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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - La Repubblica Rassegna Stampa
03.09.2013 Siria: favorevoli e contrari all'intervento. Le minacce di Assad all'Occidente
Commenti di Jean-Marie Colombani, Elizabeh O'Bagy, Paul Auster. Intervista a Bashar al Assad di Georges Malbrunot

Testata:La Stampa - Il Foglio - La Repubblica
Autore: Georges Malbrunot - Jean-Marie Colombani - Edoardo Greppi - Elizabeth O'Bagy - Antonio Monda - Ian Buruma
Titolo: «Ma l'attacco non è legale - Non siamo gli sceriffi del mondo, l'America è stanca della guerra»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/09/2013, a pag. 1-31, l'articolo di Jean-Marie Colombani dal titolo " Non fare nulla è la scelta peggiore ", a pag. 9, l'intervista di Georges Malbrunot a Bashar al Assad dal titolo " Se ci attaccano esplode tutto il Medio Oriente  ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Elizabeth O'Bagy dal titolo " Sul fronte della guerra siriana ". Da REPUBBLICA, a pag. 12, l'intervista di Antonio Monda a Paul Auster dal titolo " Non siamo gli sceriffi del mondo, l'America è stanca della guerra ", preceduto dal nostro commento.

Ecco i pezzi:

La STAMPA - Georges Malbrunot : " Se ci attaccano esplode tutto il Medio Oriente "


Bashar al Assad

Presidente Assad, può dimostrare che il suo esercito non ha fatto ricorso alle armi chimiche il 21 agosto nella periferia di Damasco?
«Chiunque lanci accuse deve darne le prove. Noi abbiamo sfidato gli Stati Uniti e la Francia dimostrare una sola prova. I signoriObama eHollande non ne sono stati capaci, anche davanti ai loro popoli. Poi, parliamo della logica di questa accusa. Che interesse avremmo ad attaccare con armi chimiche, quando la nostra situazione sul terreno è molto migliore che l’anno scorso? Perché, in qualsiasi Paese, un esercito utilizzerebbe delle armi di distruzione dimassa, se fa progressi con quelle convenzionali? Non dico affatto se l’esercito siriano possieda o no queste armi. Supponiamo che il nostro esercito voglia utilizzare armi di distruzione di massa: è possibile che lo faccia in una zona dove è schierato lui stesso edovedei soldati sono stati feriti da queste armi, come hanno constatato gli ispettori delle Nazioni unite visitandoli in ospedale? Dov’è la logica? Di più, è possibile utilizzare queste armi nella periferia di Damasco senza uccidere decine dimigliaia di persone, dato che queste sostanze sono trasportate dal vento? Tutte le accuse si basano su dichiarazioni di terroristi e su immagini arbitrarie diffuse su Internet».
Gli Usa affermano di aver intercettato una conversazione telefonica di un alto responsabile siriano che riconosce l’uso diarmi chimiche.
«Se gli americani, i francesi o i britannici disponessero di una sola prova, l’avrebbero mostrata fin dal primo giorno».
È possibile che certi responsabili del suo esercito abbiano preso questa decisione senzail suoavallo?
«Non abbiamo mai detto di possedere armi chimiche. La sua domanda insinua delle cose che io non ho detto e che noi non abbiamo né confermato né negato. Ma normalmente, nei Paesi che possiedono queste armi, la decisione è presa dal centro».
Barack Obama ha rimandato gli attacchi contro la Siria. Come interpreta questa decisione?
«Qualcuno ha visto in lui il capo forte di una grande potenza, perché haminacciato di scatenare la guerra contro la Siria. Noi pensiamo che l’uomo forte sia chi impedisce una guerra e non quello che la scatena. Se Obama fosse forte, avrebbe detto: “Non disponiamo di prove sull’uso di armi chimiche da parte dello Stato siriano”. Avrebbe detto pubblicamente: “La sola via è quella dell’inchiesta Onu. Di conseguenza, torniamo al Consiglio di sicurezza”. Ma Obama è debole, perché ha subito delle pressioni all’interno degli Stati Uniti». Cosa direbbe ai membri del Congresso americano che devono votare sì o no a questo attacco?
«Chiunque prenda questa decisione deve prima chiedersi che cosa le ultime guerre hanno portato agli Usa o anche all’Europa. Cosa ha guadagnato il mondo in Libia? Cosa dalla guerra in Iraq? Cosa guadagnerebbe dal rafforzamento del terrorismo in Siria? Il compito di ogni parlamentare consiste nel fare l’interesse del suo Paese. Quale sarebbe l’interesse degli Usa nella crescita dell’instabilità e dell’estremismo in Medioriente? Quale l’interesse a proseguire quello che George Bush ha iniziato, cioè diffondere le guerre per il mondo?».
Quale sarà la vostra risposta?
«Il Medioriente è un barile di polvere e il fuoco oggi ci si avvicina. Non bisogna solo parlare della risposta siriana, ma anche di ciò che potrebbe succedere dopo il primo colpo. Ora, nessuno può sapere cosa succederà. Tutto il mondo perderà il controllo della situazione quando il barile di polvere esploderà. Il caos e l’estremismo si diffonderanno. Un rischio di guerra regionale esiste».
Israele sarà colpito da una risposta siriana?
«Non spererà davvero che io riveli quale sarà la nostra risposta».
Che direbbe alla Giordania dove i ribelli si addestrano?
«La Giordania ha già annunciato che non servirà da base ad alcuna operazione contro la Siria. Ma se non riusciremo a sradicare il terrorismo da noi, si sposterà naturalmente in altri Paesi».
Quindi, mette in guardia Giordania e Turchia?
«L’abbiamo detto più volte e abbiamo inviato dei messaggi diretti e indiretti. La Giordania ne è cosciente, malgrado le pressioni che subisce per far passare i terroristi. Quanto a Erdogan, non penso che sia assolutamente cosciente di quel che fa».
Quale sarà la reazione dei suoi alleati, Hezbollah e Iran?
«Non posso parlare per loro. Tuttavia, le loro dichiarazioni sono chiare, e nessuno può dissociare gli interessi della Siria da quelli di Iran e Hezbollah. Oggi la stabilità della regione dipende dalla situazione in Siria».

La STAMPA - Jean-Marie Colombani : " Non fare nulla è la scelta peggiore"

Se il Congresso Usa darà l’ok, ci saranno, da parte di Washington, affiancata da Parigi, Riad e Ankara, rappresaglie sotto forma di raid aerei contro la Siria di Assad, «colpevole» di aver utilizzato armi chimiche contro i civili.

Le questioni sollevate sono diverse: legalità e legittimità degli eventuali raid, tenuto conto del «no» da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; ruolo e influenza del cosiddetto Occidente; incidenza del rifiuto britannico e dello scetticismo dell’opinione pubblica, al cui interno la paura è superiore all’indignazione; il gioco mortifero della Russia di Putin; guerre intestine che dilaniano il mondo arabo. E l’elenco non è finito.

Ma, ad allungarlo, si corre il rischio di perdere di vista l’essenziale: l’uso delle armi chimiche contro popolazioni innocenti. Le armi il cui uso era stato proibito all’indomani della Prima Guerra Mondiale in nome di una legge internazionale ancora balbettante. Gasare civili è un crimine di natura particolare, che deve restare fuori legge. Non fare nulla equivarrebbe ad accettarne la banalizzazione.

Quello che colpisce di più è però lo scetticismo, o meglio, l’ostilità di una larga parte dell’opinione pubblica europea, che si oppone a qualunque azioni militare. Ma si sbaglia. Essa crede, come in Gran Bretagna dove questo riflesso è particolarmente forte, di assistere a un remake dell’Iraq, dove il prezzo da pagare, grazie alle follie di George W. Bush, è altissimo e rischia di esserlo ancora a lungo. Fondata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, la spedizione in Iraq, un disastro strategico, è la fonte principale di questa diffidenza generalizzata.

Ora, Iraq non è il paragone giusto. Più pertinente sarebbe l’analogia con il Kosovo, vale a dire quella campagna aerea sotto l’egida della Nato e non dell’Onu, che aveva costretto i serbi a ritirarsi. Non è indifferente il fatto che Milosevic sia stato messo alla sbarra dalla comunità internazionale: questo ha aiutato la soluzione politica del conflitto.

All’epoca Bill Clinton aveva invocato, con l’appoggio di due mesi e mezzo di raid, la necessità di evitare centomila morti in Kosovo. In Siria i centomila morti ci sono già. Quelli che avrebbero voluto impedire il massacro sono dunque in ritardo di due anni La decisione di Barack Obama di non agire se non dopo un voto formale del Congresso rispecchia lo scetticismo imperante. Il Presidente americano cerca di premunirsi contro quanto aveva subito all’epoca dell’intervento in Libia: gli Stati Uniti avevano fortemente appoggiato l’iniziativa franco-britannica prima di fare marcia indietro sotto la pressione del Congresso. Barack Obama cerca anche di compensare la tiepidezza di molti Paesi, tra cui la Gran Bretagna, con una riaffermazione di legittimità interiore. Resta da sapere quali condizioni porrà il Congresso alla richiesta di intervento da parte del Presidente americano.

Precisamente, il precedente del Kosovo, invocato da Obama, sottolinea i limiti di ciò che si immagina, vale a dire raid aerei limitati e di breve durata, perciò destinati ad avere un effetto simbolico. Affinché una tale operazione sia utile, bisognerebbe che avesse un obiettivo politico. E soprattutto che sia previsto «il dopo».

Recentemente, Francia e Gran Bretagna, sostenute dagli Stati Uniti, sono intervenute in Libia. L’operazione militare è riuscita e aveva raggiunto il suo scopo con la caduta di Gheddafi. Ma non essendo stato né pensato, né organizzato, né accompagnato il «dopo», la Francia ha dovuto riprendere le armi in Mali, dove si erano spostati e dispiegati uomini e armamenti jihadisti venuti dalla Libia.

La Siria è sicuramente un teatro di operazioni più complesse. Gran parte delle reticenze delle opinioni pubbliche viene d’altra parte dal fatto che le opposizioni siriane, un po’ lo erano state le opposizioni cecene, sono state infiltrate da jihadisti vicini ad Al Qaeda. Tutto ciò è documentato.

Per questo è così difficile aiutare il Consiglio nazionale siriano. Ma si dimentica un po’ troppo presto che Bashar al Assad è così forte perché è aiutato dai pasdaran iraniani e dalla milizia di Hezbollah, che, in materia di estremismo, non ha niente da invidiare ai jihadisti che li combattono.

Infine, l’enunciato di questa complessità basta a spiegare una parte non trascurabile dell’ostilità diffusa a ogni intervento. In soldoni, la reazione è questa: perché non lasciare che si ammazzino fra di loro senza immischiarci? E’ quello che Jean-Pierre Chevènement esprime quando spiega che non bisogna entrare in questa «guerra di religione». Un altro motivo di ostilità, articolato questa volta da François Bayrou è legato alla sensibilità cristiana che, sul terreno, ha preso le parti di Bashar al Assad.

Il contesto internazionale rende pure opaco lo scenario del dopo riposta. Contro gli Stati Uniti, in effetti, si è costituito un’asse Russia-Iran-Siria che sembra oggi vittorioso. Di fronte a questo asse, Barack Obama è parso pusillanime, senz’altra opzione che la protesta verbale, al punto di avere tracciato una linea rossa, l’uso della armi chimiche, che è stata superata senza punizione.

Due anni fa, all’inizio di quella che era allora una protesta democratica e a maggioranza laica, Obama si era rifiutato di impegnarsi, mentre allora la soluzione di una no fly zone, suggerita da quelli che volevano evitare un bagno di sangue, era preferibile alle tentennamenti del governo americano. Era vero che lo stesso Obama ha ricordato che era stato eletto per mettere fine alle guerre, in Iraq e Afghanistan, e che gli era dunque particolarmente difficile immaginare nuove azioni militari.

Il prezzo da pagare è quello di una perdita di credibilità che non può che incoraggiare l’Iran nel suo programma nucleare. Non è la minore delle poste in gioco in questa guerra civile siriana che l’uso dei gas da parte di Assad è riuscito a internazionalizzare. In ogni caso, al punto dove siamo, come ha detto Hubert Védrine, «la peggiore soluzione sarebbe non fare nulla».

Francia e Gran Bretagna, Paesi che non sono stati al traino degli Stati Uniti ma in prima linea nell’allarme come nell’iniziativa diplomatica (è stata la Francia la prima a riconoscere il Consiglio nazionale siriano), sono finite in un curioso incrocio dove non riescono a incontrarsi.

L’editoriale del «Financial Times» esprime senza giri di parole che mentre la Francia è pronta a impegnarsi con l’uso della forza contro un dittatore assassino, e la Gran Bretagna non lo è, è difficile non temere per il futuro della Gran Bretagna come «attore globale». Il tono, in Gran Bretagna, è d’altronde di spiegare che la decisione dei deputati britannici di negare al loro governo il via libera a un’azione militare «riduce la taglia della nazione».

E siamo al cuore della reazione agli eventi di François Hollande che è, a giusto titolo, ossessionato dal timore del declino. Non va dimenticato che il presidente lega costantemente la politica del desindebitamento all’obbligo, per la Francia, di ritrovare la sua «sovranità». E’ il motivo per cui, dal Mali alla Siria, non esita a spingersi avanti, persuaso, come François Mitterrand, che rientra nel mandato che ha ricevuto di fare in modo che la «Francia possa mantenere il suo rango».

Il FOGLIO - Elizabeth O'Bagy : " Sul fronte della guerra siriana "


No al terrorismo, vogliamo la libertà

Con gli Stati Uniti pronti ad attaccare la Siria, non si fa che parlare di come sarà quest’attacco e di quali obiettivi l’America sarà in grado di raggiungere, sempre che lo sia. Non si può trovare una risposta a queste domande senza aver guardato con attenzione alla situazione sul territorio siriano. Poiché pochi giornalisti stanno lavorando dentro il paese, la comprensione della guerra civile non è soltanto inadeguata, ma pericolosamente imprecisa. Leggendo i giornali o guardando i notiziari in tv si è portati a credere che un’opposizione un tempo pacifica e democratica sia stata trasformata negli ultimi due anni in una banda di violenti estremisti dominati da al Qaida, che le forze del presidente Bashar el Assad non solo abbiano la meglio in battaglia, ma siano anche l’unica cosa che tiene insieme il paese, e che gli interessi americani non risiedano in Siria – né con il regime né con i ribelli. Secondo molti politici americani la strategia migliore è quella di evitare coinvolgimenti. Come ha detto Sarah Palin: “Lasciamo che se la sbrighi Allah”. Nell’ultimo anno, sono stata molte volte in Siria, ho viaggiato nelle province del nord, Latakia, Idlib, Aleppo. Ho passato centinaia di ore con i gruppi dell’opposizione siriana, dall’Esercito libero di Siria alla Brigata Ahrar al Sham. Tutti pensano che gli elementi più estremisti siano del tutto mescolati con i ribelli più moderati: non è così. Moderati ed estremisti cercano di affermarsi in territori distinti. Pure se queste aree sono spesso contigue, i checkpoint demarcano le diverse zone e chi le controlla. Nel mio ultimo viaggio, all’inizio di agosto, abbiamo attraversato liberamente le zone di Aleppo controllate dall’Esercito libero di Siria, seguendo strade che ci tenessero a distanza di sicurezza dai checkpoint contrassegnati dalla bandiera dello Stato islamico dell’Iraq. Le priorità dei fondamentalisti Al contrario di quanto raccontano i media, la guerra in Siria non è stata dichiarata prevalentemente da islamisti pericolosi e irriducibili di al Qaida. Gli jihadisti che fluiscono in Siria da paesi come l’Iraq o il Libano non s’accalcano certo sulle prime linee. Si adoperano piuttosto per consolidare il controllo nelle aree del nord occupate dai ribelli. Gruppi come Jabath al Nusra, affiliato ad al Qaida, sono sempre molto felici di prendersi i meriti dei successi sul campo, e sono rapidi nel raccontare le vittorie dell’opposizione sui social media. Per questo abbiamo avuto l’impressione che stiano guidando la lotta contro il governo siriano: ma non lo stanno facendo. Questi gruppi sono più interessati a creare e guidare il loro emirato islamico nel nord della Siria che a battere Assad. Molti miliziani di Jabath al Nusra se ne sono andati nel bel mezzo delle operazioni dei ribelli a Homs, Hama e Idlib per dirigersi a Raqqa, quando è caduta nel marzo del 2013. Durante la famosa battaglia di Qusayr, a fine maggio, le unità di Jabath al Nusra erano platealmente assenti. A inizio giugno, i rinforzi dei ribelli si sono radunati per combattere nel nord di Homs, nella cittadina di Talbiseh, mentre i combattenti di Jabath al Nusra hanno preferito stare nelle aree liberate per riempire il vuoto lasciato dai soldati dell’Esercito libero siriano. Le forze moderate dell’opposizione – un insieme di gruppi conosciuti come l’Esrercito libero siriano – continuano a guidare la lotta contro il regime di Damasco. Viaggiando assieme ad alcuni battaglioni di questo esercito, li ho visti difendere villaggi alawiti e cristiani dalle forze del governo e dai gruppi estremisti. Hanno dimostrato la volontà di sottostare alle autorità civili, lavorando a stretto contatto con le amministrazioni – i concili – locali. E si sono sforzati di garantire che la battaglia contro Assad apra la strada a una florida società civile. Un concilio locale che ho visitato, in una parte di Aleppo controllata dall’Esercito libero, organizzava forum settimanali nei quali i cittadini potevano parlare liberamente, e vedere le proprie preoccupazioni prese in considerazione dalle autorità locali. I gruppi moderati rappresentano la maggioranza delle forze di combattimento, e sono appena stati galvanizzati dall’arrivo di armi e soldi da parte dell’Arabia Saudita e di altri alleati, come Francia e Giordania. Questo è particolarmente vero nel sud, dove le armi fornite dai sauditi hanno fatto una differenza significatica sul campo, e hanno contribuito a dare forza ad alcune avanzate strategiche dei ribelli nell’area di Damasco. Grazie alla separazione geografica dalle roccaforti degli estremisti e alle reti di sostegno nel sud, anche le armi obsolete mandate dai sauditi – come lanciarazzi croati e fucili – hanno permesso ai ribelli moderati di mettere a punto incursioni in aree che prima erano state difese facilmente dal regime, e di sostenere la pressione delle forze di Assad nella capitale. Negli ultimi mesi, l’opposizione ha ottenuto grandi vittorie ad Aleppo, Idlib, Deraa e Damasco – ha quasi raggiunto il cuore della capitale – nonostante il consolidamento delle forze del regime nella provincia di Homs. Servono armi sofisticate A questo punto del conflitto, fatta salva una campagna da parte degli Stati Uniti, armi sofisticate, come sistemi anticarro e antiaerei, rappresentano la migliore chance per l’opposizione di mantenere l’offensiva contro Assad. Queste armi possono essere offerte soltanto da stati stranieri, non dagli jihadisti. Fonti saudite che stanno fornendo ai ribelli un sostegno fondamentale mi hanno detto che non hanno ancora inviato armi efficaci perché gli Stati Uniti hanno esplicitamente chiesto di non farlo. Non si può negare che gruppi come Jabath al Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e al Sham si siano affermati nel nord della Siria e abbiano iniziato a dominare le autorità locali, imponendo anche la legge della sharia. Questi sviluppi sono il risultato del fatto che gli affiliati di al Qaida hanno risorse migliori più che un indicatore del sostegno locale. Soltanto quando sono stati distribuiti aiuti umanitari, s’è ottenuto il sostegno della popolazione locale. Ma i siriani si sono ribellati alle misure più dure imposte da alcuni di questi gruppi estremisti. Quando all’inizio di agosto sono stata nel nord della Siria, ho visto con i miei occhi proteste quasi quotidiane di migliaia di cittadini contro lo Stato islamico dell’Iraq e al Sham nell’area di Aleppo. Un’azione dimostrativa è pericolosa Che cosa significa questo per gli Stati Uniti ora che la Casa Bianca sta prendendo in considerazione un possibile strike? L’Amministrazione Obama ha sottolineato che il regime change non è un obiettivo. Ma misure punitive fatte soltanto per inviare un messaggio potrebbero fare più male che bene. Se il governo siriano non è colpito in modo significativo, uno strike americano potrebbe davvero rafforzare Assad e illuminare la debolezza degli Stati Uniti, aprendo la strada ad altre atrocità. Invece ogni azione americana dovrebbe essere parte di una strategia più ampia e complessiva in coordinamento con gli alleati che abbia come obiettivo ultimo la distruzione delle capacità militari di Assad rafforzando al contempo l’opposizione moderata con un sostegno robusto, che comprenda armi anticarro e antiaeree. Allo stesso tempo sono indispensabili sforzi diplomatici e politici per creare una coalizione internazionale che metta sotto pressione Assad e i suoi sostenitori, e che incoraggi un dialogo intrasiriano. Con una strategia di questo tipo, si potrebbero alleviare le preoccupazioni di alleati-chiave, come il Regno Unito, e garantire un sostegno internazionale più grande per l’azione americana. Gli Stati Uniti devono prendere una decisione. Possono affrontare il problema ora, quando ancora ci sono forze moderate con interessi in comune con gli Stati Uniti, o aspettare che il conflitto travolga tutta la regione. L’Iran e i suoi alleati saranno così più forti, e lo stesso accadrà per al Qaida. Nessuna di queste ipotesi è utile agli interessi strategici dell’America.

La REPUBBLICA - Antonio Monda : " Non siamo gli sceriffi del mondo, l'America è stanca della guerra "


Paul Auster

Schierati come Paul Auster sono Edoardo Greppi (La Stampa) e Ian Buruma (La Repubblica). Il primo perché ritiene che l'intervento non sia legale secondo il diritto internazionale, il secondo perché non vede nulla di umanitario nell'intervento in Siria.
E' umanitario, dunque, permettere a un dittatore di sterminare la popolazione con carri armati e armi chimiche? Bashar al Assad può fare ciò che gli pare senza che nessuno intervenga? E' questa l'immagine di debolezza che vuole offrire l'Occidente ?
Ecco l'intervista:

NEW YORK — Paul Auster vive con angoscia l’intenzione di Obama di attaccare la Siria, e segue giornalmente l’evoluzione di una situazione ancora molto incerta, nella quale sembra che ogni soluzione possa portare elementi negativi e anche tragici. «Non avrei mai pensato di vivere nuovamente, una situazione del genere» racconta con tono amaro e disilluso. «Sembra che l’America, e con essa il mondo intero, sia condannato alla violenza». Come si sente un liberal di fronte ad un presidente democratico che scatena la guerra? «Mi sento male, e vivo questo momento con grande disagio. Capisco l’angoscia del presidente ». Ritiene che Obama sia titubante o ragionevole? «Mi sembra tormentato. Io personalmente sono fermamente contrario, ma voglio dire che quella di Obama non è una vera dichiarazione di guerra. Non capisco dove possa portare un conflitto di questo tipo, se non a nuove tragedie. Non mi sfuggono gli elementi coinvolti in questa situazione: le stragi di civili, la repressione, la dittatura, gli interessi e le pressioni opposte di Iran e Israele». Obama è anche premio Nobel per la pace... «Questo è il mondo in cui viviamo: anche chi è animato da buone intenzioni, una volta che assume ruoli di questa responsabilità, deve prendere decisioni tragiche e violente. La situazione generale è assolutamente precaria, e ogni giorno più rischiosa: non mi sento di attaccarlo». Non si tratta della prima scelta in questa direzione: ha bombardato la Libia senza voto del Congresso, per prevenire un massacro di civili. E poi, con i droni, il Pakistan, la Somalia e lo Yemen. «Questa ovviamente è una tragedia, e spero che proprio queste esperienze possano convincerlo a rinunciare ad attaccare, anche se ci sono molti elementi che invocano risposta e fanno capire che in Siria la situazione è tragica ». Kerry ha paragonato Assad a Hitler, ma, paradossalmente, per tutte le logiche implicazioni fa maggiore impressione il paragone con Saddam. «È un altro elemento che mi ha riempito di angoscia, e non mi sfuggono le implicazioni logiche. Credo tuttavia che al di là della retorica politica, utilizzata per convincere il Congresso e l’opinione pubblica, il motivo di quel paragone sia dovuto all’uso dei gas, utilizzati in passato da Saddam. E per quanto riguarda Hitler, i gas evocano i campi di sterminio. Detto ciò, c’è da riflettere sul fatto che uccidere con bombe o fucili non è moralmente meno grave che utilizzare i gas». L’America sembra sola: Bush aveva con sé la “coalizione dei volenterosi”, Obama ha solo la Francia, l’Australia e la Turchia. «L’America è stanca della guerra, e il mondo rischia di stancarsi dell’America. Aggiungo che, considerato quello che è successo nel Parlamento inglese, anche la Gran Bretagna appare stanca e disillusa». Secondo lei cosa succederà al Congresso? «Io penso che sarà un voto estremamente incerto, e comunque vada a finire, per Obama sarà un momento difficile, forse anche tragico». La risoluzione per l’intervento in Iraq fu approvata dal 61% dei Democratici della Camera e dal 58% al Senato. Tra i sì ci furono Clinton e Kerry. «Il mondo politico, nei momenti tragici, tende a stringersi attorno al comandante in capo: anche i presidenti più discussi o odiati, ricevono applausi ad esempio nel giorno del discorso allo Stato dell’Unione. Credo che la votazione del Congresso mostrerà molti voti trasversali, con democratici a favore della guerra e repubblicani contro. Gli interessi lotteranno, come sempre, con gli ideali». In cosa differisce la guerra di Obama da quella di Bush? «Continuo a pensare che questa non sia ancora guerra, e spero non lo sarà mai, ma in Siria sono morte decine di migliaia di persone e l’attacco con il gas di pochi giorni fa ha fatto strage di civili e anche di bambini: si tratta di una vera guerra civile. All’epoca di Bush, in Iraq, la situazione era estremamente diversa, e il presidente sabotò le prove dell’esistenza di armi di sterminio». Rimane il fatto che il presidente che doveva cambiare atteggiamento riguardo al Medio Oriente, oggi continua a bombardare. «È una situazione tragica, degenerata, dal quale è quasi impossibile uscire senza far danni. Non me la sento di esprimere un giudizio politico, ma solo un auspicio ». Qual è la sua opinione riguardo al concetto degli americani poliziotti del mondo? «Si tratta di un’enorme questione morale. Da quando ero giovane ho visto il mio paese andare in guerra in posti non doveva andare: il Vietnam, Grenada, l’Iraq. Mi chiedo anche se sia stato giusto intervenire in Kosovo, e in ognuno di questi casi mi sono sempre opposto con forza. Tuttavia, ritornando a quello che mi chiedeva prima, esistono dei casi in cui il problema etico esige una risposta: penso ad esempio al Ruanda. Qual è il limite oltre il quale l’intervento umanitario diventa abuso e sopruso?».

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