Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Intervento in Siria: il Congresso frena Obama cronache di Daniele Raineri, Mattia Ferraresi, Michael Sfaradi
Testata:Il Foglio - Libero Autore: Daniele Raineri - Michael Sfaradi Titolo: «Il fronte politico contro Assad rallenta e negozia con Putin - Israele fa la fila per le maschere antigas»
Le cronache pubblicate dai quotidiani di questa mattina, 30/08/2013, si equivalgono per contenuti. Riprendiamo dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Il fronte politico contro Assad rallenta e negozia con Putin ", l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " I “falchi umanitari” sussurrano a Obama (e ai giornali) ma il Congresso chiede una strategia". Da LIBERO, a pag. 16, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo " Israele fa la fila per le maschere antigas ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Il fronte politico contro Assad rallenta e negozia con Putin"
Daniele Raineri
Roma. Il fronte politico contro il presidente Bashar el Assad si sta sgonfiando come un soufflé, non altrettanto quello militare: ieri un quinto incrociatore americano con missili Tomahawk s’è aggiunto agli altri posizionati davanti alla costa della Siria. I cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sono riuniti di nuovo ieri pomeriggio al Palazzo di vetro, su richiesta dei russi. Due giorni fa un primo meeting per discutere una risoluzione che autorizzasse l’intervento armato contro il governo e l’esercito siriani era finito in un nulla di fatto, come largamente previsto, con gli ambasciatori russo e cinese che hanno semplicemente abbandonato i loro posti e sono usciti dalla porta. E’ evidente che ieri s’è aggiunto qualche altro elemento, di cui valeva la pena parlare: al momento in cui questo giornale andava in stampa la riunione non era ancora finita, ma fonti diplomatiche parlano di un accordo preventivo sullo strike internazionale, che dovrebbe essere abbastanza duro da ottenere due risultati: il primo è salvare la faccia del presidente americano Barack Obama, che rischia la sua credibilità da quando nell’agosto 2012 ha parlato di uso delle armi chimiche come di una “linea rossa” da non varcare; il secondo è ammorbidire la posizione del presidente siriano Bashar el Assad, per farlo sedere al tavolo di Ginevra due. La conferenza di pace di Ginevra due in teoria è la sede dei prossimi negoziati diretti tra governo e ribelli siriani ed era prevista a giugno, ma in pratica è slittata verso il nulla e nessuno ne parlava più, se non come dell’ennesima speranza bruciata. A Londra il primo ministro David Cameron ha difeso in Parlamento la decisione del governo di annunciare la partecipazione alla coalizione con Washington, spiegando che lanciare lo strike contro la Siria è legale dal punto di vista della dottrina degli interventi umanitari anche senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Cameron ha esposto la sua posizione anche con l’aiuto di documenti d’intelligence e legali e ha detto che il governo siriano ha già usato le armi chimiche in altri 14 attacchi minori prima di quello di mercoledì scorso. Il rapporto del Joint Intelligence Committee dice che è “highly likely” che la strage sia opera del governo siriano. Il leader del partito Labour, Ed Miliband, si oppone però alla mozione di Cameron, sostenendo che prima è necessario aspettare i risultati delle ispezioni Onu sul campo: gli ispettori lasceranno la Siria soltanto sabato, allo scadere del loro mandato. Il Labour è paralizzato dal ricordo dell’Iraq, che avvelena, come ha detto Cameron, anche questa vicenda – e però fu un’invasione di terra, contro un governo che non era impegnato in una brutale repressione militare anche con armi chimiche sotto gli occhi del mondo. Miliband è stato accusato dai Tories di essere corso in aiuto di Assad – oggettivamente ha inceppato il meccanismo militare – e una fonte di Downing Street lo ha definito: “A fucking cunt and a copper-bottomed shit”, due insulti intraducibili in italiano e forse è meglio così. Al voto, che è stato questa notte, Cameron e il leader dei Lib- Dem Nick Clegg disponevano sulla carta di una maggioranza di 77 voti, ma 70 dei loro parlamentari sono “non convinti” – secondo il Guardian – e 30 di questi si sono detti “scettici”, anche se comunque voteranno perché “è una mozione debole, ci dovrà essere un altro voto prima dell’attacco”. Il dipartimento di stato americano risponde così all’impasse di Londra: “Non abbiamo necessariamente bisogno di agire sulla base della stessa dottrina legale seguita dai nostri alleati”. Come a dire: non vi aspetteremo. Navi da guerra russe Il presidente francese François Hollande ha detto ieri che l’unica soluzione è politica e che aspetta i risultati dell’inchiesta Onu, una posizione meno forte dei giorni precedenti, in cui aveva calzato senza esitazioni l’elmetto dell’interventista. Come pure il cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ieri ha ricevuto le telefonate sia di Vladimir Putin sia del presidente Obama. Merkel ha detto che la strage chimica in Siria “non può restare impunita”, ma deve fare i conti con le elezioni imminenti e con sondaggi ultra-contrari a un intervento militare. L’Egitto che da poco è passato sotto il potere dei generali, dopo il golpe del 3 luglio contro i Fratelli musulmani, è schierato a fianco di Assad. Anche il movimento Tamarrod, che ha innescato le proteste gigantesche contro l’ex presidente Mohammed Morsi, è con Assad. Ieri le agenzie russe hanno scritto che due navi da guerra di Mosca stanno per arrivare nel settore previsto per le operazioni, il Mediterraneo orientale. E’ probabile che seguiranno da vicino gli spostamenti delle unità americane e che comunicheranno la loro posizione al governo siriano.
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " I “falchi umanitari” sussurrano a Obama (e ai giornali) ma il Congresso chiede una strategia "
Mattia Ferraresi Il Congresso degli Usa
Roma. Dal giorno dell’attacco con le armi chimiche a Ghouta, nella mente di Barack Obama e del suo consiglio di guerra l’ipotesi dello strike in Siria ha subìto una rapidissima accelerazione e poi un’improvvisa frenata. Frenata tattica per coordinare l’intervento con l’attività degli ispettori dell’Onu, sondare gli intenti di una coalizione dei volenterosi sempre meno volenterosi e placare un Congresso in subbuglio perché nessuno l’ha informato circa le varie opzioni militari sul tavolo di Obama. In un’intervista alla Pbs il presidente ha ripetuto che una punizione per il regime di Bashar el Assad è inevitabile, ma il primo scopo della comparsa era quello di sottolineare che non sarà un altro Iraq, anche a beneficio di un’opinione pubblica americana decisamente contraria all’intervento. Non un dettaglio per un presidente così attento ai sondaggi. Ieri sera il segretario di stato, John Kerry, e il capo del Pentagono, Chuck Hagel, hanno fatto un briefing ai membri del Congresso, e alla conference call hanno partecipato anche il consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice e il direttore dell’intelligence, James Clapper. La scelta di informare il Congresso risponde alle richieste dello speaker repubblicano della Camera, John Boehner, che con una lettera alla Casa Bianca ha leggermente placato l’attivismo presidenziale: “Servirà il sostegno pubblico e del Congresso per appoggiare gli sforzi dell’Amministrazione e i nostri soldati meritano di sapere che abbiamo una strategia”. Una strategia, ecco il punto oscuro nelle manovre di Obama. E anche il riflesso di un consiglio di guerra diviso fra interventismo e cautela. Qualche giorno dopo l’attacco con le armi chimiche nella periferia di Damasco, la posizione di Obama si è fatta più decisa, sull’onda delle consultazioni con un gabinetto di guerra affollato di interventisti liberal che hanno costruito la loro credibilità pubblica sull’uso della forza per motivi umanitari. Susan Rice e Samantha Power, ambasciatrice americana all’Onu, hanno cominciato un’operazione di Twitter diplomacy per illustrare le ragioni dell’intervento. Da posizioni diverse avevano sostenuto una battaglia analoga per l’intervento in Libia. Power ha fatto capire chiaramente che nulla di sensato può venire dal Palazzo di vetro: “Il regime siriano deve essere costretto a rispondere, cosa che il Consiglio di sicurezza ha rifiutato di fare per oltre due anni. Gli Stati Uniti considerano una risposta adeguata”. Con prese di posizione decise ha cercato di far dimenticare una falsa partenza nella gestione del dossier siriano: quando i missili con il gas sarin si abbattevano sui civili, lei era in vacanza in Irlanda, e ha mandato il suo vice a protestare. Era il diciannovesimo giorno di lavoro dell’ex attivista per i diritti umani. Domenica mattina Rice ha mandato una e-mail a Power e ad altri “falchi umanitari”, come li chiamano a Washington, del Consiglio di sicurezza: “L’indagine dell’Onu arriva troppo tardi e ci dirà quello che sappiamo già: sono state usate armi chimiche. Non ci dirà nemmeno da chi, cosa che sappiamo già”, ha scritto Rice. Power ha riportato al pubblico la sentenza: “Il verdetto è chiaro: Assad ha usato armi chimiche contro i civili in violazione del diritto internazionale”. A quel punto l’Amministrazione ha tentato di cancellare la missione degli ispettori Onu, svuotata di significato dalle prove raccolte dagli americani e potenziale impedimento per un’azione unilaterale. I “falchi umanitari” non sono riusciti a far saltare l’operazione e il “momentum” interventista che avevano generato presso Obama – anche grazie all’aiuto di John Kerry, che da oltre due mesi preme per un intervento – si è leggermente sgonfiato. Richieste del Congresso a parte – che Obama non può non collegare alle altre battaglie interne, dal debito pubblico all’applicazione dell’Obamacare – la triade Rice- Power-Kerry che ha convinto il presidente ad accelerare sulla via dell’attacco è ostacolata da Martin Dempsey, il capo delle Forze armate americane. Il Pentagono è scettico sull’opportunità di uno strike in mancanza di un’idea strategica complessiva e teme gli effetti che questo potrà provocare nel lungo periodo. Donald Rumsfeld, segretario della Difesa nell’Amministrazione Bush, ha esplicitato il sentire dei militari parlando di una “mindless strategy”, una strategia che non tiene conto delle conseguenze sull’area, in particolare sul regime iraniano che protegge Assad. Mentre le ragioni degli interventisti sono filtrate alla stampa attraverso leak tambureggianti – il portavoce della Casa Bianca ieri si è lamentato delle “blind quotes” che abbondano negli articoli di questi giorni – quelle più prudenti dei militari sono passate inizialmente sottotraccia, salvo poi emergere sotto forma di anonimi funzionari secondo cui le prove nelle mani degli americani “non sono uno slam dunk”. Un riferimento all’immagine usata nel 2002 dal direttore della Cia per descrivere le certezze del governo intorno alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
LIBERO - Michael Sfaradi : " Israele fa la fila per le maschere antigas"
Michael Sfaradi
Agli occhi di chi vive lontano dal Medio Oriente la tranquillità con la quale la popolazione israeliana porta avanti la sua esistenza, anche se i confini più caldi del mondo si trovano a pochi chilometri in linea d’aria dai centri urbani, può sembrare bizzarra se non incosciente. In realtà questo “modus vivendi” è il frutto di coraggio misto a rassegnazione, magari condito con un pizzico di fatalità. Questo perché dal 1948 a oggi guerre, attentati terroristici e minacce di distruzione si sono costantemente inseguiti riuscendo a rendere una popolazione intera poco sensibile ai pericoli, anche reali, e a sviluppare la capacità di continuare a vivere sempre, comunque e nonostante tutto. FILTRI DA CAMBIARE Per dire: le maschere antigas. Fecero il loro ingresso nella vita quotidiana di Israele durante la prima guerra del Golfo del 1991, quando il dittatore iracheno Saddam Hussein minacciò di bombardare Tel Aviv con vettori chimici. Da allora, e son passati più di venti anni, la scatola marrone con il kit salvavita è conservata negli armadi di tutte le famiglie israeliane. Con il tempo però le maschere perdono la loro efficacia e ci si ricorda di cambiare i filtri, o se necessario tutta l’attrezzatura, solo quando gli eventi internazionali precipitano in nuove guerre o nuove minacce. Da quando le immagini dei bambini morti in Siria dopo un attacco con armi chimiche risalente al 21 agosto scorso hanno fatto il giro del mondo e gli Stati Uniti hanno minacciato ritorsioni nei confronti di Assad e del suo governo, le scatole marroni sono dunque tornate attuali, e tutti coloro che non le avevano rinnovate corrono ai ripari. Questo sta però causando l’intasa - mento dei centri di distribuzione dei kit che la protezione civile ha approntato sia nelle grandi città che nei piccoli centri, con le lunghe file che i media hanno mostrato. Ci sono però alcuni particolari estremamente importanti che vanno sottolineati: questa emergenza è in parte dovuta alla negligenza della popolazione che non ha aggiornato la dotazione nei modi e nei tempi richiesti dalle autorità, e in parte dal fatto che nessuno si aspettava né l’uso delle armi chimiche da parte siriana sulla propria popolazione né una risposta così repentina della comunità internazionale. Per sopperire al disagio i vertici dell’esercito israeliano, per mezzo di alcuni comunicati stampa, hanno fatto sapere che nelle prossime ore altri centri di smistamento saranno aperti, in modo da diminuire sensibilmente i tempi di attesa. ORDINI IN CONSEGNA Un altro interrogativo è poi rimbalzato, mettendo in dubbio che ci siano sufficienti scorte per tutti i residenti. A questo proposito abbiamo sentito il dottor Golan Ghilad, uno dei titolari della società Supergum LTD, fra i più importanti produttori di maschere antigas e filtri N.B.C. in Israele. Il quale ha assicurato che «tutti gli ordini governativi sono attualmente in consegna secondo i tempi e i modi concordati» e, anche se lui può parlare solo per la sua azienda, è sicuro che anche gli altri produttori siano in regola con le consegne. Per fugare i dubbi e le preoccupazioni ha aggiunto che anche in passato, ogni volta che si sono verificate emergenze di questo tipo, la stessa domanda è stata riproposta, ma che nel momento della verità ogni cittadino israeliano aveva accanto a sé il suo kit pronto all’uso.
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