Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria: la credibilità di Obama a livelli minimi commento di Carlo Panella, cronaca di Massimo Gaggi, intervista a Norman Podhoretz di Serena Danna
Testata:Libero - Corriere della Sera Autore: Carlo Panella - Massimo Gaggi - Serena Danna Titolo: «Obama e il Congresso, la battaglia è iniziata - Barack? Non è il nuovo Bush ma un neo-isolazionista»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 03/09/2013, a pag. 12, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Barack arriva al G20 con l’economia a mille ma la credibilità a zero ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 4, l'articolo di Massimo Gaggi dal titolo "Obama e il Congresso, la battaglia è iniziata " , l'intervista di Serena Danna a Norman Podhoretz dal titolo " Barack? Non è il nuovo Bush ma un neo-isolazionista ". Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : " Barack arriva al G20 con l’economia a mille ma la credibilità a zero "
Carlo Panella
«Il voltafaccia di Obama dimostra un grande disprezzo per la Francia»: il paludato e progressista Le Mondetestimonia con questo titolo, che apre tutta la prima pagina, la caduta verticale di prestigio del presidente americano sulla scena internazionale. Una pacchia per Vladimir Putin, che si accinge a ospitare a Moscail 5 e il 6 settembre un vertice del G20 che si presentava irto di difficoltà per un presidente russo che invece ha ora tutte le chances per trasformarlo in un trionfo personale e in un calvario per lo stesso Obama, il quale ha ampiamente dimostrato di poter aspirare al titolo di presidente americano più inattendibile della storia recente. In effetti, fino a pochi giorni fa il rapporto tra Usa e Russia era da considerarsi disastroso, ma per Mosca. L’economia americana è in piena ripresa, con un Pil che nel secondo trimestre 2013 è cresciuto del 2,5% contro l’1% previsto, e con un netto miglioramento dei dati sulla disoccupazione. Opposta la situazione della Russia, in cui la Borsa è da mesi ai minimi storici, il Pil cresce di uno stentato 1% dimezzando le previsioni, e soprattutto non sono mutate le deficienze strutturali. Metà del bilancio russo dipende ancora da gas e petrolio, le infrastrutture sono da terzo mondo con un riflesso disastroso e indicativo sulla popolazione, che è scesa dai 149 milioni del 1991 ai 125 milioni attuali. Il tutto accompagnato dalla paura che l’Occidente, e gli Usa in particolare, lavori a un secondo fallimento del Paese, dopo quello indotto da Reagan negli anni Ottanta, che porto al tracollo dell’Urss. E dunque, al G20 Obama pareva aver inmano tutte le carte per tenere banco. Ma le ha giocate malamente. D’altro canto, Putin ha sempre avuto chiaro che la via per rimediare alla crisi economica del suo Paese passa in prima istanza per un assunzione di leadership a livello mondiale: «O la Russia fa parte del gruppo dei Paesi leader del mondo, oppure scomparirà». Questa è appunto la partita che intende giocare, con buone probabilità di successo, al G20. Marcando la capacita di comando del suo Paese sulla scena internazionale, assumendo la guida dei Brics -Brasile,Cina, India,SudAfrica e,appunto Russia - di cui intende aumentare potere e peso dentro il Fondo Monetario e in tutte le istanze economiche internazionali. Obiettivo ora facilitato da un Obama che si presenta a Mosca umiliato dai lazzi che gli rivolge Beshar al Assad, e con i suoi tradizionali alleati, Francia e Inghilterra, inferociti nei suoi confronti per essere stati trascinati nella farsa di un attacco alla Siria gestito con stile da operetta. E perdipiù in totale imbarazzo per le polemiche sulle intercettazioni telefoniche del suo Nsa (Snowden, che le ha rivelate è non a caso «caro ospite» di Putin a Mosca). Per la prima volta nella storia, in un appuntamento internazionale i tre Paesi occidentali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu si presenteranno dilaniati tra loro (con Hollande che si sente «intrappolato» da Obama e Cameron sconfessato dal suo stesso Parlamento), mentre Mosca guida un fronte compatto - Cina, Iran, la stessa Siria e i “non allineati” - che si fa beffe con successo di un inquilino della Casa Bianca tentennate. Indeciso a tutto.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " Obama e il Congresso, la battaglia è iniziata "
Barack Obama
«Sarà difficile che questo Parlamento autorizzi l’uso della forza in Siria», dice il deputato repubblicano Tom Cole. Ed è un segnale importante perché Cole è un moderato che spesso fa da «pontiere» nel rapporto coi democratici. Ma soprattutto perché il parlamentare dell’Oklahoma esprime questo giudizio uscendo da un incontro riservato con altri 83 parlamentari nel corso del quale cinque membri del team per la sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama hanno illustrato le prove «top secret» che dovrebbero supportare la richiesta della Casa Bianca di un voto a sostegno dell’intervento armato. Manca ancora una settimana al vero e proprio dibattito del Congresso che dovrà votare sull’intervento militare americano in Siria per punire l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, ma a Capitol Hill già infuria la battaglia nonostante il Parlamento sia formalmente chiuso fino a lunedì prossimo. Nelle aule di Camera e Senato da domenica e anche ieri — festa nazionale negli Stati Uniti — è stato tutto un succedersi di riunioni tra deputati e senatori e di seminari, segreti e non, organizzati dal governo per spiegare le sue ragioni. E per sottolineare il rischio che un mancato intervento renda più baldanzoso non solo Assad ma anche l’Iran, impegnato in un ambizioso programma nucleare. Come prevedibile, la decisione di Obama di tirare in ballo il Congresso ha creato un’atmosfera di grande incertezza. La Casa Bianca ha già lanciato un’offensiva di comunicazione senza precedenti: gli stessi funzionari della presidenza la definiscono un’inondazione di informazioni che piovono sui parlamentari che stanno rientrando alla spicciolata a Washington, pur senza essere stati formalmente convocati. Per adesso l’esito della scommessa politica di Obama che vuole responsabilizzare Congresso e opinione pubblica resta incerto. Il presidente conta sull’appoggio di diversi repubblicani che restano fedeli all’idea di un’America «nazione indispensabile» e faro di civiltà che ha responsabilità universali per il mantenimento di un minimo di ordine nel mondo. Ieri ha incontrato John McCain, uno di questi repubblicani. Il cambio di rotta sul voto viene poi presentato alla casa Bianca anche come un’apertura allo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che aveva chiesto spiegazioni. Boehner non ha ancora deciso come schierarsi, ma in campo repubblicano alla Camera Obama può contare su altri uomini di peso come il capo della Commissione Intelligence Mike Rogers. Ma tanto parlamentari conservatori favorevoli all’attacco come Peter King, quanto un senatore radicalmente contrario come Rand Paul, convergono nel giudicare altamente incerto l’esito del voto. Se la spunterà, il presidente si rafforzerà e potrà intervenire in Siria con le spalle coperte, almeno sul fronte interno. Ma, secondo i critici, Obama sta giocando una rischiosissima partita a dadi di politica interna mettendo in pericolo, in caso di sconfitta al Congresso, la credibilità internazionale del Paese. Un pezzetto di questa credibilità se lo giocherà già oggi quando il Segretario di Stato John Kerry e il ministro della Difesa, Chuck Hagel, riferiranno sul caso Siria alla Commissione Esteri del Senato, a poche ore dalla partenza di Obama per una missione in Svezia e al G20 di San Pietroburgo. Il pericolo, per lui, non è solo quello di una bocciatura secca del Congresso, un esito forse improbabile: quello che già si intravede all’orizzonte è il rischio che anche un intervento militare in un Paese che ha commesso crimini contro l’umanità divenga oggetto di «tira e molla» politici che possono sfiancare il presidente e minarne i poteri. I segnali ci sono già: la bozza di risoluzione da votare trasmessa sabato notte dalla Casa Bianca al Parlamento è stata presa dai repubblicani come una semplice base di negoziato, mentre al Senato è un democratico progressista — Pat Leahy del Vermont — a guidare la riscrittura del documento. La versione iniziale, breve e generica, lasciava ampi poteri al presidente. Ora, invece, si introducono paletti. In alcuni casi si vuole mettere per iscritto quello che Obama aveva già detto verbalmente: niente impegno di truppe di terra in Siria. Comunque un vincolo in più per la Casa Bianca e un precedente rischioso per i «commander-in-chief» del futuro. Ma c’è anche chi vuole irrigidire ancora di più l’autorizzazione, introducendo vincoli temporali per l’intervento armato e modificando la parte che ora lascia Obama libero di attaccare non solo Assad ma anche ribelli il cui uso di armi chimiche dovesse essere nel frattempo provato.
CORRIERE della SERA - Serena Danna : " Barack? Non è il nuovo Bush ma un neo-isolazionista "
Norman Podhoretz
NEW YORK — In vista del voto del Congresso sull’intervento in Siria, il risiko delle alleanze è diventato — nelle ultime ore — il passatempo preferito degli analisti americani. Chi non perde tempo in giochi di prestigio, è Norman Podhoretz, 83 anni, politologo tra i più ferventi sostenitori della «dottrina Bush» che, con la sua rivista Commentary , ha dettato la linea neocon a Washington. Molti conservatori credono che il conflitto siriano abbia messo in luce le contraddizioni di Obama in politica estera: al di là dei proclami, il presidente sarebbe in continuità con George W. Bush. Lei ha scritto che, al contrario, Obama resta l’anti-americanista di sinistra di sempre. Cosa intende? «Solo in superficie la politica estera di Obama può sembrare la continuazione di quella di Bush. Obama è espressione di quella cultura della sinistra radicale degli anni Sessanta che crede nel pacifismo e, soprattutto, nell’isolazionismo americano. L’atteggiamento contraddittorio dipende dal fatto che la realtà lo obbliga a intervenire: è successo con la promessa della chiusura di Guantanamo, con la guerra in Iraq e in Afghanistan. Tuttavia se potesse, starebbe a guardare, come in parte è successo con la Libia». Cosa intende per isolazionismo? «Nella storia americana l’isolazionismo si è manifestato in due modi. C’era chi, come George Washington, credeva che gli Stati Uniti dovessero stare in disparte perché superiori a tutti; e chi — come Jimmy Carter — pensava che le colpe e le responsabilità americane dei conflitti in corso nel mondo pesassero più dei meriti, e dunque lavorò per un ridimensionamento dell’egemonia degli Usa». Obama si colloca tra i secondi? «Il presidente crede che se interveniamo fuori dai confini domestici, possiamo creare solo problemi. Il suo obiettivo è limitare il potere e l’influenza americana sul mondo». Crede ancora che sia possibile esportare la democrazia? «Mi piace l’idea ma la realtà ha dimostrato che non è così. Quando ci abbiamo provato negli ultimi anni è stato un disastro. Le transizioni democratiche, soprattutto nei Paesi arabi, hanno bisogno di tempo e consapevolezza. È sbagliato pensare che si possa alterare il dna di un popolo». Molti neo-con continuano a pensarlo però. «Sulla Siria il movimento è spaccato. È vero che molti pensano che andare contro Assad sia doveroso. Ma il principio secondo cui “i nemici dei miei nemici sono miei amici” non è più valido per tutti. Gli “islamo-fascisti” devono essere temuti quanto Assad se non di più, altrimenti la Siria rischia di fare la fine dell’Egitto con i Fratelli Musulmani». Anche i democratici appaiono confusi sulle mosse da fare in Siria. La linea non-interventista per il momento sembra avere avuto la meglio. «Il tentativo di limitare contemporaneamente il potere presidenziale e i danni di un eventuale conflitto ha spinto i democratici a fare pressione su Obama per coinvolgere il Congresso. È vero anche che il fronte interventista non ha fatto lobbying: Samantha Power, ambasciatrice americana alla Nazioni Unite, si è espressa sulla vicenda attraverso un tweet, scelta discutibile e poco “politica”».
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