carlo Panella

Il peggior risultato con il massimo impegno: i raid che Barack Obama si accinge a lanciare sulla Siria non avranno un effetto decisivo sul piano militare, non daranno un aiuto concreto ai ribelli, non piegheranno Bashar el Assad, ma avranno conseguenze politiche e di immagine negative per gli Stati Uniti e l’occidente sulla scena mediorientale, incluse possibili ritorsioni missilistiche su Israele. La “mindless strategy” (copyright Donald Rumsfeld) della Casa Bianca prevede soltanto il lancio di missili su alcune decine di obiettivi militari per alcuni giorni e nulla più. Grosso modo la replica della operazione “Desert Fox” lanciata da Bill Clinton in Iraq tra il 16 e il 19 dicembre 1998, 300 missili su 50 obiettivi con lo scopo di dissuadere Saddam Hussein dall’usare armi di distruzione di massa. Effetto: nullo. Per comprendere l’assoluta marginalità anche di questa nuova operazione, basta ricordare che Stati Uniti e Nato effettuarono per 9 mesi nel 2011 non meno di 10.000 missioni aeree contro l’esercito di Muammar Gheddafi, le cui Forze armate erano una piccola frazione rispetto a quelle siriane, prima di riscontrare un effetto decisivo. Prevedere l’inutilità sostanziale dei raid progettati da Obama non comporta affatto negare la necessità di un intervento militare contro la Siria, ma rafforza la constatazione dell’assoluta mancanza da parte dell’attuale Amministrazione americana di una visione concreta degli attori della crisi siriana, peggiorata da una dottrina errata sulle dinamiche del medio oriente. Questo preclude la strada all’unico intervento militare utile e decisivo. Per punire Assad per l’uso di armi chimiche basterebbe fornire armamenti ai ribelli laici (autoblindo e armamento medio e leggero), senza alcun impiego di Forze armate occidentali. Lo scenario siriano presenta una caratteristica politico-militare unica, che non c’era in Libia, in Iraq e in Afghanistan: l’impegno a fianco dei ribelli laici di più di diecimila disertori dell’esercito di Damasco, inclusi gli ufficiali, con eccellente professionalità, ma con armamenti quasi nulli. La principale remora a questa opzione, che avrebbe potuto e dovuto essere dispiegata sin dal 2012, è nota: la presenza in Siria di consistenti nuclei di terroristi islamici. La giusta preoccupazione di non fornire armi ai qaidisti era ed è però facilmente risolvibile. Come ha dimostrato il reportage di Elizabeth O’Bagy pubblicato dal Wall Street Journal e tradotto dal Foglio il 3 settembre, sul terreno le forze dei disertori e dei ribelli nazionalisti sono ben distinte da quelle dei qaidisti, con relativi checkpoint nelle zone liberate. Ma soprattutto è diversificato il retroterra logistico degli uni e degli altri. Turchia, Giordania e Kurdistan iracheno ospitano le retrovie dei disertori e dei nazionalisti e controllano che non vi siano infiltrazioni qaidiste. Il nord del Libano, invece, dove sono impiantate consistenti forze sunnite e islamiste, sostenute da Arabia Saudita e Qatar, è il “santuario” dei qaidisti. Se Barack Obama lavorasse a una coalizione con il fidato re Abdullah II di Giordania (avversario storico degli islamisti, come dei Fratelli musulmani), con il premier turco Recep Tayipp Erdogan (meno fidato, ma pur sempre un democratico e un membro della Nato) e con Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, unica regione democratica del mondo arabo, che sostiene i curdi siriani in armi anche contro i qaidisti, potrebbe rapidamente organizzare una catena di rifornimenti militari determinante per punire Assad per l’uso di armi chimiche e sconfiggere l’Internazionale sciita dei pasdaran iraniani e di Hezbollah. Questa era ieri ed è oggi l’unica opzione politicomilitare seria, senza contraccolpi negativi per l’occidente (e per Israele). Per comprendere perché non sia perseguita bisogna guardare l’immagine del segretario di stato americano, John Kerry, in conviviale e amabile conversazione con Assad e signore nel 2010. Una foto diversa dalle tante che ritraggono grandi della terra a fianco di altri dittatori arabi. Kerry, infatti, come la leader della minoranza democratica alla Camera americana, Nancy Pelosi, che incontrò Assad nel 2006 in polemica con George W. Bush, Hillary Clinton e Barack Obama erano convinti che Assad fosse il baricentro decisivo della politica del dialogo che avrebbe sbloccato il contenzioso sul nucleare iraniano, come la crisi israelo-palestinese. Sulla certezza di poter contare sulla mediazione fattiva del “riformista” Assad (Hillary Clinton così lo definì dopo i primi tre mesi di massacri) Obama fondò il suo appello al dialogo con i regimi islamici lanciato dal Cairo il 6 giugno 2009. Fallita nel nulla quella dottrina, Obama e Kerry scoprono ora che Assad è invece, come sosteneva George W. Bush, la punta di lancia dell’“asse del male”. Ma, al solito, non hanno un piano B. Replicano così gli ingloriosi errori di Jimmy Carter con l’Iran (la disastrosa operazione di Taba per liberare gli ostaggi) e le inutili dimostrazioni punitive di Bill Clinton, nella peggiore tradizione dei presidenti democratici.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " La pattuglia tunisina coi microchip agli ordini della Cia "


Guido Olimpio

WASHINGTON - E' l'ora dell'intrigo. Con le voci e le notizie che si mescolano aggiungendo «nebbia» in uno scacchiere già confuso. Un messaggio attribuito ad Al Nusra, gruppo ribelle siriano di ispirazione qaedista, racconta di una decina di «spie» americane appena entrate dalla Giordania e scoperte dai militanti a Deraa. Jihadisti tunisini, secondo l'accusa, che avrebbero dovuto guidare gli attacchi dei droni Usa celando segnalatori elettronici nelle basi dei militanti. In un post su Facebook, i terroristi annunciano che saranno giustiziati, probabilmente già in queste ore. Una sentenza accompagnata dalla foto di un cappio. La storia, complicata e da verificare, sembra combaciare con alcuni fattori emersi in queste settimane. Vediamoli nel dettaglio. i) Ba-rack Obama ha rivelato ai congressisti che un primo reparto di insorti siriani addestrati dalla Cia in Giordania sono da poco attivi sul fronte a sud di Damasco. Le presunte spie, se davvero esistono, appartengono a questo nucleo? 2) Al Nusra, da giorni, afferma che i missili americani potrebbero colpire non solo il regime ma anche i suoi accampamenti. Infatti, gli estremisti ne hanno sgomberati diversi. 3) Nelle audizioni al Congresso è apparso chiaro che gli Usa hanno forti timori che le armi chimiche possano finire un giorno nelle mani dell'ala più radicale della ribellione, uno scenario che potrebbe persino costringere a un'azione terrestre americana. John Kerry lo ha fatto capire. 4) La Casa Bianca ha promesso di lanciare un programma di aiuti militare in favore degli insorti, ma tra i consiglieri continuano ad esserci molti dubbi. Non è sempre facile distinguere tra ribelli «buoni» e quelli «cattivi», fazioni che cambiano a volte a seconda dello sponsor del momento. E' allora possibile che gli Stati Uniti, insieme ai servizi giordani, stiano monitorando da vicino i guerriglieri di Al Nusra e sfruttino, per infiltrarli, l'afflusso costante di volontari nord africani e europei. Manovra che ha i suoi rischi. E che magari ha indispettito altre intelligence (sauditi? Qatar?) che sostengono le componenti islamiste. Uno dei tanti «duelli» all'interno della crisi siriana. A Washington si è convinti che lo scontro con i qaedisti di Al Nusra sia inevitabile. Non meno complesso il caso del generale Ali Habib Mahmoud, ministro della Difesa siriano fino al 2011. Fonti affermano che è scappato in Turchia senza però unirsi agli insorti mentre Damasco nega - «Nessuna fuga, si trova a casa sua» - e Ankara afferma di non saperne nulla. Alawita, uomo di prestigio, ha guidato le truppe siriane durante la prima guerra del Golfo, ha allacciato buoni rapporti in Occidente e in Arabia Saudita. Mahmoud, però, ha perso il posto nell'agosto di due anni fa. Una versione parlava di un siluramento perché si era rifiutato di far bombardare la città di Hama. Una scelta che poteva farlo passare per un dissidente, anche se l'Unione Europea e gli Usa lo hanno inserito nella lista nera per il coinvolgimento nella repressione. Persa la poltrona, lo avevano dato per morto, forse a causa di un infarto oppure fucilato. La tv statale, per smentire, lo aveva mostrato in un video. Più di recente la figura del generale sarebbe stata evocata dal principe Bandar, il capo dei servizi sauditi e grande tessitore di trame, in occasione di un colloquio con Vladimir Putin. Per Riad il generale potrebbe essere la figura adatta a guidare una transizione del potere in quanto darà garanzie agli alawiti (e alle altre minoranze), è riconosciuto come interlocutore da molti paesi e sarebbe accettato da una parte dell'opposizione. Un «abito» confezionato anche per un altro generale, Manaf Tlass, rifugiatosi in Francia nel luglio 2012 e poi rimasto nel limbo.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Incontro con gli attivisti gay Obama sfida Putin a casa sua "


Raoul Wallenberg, diplomatico svedese che salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla deportazione nazista per poi essere arrestato nel 1945 dai sovietici, che lo rinchiusero nella prigione moscovita della Lubianka fino alla misteriosa morte avvenuta nel 1947

Non solo Edward Snowden e Siria, il contenzioso fra Usa e Russia si arricchisce di un nuovo capitolo: Barack Obama incontrerà domani a San Pietroburgo un gruppo di attivisti a favore dei diritti umani, ed in particolare di quelli gay, compiendo un nuovo gesto di sfida nei confronti di Vladimir Putin dopo l’annullamento del vertice bilaterale che era previsto prima del summit del G20.

La notizia degli inviti estesi agli attivisti russi rimbalza da San Pietroburgo in coincidenza con l’arrivo di Obama questa mattina a Stoccolma, inserita nel viaggio in sostituzione della tappa a Mosca. L’incontro avverrà nel Crowne Plaza Hotel di San Pietroburgo, dove il presidente americano riceverà fra gli altri Lev Ponomarev e Lyudmila Alexeyeva, veterani delle battaglie per i diritti umani nell’ex Urss, il direttore della Ong «Legal Aid» Pavel Chikov, i rappresentanti dei gruppi pro-gay «Coming Out» e «LGBT Network», e anche una delegazione di «Golos», l’organizzazione per il monitoraggio dei risultati elettorali sciolta dal ministero della Giustizia russo perché accusata di essere infiltrata da «agenti stranieri» pagati da UsAid, l’ente americano per gli aiuti allo sviluppo. Sono stati proprio i rappresentanti di questi gruppi a far sapere - attraverso il sito BuzzFeed - di aver avuto l’invito della Casa Bianca anche se Igor Kochetkov, direttore di «LGBT Network» ha precisato di «aver ricevuto la richiesta di non dire nulla» sull’agenda di Obama durante il soggiorno a San Pietroburgo.

Già in occasione della sua ultima visita in Russia, nel 2009, Obama incontrò una delegazione di attivisti dell’opposizione in Russia, come il predecessore George W. Bush aveva fatto in occasione del summit del G8 a San Pietroburgo nel 2006, ma in questa occasione l’inserimento nella delegazione dei rappresentanti pro-gay ha un significato particolare perché investe una polemica rovente che riguarda lo stesso Vladimir Putin. Il motivo è che proprio il presidente russo, lo scorso giugno, ha firmato la legge che proibisce la «propaganda pro-gay», estendendo sull’intero territorio nazionale le norme già in vigore a San Pietroburgo. Gli attivisti pro-gay locali considerano tale legge fonte di grave discriminazione sessuale e Obama ha già fatto capire di essere al loro fianco dichiarando al talk show tv di Jay Leno di «non avere pazienza con le nazioni che intimidiscono o fanno del male a gay, le lesbiche o i transgender».

Tali posizioni non hanno finora avuto alcun impatto sul Cremlino, che ha assicurato di voler «far rispettare» le norme anti-gay in occasione dei Giochi Invernali in programma a Sochi nel 2014 ma Obama, scegliendo di incontrare gli attivisti gay a San Pietroburgo, lascia intendere di voler sostenere la loro campagna proprio in vista delle Olimpiadi sul Mar Nero. Sebbene l’amministrazione Usa non abbia ancora confermato gli incontri di San Pietroburgo, l’accelerazione di Obama sui diritti gay appare come un’ulteriore ritorsione americana nei confronti del Cremlino dopo la decisione di Putin di garantire asilo politico per un anno a Edward Snowden, l’ex analista dell’intelligente Usa fuggito all’estero per rivelare i segreti dei programmi di sorveglianza elettronica della «National Security Agency». Senza contare le fibrillazioni bilaterali sull’intervento militare in Siria.

Ma non è tutto perché oggi pomeriggio, nella sinagoga di Stoccolma, Obama presenzierà ad un altro evento dai toni polemici alla volta di Mosca: la celebrazione di Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese che salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla deportazione nazista per poi essere arrestato nel 1945 dai sovietici, che lo rinchiusero nella prigione moscovita della Lubianka fino alla misteriosa morte avvenuta nel 1947. Neanche dopo la dissoluzione dell’Urss le autorità russe hanno tolto il segreto sulle ragioni della cattura di Wallenberg - che fu accusato di spionaggio - e Obama celebrandone l’eroismo umanitario intende far capire a Putin che molti scheletri sovietici potrebbero uscire dall’armadio.

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