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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
04.09.2013 Siria: un'intervista che sarà gradita a Hezbollah, sostenitore di Assad
quella di Udg a Massimo D'Alema. Con l'intervista di Paolo Valentino a Joschka Fischer

Testata:Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Paolo Valentino - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «L’America, poliziotto assente. Ecco perché la rimpiangeremo - D'Alema: attacco inutile e dannoso - 'Obama sbaglia, la soluzione è solo politica'»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/09/2013, a pag. 3, l'intervista di Paolo Valentino dal titolo " L’America, poliziotto assente. Ecco perché la rimpiangeremo ". Dall'UNITA', a pag. 3, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Massimo D'Alema dal titolo " D'Alema: attacco inutile e dannoso - «Obama sbaglia, la soluzione è solo politica» ", preceduta dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " L’America, poliziotto assente. Ecco perché la rimpiangeremo "


Joschka Fischer

Rimpiangeremo lo sceriffo del mondo? Ci mancherà la «indispensable nation», giusta la celebre definizione che dell’America diede Madeleine Albright?
Non sono più solo quesiti retorici, di fronte al dipanarsi violento della crisi siriana, che tocca il nervo scoperto di un Presidente, e di un intero establishment, costretti a misurarsi con un dilemma esistenziale: se gli Stati Uniti debbano e possano continuare a garantire e sorvegliare in qualche modo l’ordine globale.
«Il mondo post-americano sta prendendo forma sotto i nostri occhi ed è caratterizzato da ambiguità politica, instabilità e caos. È una situazione molto pericolosa, così pericolosa che alla fine anche i più accaniti antiamericani potrebbero finire per rimpiangere il secolo in cui l’America è stata il guardiano del mondo».
Joschka Fischer chiama le cose per nome, indica rischi e pericoli, ma nelle crisi e nei cambi di stagione intravede anche inaspettate opportunità.
Non c’è alcun dubbio, spiega l’ex ministro degli Esteri tedesco, che «oggettivamente e soggettivamente gli Usa non vogliano e non possano più assolvere a un ruolo globale». Le cause sono note. L’emorragia «di sangue e denaro» provocata dalle avventure in Afghanistan e Iraq, la crisi economica e finanziaria, il debito pubblico, le nuove priorità interne, la necessità di concentrarsi sulla sfida che viene dal Pacifico, dove si misura il declino relativo dell’America di fronte alle potenze emergenti.
E anche se gli Stati Uniti, spiega Fischer, riusciranno prima o poi a ridefinire la loro posizione nel mondo, sulla base dei nuovi equilibri, è chiaro «che il peso relativo e l’estensione del loro potere ne usciranno ridimensionati». Ma l’attesa e il cammino verso il nuovo assetto strategico «sono densi di rischi e carichi di potenziali di conflitto dalle conseguenze incalcolabili».
Nulla lo dimostra meglio delle crisi mediorientali e in particolare di quella in Siria, dove finora l’importanza del ruolo americano è «diventata evidente in absentia di leadership». Osservava ieri sul Financial Times Gideon Rachman, che lo stesso intervento limitato con i missili cruise lanciati dalle navi, per il quale il presidente Obama ha chiesto l’autorizzazione del Congresso, non può mascherare il fatto che Washington al momento non abbia una vera e propria strategia per il dramma in corso a Damasco.
Ma è proprio questa, secondo Fischer, la ragione per cui siamo destinati a rimpiangere il buon tempo antico, quando l’America, secondo la celebre frase di John Kennedy, era pronta a «pagare ogni prezzo, assumersi ogni peso, far fronte a ogni avversità, sostenere ogni amico, combattere ogni nemico per assicurare la sopravvivenza della libertà».
«Ciò che impariamo oggi dalla crisi in Medio Oriente — dice Fischer — è che potenze regionali (Iran, Turchia, Arabia Saudita) stanno cercando di sostituirsi agli Usa come garanti dell’ordine. Ma ciò produce altro caos e combustibile per nuove violenze. Primo, perché nessuna di queste nazioni è forte abbastanza per rimpiazzare da sola l’America. E inoltre perché la frattura sciiti-sunniti produce politiche contraddittorie: così in Egitto i sauditi sostengono i militari contro la Fratellanza, mentre in Siria appoggiano i salafiti contro i militari, che a loro volta ricevono aiuti dall’Iran e dai loro accoliti libanesi dell’Hezbollah».
Eppure, secondo l’ex capo della diplomazia berlinese, la battaglia per il potere nella regione mediorientale e l’antagonismo ideologico che la caratterizza «possono creare opportunità di cooperazione prima considerate impossibili». Da questo punto di vista, «i colloqui Usa-Iran sul nucleare persiano, alla luce dell’elezione a presidente di Hassan Rouhani, potrebbero assumere un significato più ampio».
Quanto all’Europa, il riallineamento e le più contenute responsabilità che gli Stati Uniti saranno disposti ad assumersi nel nuovo mondo, le pongono una domanda precisa: «Potrà concedersi il lusso di essere incapace di difendersi senza l’aiuto americano?». La garanzia di Washington dentro la Nato non verrà meno, ma non basterà più. E allora, di fronte ai rischi di caos e crescente instabilità alle porte di casa, «forse l’Europa capirà che è il caso di smetterla di continuare ad avanzare sulla strada dell’autosmantellamento».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " D'Alema: attacco inutile e dannoso - «Obama sbaglia, la soluzione è solo politica» "


Massimo D'Alema con Hezbollah

Chissà che non sia possibile trasmettere quest'intervista ad Hezbollah. Siamo certi che la gradirebbe.

«In Siria non servono bombardamenti mirati, ma una forte iniziativa politica internazionale che costringa le parti al cessate-il-fuoco, dispieghi una forza di interposizione sotto l'egida delle Nazioni Unite e promuova una conferenza di pace che metta fine alla guerra in corso. Sono, in sintesi, i passaggi individuati dall'ex premier e ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che all'Unità definisce come «inutile e dannoso» l'eventuale intervento armato nel martoriato Paese mediorientale e si augura che il prossimo G20 contribuisca alla ricerca di una soluzione del conflitto. In Siria la situazione è sempre più tragica. I rifugiati hanno superato 12mllloni, I morti sono oltre ilOmila. La Santa Sede evoca II rischio dl una guerra mondiale. Sul tappeto c'è Il ventilato attacco mirato e ristretto da parte americana. «Credo che un attacco punitivo "mirato" nei confronti del regime di Bashar al-Assad non consenta di procedere verso la soluzione del conflitto. Sarebbe, a mio parere, una iniziativa inutile e dannosa, perché rischierebbe di alimentare tensioni con la Russia e altri Paesi della regione. Al di là della comprensione verso la giusta esigenza del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del Presidente francese Francois Hollande di fare qualcosa di fronte alla tragedia dell'uso delle armi chimiche, questa operazione militare si presenta come non risolutiva e probabilmente molto rischiosa. Mi ha colpito l'accostamento con il Kosovo.... Una vicenda che l'ha vista protagonista, corna premier Italiano. «Un accostamento sballato, che non c'entra nulla. Nei Balcani fu condotta un'azione militare risolutiva, anche perché aveva uno scopo che non era soltanto elio, umanitario, di porre fine alla p ia-etnica, ma di indurre le truppe serbe a ritirarsi dal Kosovo al fine di favorire una soluzione politica attraverso le Nazioni Unite. Tanto è vero che il conflitto si concluse con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu e il dispiegarsi di una forza internazionale, che vide una presenza importante dell'Italia. L'intervento in Kosovo, per quanto doloroso, pose fine alle guerre civili balcaniche. Insisto su questo punto: l'operazione militare aveva una finalità chiara, a sostegno di una iniziativa politica chiara. E l'obiettivo fu raggiunto. In Siria, invece, l'obiettivo politico dell'iniziativa statunitense non è chiaro, non si capisce quale possa essere e quali passi in avanti possa effettivamente far compiere per risolvere la situazione.. Partendo da questa considerazione critica, corna giudica la decisione del presidente Usa di legare l'azione militare In SI-ria al via libera del Congresso? «Penso che nella condizione di isolamento internazionale in cui si trovano a operare gli Stati Uniti, il Presidente Obama voglia contare almeno sul consenso interno. Una posizione di saggezza, di rispetto delle regole democratiche e, sotto questo profilo, apprezzabile. Ma alla base c'è un vizio di origine, una lettura a mio avviso errata da parte dell'intero Occidente delle vicende che negli ultimi due anni hanno sconvolto non solo la Siria, ma una parte importante del mondo arabo". Guai è questa lettura sbagliata? «Gli eventi di questi ultimi due anni inducono a riflettere su una drammatica carenza di analisi e di visione da parte degli Stati Uniti. Per non parlare dell'assenza o, nel migliore dei casi, della debolezza dell'Unione Europea per le divisioni fra i suoi Stati membri. L'Occidente ha interpretato un moto, pur importantissimo, di portata storica, come rivolte di popolo contro i dittatori. Ora, c'è stata certamente questa componente, ma in realtà quello che è emerso è anche la fragilità di questi Paesi, alcuni dei quali sono delle costruzioni post coloniali. E i recenti conflitti hanno preso spesso la forma di scontri etnico-religiosi, in alcuni casi di natura tribale, che non possono essere ricondotti semplicisticamente allo schema "popolo in rivolta contro il dittatore". Non avendo le giuste chiavi culturali interpretative e muovendosi in ordine sparso l'Occidente non ha saputo e non sa come intervenire. Emblematico è il caso della Libia: noi abbiamo aiutato il popolo a liberarsi dal dittatore, ma la guerra civile continua, e i morti si contano ancora in molte migliaia. A queste osservazioni aggiungo che, a mio parere, era evidente come un moto di partecipazione, di pro- tagonismo popolare nel mondo arabo avrebbe portato in primo piano le componenti islamiste». E l'Occidente? «L'Occidente ha avuto il timore dell'islamismo politico e non ha compiuto quella analisi necessaria delle diversità presenti all'interno di questo mondo, che è così complesso. Così si è infilato in una serie di paradossi. È paradossale, ad esempio, che in Siria si so- stengano le componenti più estremiste del fronte anti-Assad, financo Al-Nusra, legato ad al Qaeda, mentre in Egitto si siano avallati il colpo di Stato militare contro i Fratelli musulmani, l'arresto del primo presidente eletto demo- craticamente, lo scioglimento del suo partito, le morti di centinaia, forse migliaia di persone, come se nulla fosse. Il quadro confuso e contraddittorio che emerge, supporta la sensazione di un Occidente che persegue più i suoi interessi geopolitici, che non una presenza coerentemente ispirata ai valori democratici, ai diritti umani e civili. E questo ci ha fatto perdere enormemente di credibilità in un mondo che non era pregiudizialmente ostile. Mi sembra che a prevalere sia la logica della convenienza e non certo quella della coerenza.. Come rientra In questo scenario la vicenda siriana? *** «Essa si iscrive pienamente in questo quadro. E una vicenda complessa, sul piano interno e internazionale. Quella della famiglia Assad è una dittatura feroce, e non da oggi. Ma noi non comprenderemmo le ragioni per cui questa dittatura ancora esiste, e anzi sembra quasi prevalere sul piano militare, se applicassimo lo schema, a cui accennavo prima, di "un popolo che insorge contro il dittatore". Se fosse stato così, infatti, lo avrebbero spazzato via da tempo. Invece, è evidente che in Siria c'è una guerra civile. Ed è altrettanto evidente che nella società siriana ci sono componenti importanti che magari non hanno particolare simpatia per il regime di Assad e tuttavia lo sostengono perché sono piuttosto impaurite di ciò che potrebbe avvenire. La maggio- ranza sunnita, in particolare la componente più radicale che anima la rivolta sul terreno, è vista con timore dagli alawiti, dagli sciiti, dai curdi, dai cristiani. Quest'ultima è tra le componenti che, di fatto, sostengono di più il regime di Assad. Quello in atto in Siria è un processo di frammentazione che mette a rischio perfino l'unità del Paese, in cui l'elemento dello scontro etnico-religioso s'intreccia con la lotta contro il regime. E proprio perché questo groviglio appare inestricabile, sembra difficile pensare a una soluzione che non passi attraverso una Conferenza di pace. Un'iniziativa che riunisca attorno a un tavolo tutte le diverse componenti, con l'obiettivo di arrivare a un punto di sintesi, il quale, a mio avviso, dovrebbe portare alla liquidazione della dittatura attraverso la formazione di un governo di unità nazionale. Ma la premessa di tutto questo è una tregua e poi il dispiegarsi di una forza internazionale di interposizione, sotto l'egida dell'Onu e della Lega araba, che contribuisca alla pacificazione del Paese. Non vedo un'altra via. In quello che sta accadendo credo ci siano diverse responsabilità: quella della Russia, che appoggia Assad dal punto di vista politico e militare, alimentando in lui la convinzione di poter vincere la guerra, e quella del fronte occidentale, a partire dagli Stati Uniti, e di quei paesi arabi, come Arabia Saudita e Qatar, che non hanno immaginato altra soluzione se non la vittoria militare dei sunniti». Con quale risultato? «Devastante. I fronti internazionali contrapposti anziché spingere le parti a ricercare un compromesso e una soluzione di pace, hanno alimentato la guerra, rafforzando la convinzione degli uni e degli altri di poter vincere sul campo. Ma se ciò avvenisse, il rischio sarebbe una disgregazione della Siria, che si ripercuoterebbe sull'intero Medio Oriente. Altro che bombardamenti mirati, qui ci sarebbe bisogno della politica. E il prossimo G20, come giustamente ha detto il Presidente del Consiglio Letta, potrebbe essere l'occasione per recuperare un intento comune nell'elaborazione un piano che ponga fine al conflitto. Bisognerebbe avviare una manovra a tenaglia su tutte le parti in causa. Una manovra che non potrebbe non coinvolgere la Russia e, per certi aspetti, anche l'Iran. Una manovra che imponga alle parti un cessate-il-fuoco e l'avvio di un processo politico che possa portare la Siria fuori da questa tragica situazione».

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