Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 01/09/2013, a pag. 12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Israele rassegnato a un conflitto che non vuole ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Con i soldati italiani in attesa della tempesta tra Libano e Israele ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Israele rassegnato a un conflitto che non vuole "

Fiamma Nirenstein
Gerusalemme. C’è un Paese che non c’entra niente, non fa parte della coalizione che Obama sta cercando di mettere insieme per attaccare la Siria (ciò che ormai può accadere ad ogni momento dopo che sono partiti gli inviati dell’ONU) ha ripetuto in tutte le lingue che non intende occuparsi dei complessi affari, le rivoluzioni, gli scontri interni, le stragi, le persecuzioni da cui sono funestati i suoi vicini. Non parteggia per nessuno. Nel corso di questi due anni di incredibili violenze ai suoi confini, si è limitato a mordersi la lingua e a raccogliere i feriti che tracimano dalla lotta fra Assad e i ribelli oltre il Golan, e curarli nei suoi ospedali. Questo Paese si chiama Israele, ed è l’unico contro cui i siriani e i loro alleati iraniani minacciano vendetta per ciò che si prepara. Nelle ultime ora la radio siriana trasmette musiche marziali, le milizie alawite si preparano e gli ufficiali intervistati affermano che ogni arma sarà usata in caso di attacco, ovvero allude all’uso delle armi chimiche che Assad ha accumulato in grandi quantità. Lunedì Khalaf Muftah, presidente del Ba’ath, il partito di Assad, ha detto alla radio che “Israele cadrà sotto il fuoco se gli USA e i loro alleati lanceranno un attacco contro la Siria” e ha aggiunto: “Abbiamo armi strategiche (cioè armi chimiche), sappiamo usarle, ed esse sono normalmente puntate contro Israele”.
Hossein Sheikcholeslam, il direttore generale degli affari esteri del Parlamento iraniano, ha detto che se un attacco ci sarà il regime sionista ne sarà la prima vittima. Afif Nablusi, un clerico legato a Hezbollah ha dichiarato che il Libano risponderebbe a un attacco contro la Siria, e che Israele sarebbe colpito. Ed è noto che la distruzione di Israele è lo scopo sociale degli Hezbollah. Il ministro degli esteri libanesi Adnan Mansour ha detto a sua volta che “la minaccia viene direttamente da Israele, sfrutterà l’attacco contro la Siria per affrontare gli Hezbollah”.
La risposta di Israele è un cauto procedere verso l’azione eventuale, il sistema antimissile è schierato al confine, la radio spiega di continuo che il rischio è il minimo, che Assad non sarà così pazzo da esporsi a meno di un attacco molto aggressivo, che nel 2007 non ha risposto quando Israele gli ha distrutto gli impianti nucleari. La folla in coda litiga davanti ai centri di distribuzione delle maschere antigas (con le file gli israeliani sono peggio degli italiani), la tv spiega di nuovo che non è sulla maschera che si punta ma semmai sull’abilità dell’esercito. Infatti, di maschere ne mancano ben il 40 per cento. Netanyahu ripete un messaggio uguale: “Noi non ne vogliamo sapere niente, ma ho un consiglio da amico: non ci provate”.
Il miluim, ovvero le riserve, sono state mobilitate, ma solo nel numero di mille uomini, quasi tutti dei servizi d’informazione perché se mai qualche missile partisse verso Israele, la sirena che chiede di correre ai rifugi (anche quelli in disordine, la gente li apre e li spazza, ci mette qualche bottiglia d’acqua e la radiolina) è la cosa più importante. Tutti fanno, tutti preparano, ma l’uso consolidato in 60 anni è calmarsi a vicenda, ridere del pericolo incombente, fare i buffoni con le maschere per i bambini. Assad sa che se attacca Israele, è la sua fine. Ma ciò che non è ragionevole, lo è tuttavia in Medio Oriente, e qui è d’uso dire “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Assad ha usato, dopo aver fatto centomila morti, l’arma che in fondo era l’unica proibita da un consesso internazionale inetto, perché provocarne la reazione? Forse semplicemente uno dei suoi ha spinto il bottone, la quantità non era giusta, la valutazione sulla diffusione delle notizie errata, la valutazione politica sbagliata (mi hanno lasciato far tutto, sarà così anche adesso…), o la sua nevrotica perfidia fuor di controllo… Non si sa: gli idioti possono ancora agire e costringere gli israeliani a correre nei rifugi e a usare le maschere. Quando Saddam Hussein sparò qui decine di missili, agli americani interessava soltanto che Israele stesse buona, che non rispondesse, e tanto insistettero che Yzchack Shamir, che non era un tipo facile, ubbidì. Ma la Siria ha il confine con Israele, e anche gli Hezbollah armati da decine di migliaia di missili iraniani, piazzati nel sud del Libano. E l’Iran è in agguato.
Guai a mostrarsi deboli. Benjamin Netanyahu ha detto, a chi l’avesse in mente, di non provarci. Si sussurra che gli americani gli abbiano già chiesto, nell’eventualità di una risposta israeliana, che sia lieve. Certo è che il mondo conta da decenni su questo piccolo Hans con il dito nella falla della diga da cui l’oceano è pronto a dilagare, un popolo che ormai è abituato a vedersi ascritte tutte le colpe del colonialismo, del capitalismo, dell’imperialismo, degli americani… che, quel che più conta, è combattere la battaglia di tutti per la democrazia in una zona dove l’islamismo è in continua crescita. Ci fosse stata, adesso, una sola voce, in inglese, in francese, in tedesco, che avesse detto: noi stiamo venendo da quelle parti, ma non vi preoccupate, se ci sarà bisogno avrete il nostro sostegno. Nessuna.
Sono cominciate le scuole, la radio parla al cinquanta per cento con la voce dei bambini che raccontano le loro emozioni. Per l’altro cinquanta, con la voce della guerra. Non abbiate paura, dice, yhie beseder, andrà tutto bene, e tanto vi basti.
www.fiammanirenstein.com
La STAMPA - Claudio Gallo : " Con i soldati italiani in attesa della tempesta tra Libano e Israele "

Il Lince corre lungo la strada costiera deserta, il mare blu è fatto con Photoshop. Nei piccoli stabilimenti balneari gli ombrelloni sono chiusi: non c’è nessuno. Il gippone, lo stesso dell’Afghanistan, è bianco con le insegne nere delle Nazioni Unite. I nostri hanno l’elmetto di kevlar blu e sulla spalla lo stemma tricolore, imbracciano i fucili automatici Beretta Scp 70/90 come prescrive l’allerta giallo. Al confine del Libano con Israele, la «Palestina occupata» come preferiscono dire nei villaggi sulle colline, i soldati Unifil non perdono il movimento di una foglia, in attesa del possibile attacco americano sulla Siria di Assad.
La frontiera di Damasco è parecchio più a Est, nella zona Unifil comandata dagli spagnoli, ma il vero punto caldo è qui, dove, a pochi minuti dall’impatto devastante dei Tomahawk della Us-Navy potrebbe riaccendersi la guerra tra le milizie sciite filo-siriane di Hezbollah e gli israeliani. La reticenza del governo italiano a unirsi all’assolo di Washington tiene conto di questo scenario, che vedrebbe un migliaio di soldati italiani presi in mezzo a un conflitto che non possono affrontare.
«C’è calma e tensione, stiamo osservando la situazione con estrema attenzione - racconta al quartier generale Unifil a Naqoura il generale Paolo Serra, torinese, 56 anni, comandante della forza e capo della missione Unifil, militare e diplomatico insieme -. I protagonisti assicurano di non volere l’escalation. Gli israeliani preferiscono starne fuori, il presidente libanese Suleiman è arroccato sulla dichiarazione di neutralità di Baadba, e anche Hezbollah, con cui non abbiamo rapporti diretti, sembra volare basso».
Ma la ragionevolezza non è il filo che tiene insieme il mondo, a cominciare dall’attacco-boomerang con i gas compiuto (ma forse non direttamente autorizzato) dal regime siriano, come indicherebbero le prove circostanziali fornite dagli americani.
All’inizio di agosto, lungo il confine, c’è stata una grave violazione: un numero imprecisato di soldati israeliani è penetrato in territorio libanese. Quattro militari sono saltati su una mina, Hezbollah ha rivendicato la risposta ma nessuno sa come sia andata veramente, a parte lo sconfinamento. Il generale Serra è scattato come una molla da una parte e all’altra della «linea blu» riuscendo a calmare gli animi eccitati. Appena tornato il sereno, ecco che pochi giorni fa un gruppo di jihadisti sunniti lancia alcuni razzi verso Israele per vedere se riesce a scatenare un conflitto. Gli israeliani rispondono tirando un missile verso un’ex sede dell’Olp, oltre Sidone, come dire: sappiamo chi è stato. Serra si deve rimettere in moto e richiamare tutti alla calma. Un agosto ordinario. «Eh sì - sorride - le cose da fare per fortuna non mancano».
Il contingente Unifil è composto da 12 mila uomini di 37 nazioni. L’incarico dopo la guerra del 2006 è di sorvegliare la «blue line» che divide provvisoriamente i due Stati e aiutare la popolazione dei villaggi a riprendere una vita normale. La linea, che si snoda sulle colline oltre il litorale meridionale per 119 chilometri, dovrebbe essere marcata da circa duecento pilastri blu. Finora ne sono stati piantati 180, tra mille difficoltà perché il terreno è minato.
Tracciata prima sulle mappe, la linea taglia come un raggio laser tutto ciò che trova sul suo percorso. C’è un’antica tomba sopra cui si appoggia la rete di divisione: mezza di qua, mezza di là. Visto da nord è il sepolcro dello sceicco Abbad, vissuto 500 anni fa, venerato dai musulmani; guardato da sud è il mausoleo di rabbi Assi, vissuto 16 secoli fa, invocato dagli ebrei. Per l’Unifil è una grana e basta. I Caschi blu hanno costruito una piattaforma di osservazione per evitare tafferugli tra i fedeli.
Sul versante del rapporto con la gente i nostri soldati sono molto popolari, al di là dei cliché incarnano un «modello Italia», fatto di serietà e umanità, che in questo tipo di missioni si è dimostrato il più efficace. Sul versante militare sono invece immersi in una piccola guerra fredda. I colloqui mensili tra Unifil, libanesi e israeliani avvengono nella vecchia sede della dogana, una villetta di cemento a due piani sul litorale di Naqoura. Perfettamente in mezzo c’è la bandiera blu dell’Onu: gli israeliani entrano dalla porta meridionale, i libanesi da quella settentrionale. Checkpoint Charlie piantato sulla riva del Mediterraneo. Ognuno porta osservazioni e recriminazioni. Dopo la discussione, con l’Unifil in veste di moderatore, le delegazioni si alzano, si voltano le spalle e, dalla porta opposta, tornano nel loro pianeta dall’altra parte del reticolato.
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