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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
28.08.2013 Attacco alla Siria: colpire Assad per ammonire l'Iran sul nucleare
commenti di Federico Rampini, Gianni Riotta, Paolo Mastrolilli, Bernard-Henri Lévy, Matteo Matzuzzi

Testata:La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Federico Rampini . Gianni Riotta - Paolo Mastrolilli - Bernard-Henri Lévy - Matteo Matzuzzi
Titolo: «Il fattore iraniano - Un dubbio machiavellico per Obama - I piani del Pentagono: stroncare l’aviazione con sole 3 navi e 24 jet - L'Occidente salvi l'onore in Siria. Le minacce di Putin sono un bluff - Intervento sì o no? Le diplomazie dei cristiani del m»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 28/08/2013, a pag. 1-3, l'articolo di Federico Rampini dal titolo " Il fattore iraniano ". Dalla STAMPA, a pag. 1-29, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " Un dubbio machiavellico per Obama ", a pag. 3, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " I piani del Pentagono: stroncare l’aviazione con sole 3 navi e 24 jet ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 35, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " L'Occidente salvi l'onore in Siria. Le minacce di Putin sono un bluff ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Matteo Matzuzzi dal titolo " Intervento sì o no? Le diplomazie dei cristiani del medio oriente si muovono preoccupate. E in ordine sparso ".Mentre tutti i quotidiani italiani sono favorevoli a un intervento, alcuni diretto, altri con una partecipazione internazionale, gli unici due quotidiani italiani schierati contro l'intervento sono Libero e Il Giornale.


Libero
pubblica un pezzo di Maria Giovanna Maglie, la quale sostiene che l'intervento sarebbe un errore inutile.


Il Giornale pubblica un pezzo di Roberto Fabbri il quale sostiene che sia ipocrita da parte dell'Occidente attaccare ora, quando avrebbe dovuto farlo all'inizio della guerra civile. Ma la politica non si giudca con il senno di poi. E un errore commesso in precedenza non giustifica che se ne commetta uno nuovo.

Ecco i pezzi:La REPUBBLICA - Federico Rampini : " Il fattore iraniano "


Federico Rampini

Tutti i nostri complimenti a Federico Rampini per la sua analisi che riprende fedelmente e integralmente le dichiarazioni più volte espresse dal premier israeliano Bibi Netanyahu. Se la sinistra pacifista e terzomondista comincia ad aprire gli occhi, possiamo solo rallegrarcene.

Per Barack Obama è iniziato il conto alla rovescia. Il suo segretario alla Difesa Chuck Hagel è chiaro: «Le forze Usa sono pronte a colpire appena il presidente dà l’ordine ». Fonti americane e inglesi situano l’intervento militare in Siria entro pochi giorni. Prima o dopo il G-20 di San Pietroburgo, «in casa Putin »? Dipenderà dalla velocità di costruzione di un sostegno internazionale che legittimi il blitz militare come un atto di giustizia. È l’Iran ad avere convinto un riluttante presidente americano: lasciare impunito Assad sarebbe un errore strategico per il “messaggio” implicito che questa inazione invierebbe a Teheran. Armi chimiche e bomba nucleare ricadono nella stessa categoria: distruzione di massa. Che credibilità resterebbe al leader degli Stati Uniti nel combattere i progetti nucleari degli ayatollah, se l’uso di armi chimiche per massacrare donne e bambini rimane senza conseguenze, in un paese protetto e aiutato proprio dall’Iran? E il castigo da infliggere ad Assad, per quanto “mirato”, non deve solo puntare a neutralizzare gli arsenali di armi chimiche, bensì le basi militari da cui sono partiti quegli atroci attacchi col gas nervino. La punizione deve raggiungere i responsabili, dice il Pentagono. Deve anche indebolire l’apparato militare di Damasco. Senza provocare disastri ambientali (esplosioni accidentali di depositi di gas con spargimento nell’atmosfera) ed evitando il rischio che le stesse armi chimiche cadano nelle armi delle fazioni più radicali dell’opposizione, vicine ad Al Qaeda. Quasi una Mission Impossible? Obama in queste ore è deciso a non commettere tre errori dei suoi predecessori. Il primo precedente che ossessiona Obama, ovviamente, è l’arroganza imperiale di George W. Bush che sfociò nel disastro iracheno. Obama quand’era giovane senatore dell’Illinois si oppose alla guerra, e quella scelta gli conquistò molti favori della base democratica nella corsa alla nomination contro Hillary Clinton (2008). Obama ha promesso entro la fine di questa settimana le prove che l’attacco chimico contro la popolazione civile è stato perpetrato dalle forze di Assad: sa che dovranno essere ben più convincenti delle “prove” sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che Bush (attraverso Colin Powell) presentò all’Onu per giustificare la guerra del 2003. Altro errore da evitare è l’unilateralismo, donde l’importanza di costruire una coalizione quanto più vasta possibile, che presenti l’intervento militare come una difesa della legalità, contro una gravissima violazione delle leggi internazionali. In queste ore Obama sta appunto edificando la legittimità, a cominciare dalla Nato e dalla Lega araba. Con un messaggio preciso: quella che sta per iniziare non è una guerra, è un’operazione limitata, un castigo esemplare, non l’inizio di un’escalation. Obama vuole passare alla storia come il presidente che ha disimpegnato l’America da due guerre (Iraq e ben presto Afghanistan), non vuole cominciarne una terza. Secondo errore da evitare è quello che commise Ronald Reagan nel 1986 quando lanciò un blitz contro Gheddafi, per punirlo di alcuni attentati terroristici (e scoraggiarlo dalle sue ambizioni nucleari). Ma lasciò trapelare che l’intenzione vera del bombardamento aereo sulla Libia era l’uccisione di Gheddafi stesso. Obiettivo fallito. Obama ha istruito i suoi consiglieri perché siano chiari su questo punto: l’attacco alla Siria non avrà come obiettivo il cambio di regime, né l’eliminazione di Assad, che vanno perseguiti con mezzi politici. Terzo errore da evitare è il “mission creep”, ovvero lo slittamento progressivo degli obiettivi di una missione: sindrome che colpì il presidente democratico John Kennedy in Vietnam. C’è sempre il rischio, per esempio, che una risposta di Assad contro le forze Usa scateni un’escalation di reazioni e controreazioni. Resta utile invece il precedente di Bill Clinton in Kosovo (1999): fece giurisprudenza per il “dovere d’ingerenza umanitaria”. E fu anche l’inizio della fine per Milosevic. Tra i presidenti democratici Obama non cessa di ricordare anche Jimmy Carter. L’unico leader Usa, da 70 anni in qua, a non avere scatenato una sola guerra. Eppure per gli americani Carter rimane un perdente, associato a un disastro in politica estera: la crisi degli ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran. L’Iran, appunto: la vera ragione per cui Obama non può permettere che Assad la faccia franca anche stavolta.

La STAMPA - Gianni Riotta : " Un dubbio machiavellico per Obama "


Gianni Riotta    

Il 23 ottobre del 1983 una sconosciuta organizzazione terroristica chiamata Jihad Islamica distrusse con attacchi kamikaze la caserma dei marines americani e quella dei militari francesi, in missione di pace a Beirut. I giovani carabinieri italiani di stanza nella capitale libanese ricordano ancora l’orrore dei cadaveri ridotti a pezzi, caddero 241 marines, 58 soldati francesi e 6 civili, oltre cento i feriti.

L’allora presidente americano Ronald Reagan, considerato un falco, viene spinto alla reazione, deve «vendicare» la strage. Reagan ordina alla corazzata New Jersey, che incrocia nel Mediterraneo, di aprire il fuoco con i proiettili da 16 pollici, arnesi che scavano crateri grandi come campi da tennis non più usati dal Vietnam, «Volkswagen volanti» li chiamavano i libanesi. Partono undici cannonate e il raid si ferma. Il 7 febbraio 1984 «il falco» Reagan comanda il ritiro unilaterale dei marines dal Libano e il giorno dopo la New Jersey, per guadagnare titoli sui giornali, spara 300 cannonate – record dai tempi della Corea – sulla Valle della Bekaa, contro miliziani siriani e drusi.
Muoiono molti civili, molto odio è seminato, la ritirata è coperta dal frastuono di ordigni da 16 pollici.

È lo scenario che il pragmatico presidente Barack Obama, premio Nobel per la Pace, ha sul tavolo adesso per la Siria, in punizione per l’uso di gas tossici da parte del dittatore Assad, in palese violazione del diritto internazionale. Reagan, etichettato come «falco» non aveva in realtà nessuna voglia di essere coinvolto nella tragica guerra civile libanese e, salvata la faccia a cannonate, riporta tutti a casa. Obama, etichettato con altrettanta superficialità «colomba», non intende affatto contrariare il 60% degli americani ostili al blitz contro Damasco. Sa però di avere intimato ad Assad di non usare i gas e sa che Russia, Cina e Iran, veri bersagli psicologici del suo raid, lo scrutano. Se il Presidente, intimidito, non mantiene la parola, Mosca, Pechino e Teheran alzeranno il prezzo in ogni trattativa, civile e militare. E la forza americana, nella Grande Guerra Civile che divide l’Islam dal Nord Africa alla Turchia a Kabul, conterà meno di quel poco che conta oggi.

Centomila morti civili non son bastati a smuovere Usa, Europa, Onu e Nato, il veto imposto alle Nazioni Unite da Russia e Cina ferma tutto. Ma ora non conta il sangue, conta la credibilità politica e mezzo millennio dopo la pubblicazione del «Principe» di Machiavelli, il cerebrale Presidente americano è cosciente che un leader non temuto è un leader finito, anche nell’epoca in cui la cyberdiplomazia dei tweet conta almeno quanto le cannonate da 16 pollici.

Obama colpirà dunque alla Reagan, neanche mirando alle centrali dei gas letali, ma a basi aeronautiche e militari per segnare il territorio, dare una mano ai ribelli (molto divisi sul raid, tra soddisfazione per la botta ad Assad e timore che i civili li considerino servi degli americani) e fare la voce grossa davanti a alleati e nemici. Con lui il conservatore inglese Cameron e il socialista francese Hollande, preoccupati che Washington non appaia sola a difendere i valori occidentali mentre Assad viola Convenzione di Ginevra e ogni trattato internazionale contro le armi chimiche. La Lega Araba parlerà come sempre la Lega Araba a due toni, condannando Assad ma senza autorizzare il blitz. L’Unione Europea, come sempre, non avrà voce comune, ogni capitale impegnata secondo i propri interessi.

Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha dichiarato che l’Italia non interverrà senza mandato Onu, certa che tale mandato non ci sarà. Il governo Letta è davanti a un delicatissimo passaggio, vitale, ed è comprensibile che, con tanti italiani scettici o indifferenti, non voglia aprire un altro fronte. Forse però si potrebbe almeno seguire la proposta dell’ex consigliere del presidente Carter, Zbigniew Brzezinski: promuovere all’assemblea generale Onu una risoluzione che condanni l’uso dei gas, senza incriminare direttamente Assad, ma facendo uscire le Nazioni Unite dalla pilatesca indifferenza di queste ore, che le dichiarazioni del segretario Ban Ki Moon non sanno scuotere. L’Italia, pur senza partecipare militarmente se non ne ha adesso la forza, potrebbe offrire agli alleati un contesto diplomatico alla reazione anti Assad e non restare inerte, tragicamente, davanti alla strage degli innocenti.

Il blitz confermerà lo status quo in Medio Oriente, nessun negoziato Israele-Palestina, guerra civile araba, Europa assente, Stati Uniti concentrati sull’Asia e la crisi economica interna, Obama leader astratto secondo gli amici, distratto secondo i nemici. Ma non sarà senza opportunità e pericoli. Nel suo gioco d’azzardo Putin, che difende in Siria l’ultima base navale di Mosca nel Mediterraneo, potrebbe rilanciare l’appoggio a un Assad sempre meno forte, oppure, come suggeriscono fonti inglesi, ascoltare una proposta saudita, mollare Damasco in cambio di interventi a suo favore nel mercato del petrolio. Conoscendo Putin la prima ipotesi sembra più solida della seconda. L’Iran del nuovo presidente Hassan Rohani ha condannato ieri l’uso dei gas in Siria, mentre il pragmatico ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha ricordato i pericoli di un blitz militare. Entrambi sono consapevoli che Obama, Cameron e Hollande parlano alla Siria perché l’Iran intenda: esistono dei limiti alla violenza, l’irresponsabilità, l’intolleranza, non potete ignorare del tutto le nostre richieste. Vedremo presto se il raid militare del premio Nobel Obama sarà, o no, compreso.

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : "I piani del Pentagono: stroncare l’aviazione con sole 3 navi e 24 jet "


Paolo Mastrolilli    

Un attacco in due fasi, con appena tre navi e 24 aerei, per colpire sei basi primarie e dodici secondarie dell’aviazione siriana. Il tutto a un costo molto ridotto, e senza mettere a rischio neppure un soldato americano. Questo è il piano di cui si discute a Washington da tre settimane, che è diventato il modello dell’intervento per il Congresso, e in parte per lo stesso Pentagono.

Lo ha scritto e pubblicato il 31 luglio scorso Christopher Harmer, che oggi lavora all’Institute for the Study of War, ma per vent’anni ha fatto l’ufficiale nella U.S. Navy. Ultimo incarico: Deputy Director of Future Operations della Quinta Flotta in Bahrain, ossia ideatore dei piani per l’intero Medio Oriente.

Harmer parte dal fatto che l’aviazione svolge tre funzioni essenziali per Assad: riceve armi e munizioni da Iran e Russia, rifornisce rapidamente sul terreno le unità del Syrian Arab Army, e bombarda i territori occupati dai ribelli. Distruggere l’intera Syrian Air Force (Saf) e il suo apparato di difesa antiaerea richiederebbe un grande intervento, che il capo degli stati maggiori Dempsey ha prospettato al presidente Obama: degradarle e renderle non operative sarebbe molto più facile e meno costoso. Basterebbero tre navi nel Mediterraneo, dove il Pentagono ha già la Uss Barry, Uss Gravely, Uss Mahan e Uss Ramage, e 24 aerei, per lanciare Tomahawk (Tlam), Joint Air to Surface Standoff Missile (Jassm), e Joint Stand Off Weapon (Jsow). I missili partirebbero dalle navi e dagli aerei che non entrerebbero nello spazio siriano. In caso, gli aerei potrebbero operare dalla base turca di Incirlik, da quella giordana di al-Mafraq, da Akrotiri a Cipro, e dallo spazio di Arabia Saudita e forse Israele. Quindi senza rischi e senza necessità di distruggere la contraerea.

Gli obiettivi sarebbero le basi della Saf, che sono in totale 27. Il piano però ne identifica 6 primarie da colpire subito, perché sono le più operative, cioè Dumayr, Mezzeh, Al-Qusayr/Al-Daba, Bassel al-Assad Int’l, Damascus Int’l, e Tiyas/Tayfoor; e 12 da colpire nel caso vengano attivate, Shayrat, Hama, Khalkhalah, Marj Ruhayyil, al-Nasiriyah, Sayqal, Tha’lah (Suwayda), Qamishli, Palmyra, Al-Seen, Aqraba, Bali. Le altre sono in mano ai ribelli o in zone contese, e quindi non funzionali.

La prima fase dell’attacco richiederebbe il lancio di 24 Tlam dalle navi, più 24 Jassm e 24 Jsow dagli aerei F-15E ed F-18E. Obiettivo: degradare le piste di atterraggio e le strutture fisse, tipo i radar. Subito dopo i ricognitori dovrebbero verificare i danni fatti, e individuare le probabili posizioni nei bunker o all’aperto degli aerei siriani, che in totale sono stimati in circa cento. A quel punto scatterebbe la seconda ondata, con 109 Tomahawk lanciati dalle navi, per completare la distruzione delle strutture e prendere di mira i singoli apparecchi. La terza fase sarebbe la «Maintenance», ossia una sortita ogni 7 o 10 giorni, con 12 Tlam, 12 Jassm e 12 Jsow, per distruggere quello che i siriani ricostruiscono. In totale l’attacco costerebbe meno di 140 milioni di dollari in munizioni, più le spese per lo spiegamento di uomini e mezzi.

Questo piano è stato abbracciato da parlamentari come il senatore McCain, che lo ha suggerito al Pentagono. I militari hanno la loro versione, che include tra gli obiettivi il Palazzo presidenziale di Damasco, il ministero della Difesa, le sedi dell’intelligence, la base Qasioun della Guardia repubblicana, o le batterie di artiglieria. Meno probabile l’inclusione dei siti chimici, per timore dei danni collaterali, e del rischio che gruppi jihadisti si impossessino delle armi. Harmer ha detto che l’attacco chirurgico non basterebbe a risolvere la crisi, se non fosse accompagnato da una strategia di lungo termine. Ma questo è un altro problema, che tocca a Casa Bianca e dipartimento di Stato.

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " L'Occidente salvi l'onore in Siria. Le minacce di Putin sono un bluff "


Bernard-Henri Lévy

Non sembra esserci grande incertezza su chi siano i responsabili dell'attacco che mercoledì scorso, alla periferia di Damasco, ha causato il primo massacro chimico di questa guerra contro i civili che dura da due anni e mezzo. Fatta eccezione per la manciata di quanti — su fronti opposti — non perdono occasione per esercitare il solito revisionismo maniacale, tutti gli osservatori concordano nell'additare Bashar Assad e il suo regime.
Neppure sussistono dubbi sulla necessità di una risposta: la morale lo esige; la causa della pace lo richiede; il pragmatismo, la serietà, la realpolitik più elementare lo ordinano allo stesso modo. Perché, infine, delle due cose l'una. Se Barack Obama un anno fa ha fatto dell'uso dei gas la «linea rossa» da non attraversare, allora o la sua parola significa qualcosa ed egli ha il dovere di rispondere — oppure non reagisce, gesticolando con i suoi cacciatorpedinieri, esita e la sua parola con quella del suo Paese non ha più credito né importanza. Salutiamo, quindi, i problemi in Corea del Nord, in Iran, nello scellerato club dei Paesi che hanno o cercano di avere armi di distruzione di massa e che considerano questo affaire siriano come un test sulla determinazione delle democrazie.
E in merito alla questione della legittimità di un intervento bloccato presso le Nazioni Unite dagli Stati canaglia — e, di fatto, dal loro sponsor russo — diciamo che la questione stessa non si pone più: non siamo forse di fronte a una di queste situazioni di estrema urgenza invocate dal legislatore internazionale quando fu formulato, nel 2005, il principio della responsabilità di proteggere? E non è l'esatta posizione in cui si trovava il Presidente Sarkozy quando, il 10 marzo 2011, disse ai ribelli libici recatisi presso di lui per domandargli di salvare Bengasi che sperava nell'approvazione delle Nazioni Unite ma che sarebbe stato soddisfatto, nel caso non l'avesse ottenuta, di un mandato di sostituzione? Non esistono forse dei momenti nella Storia in cui ciò che i filosofi classici chiamavano «legge naturale» prevale sulle leggi positive e sui loro accomodamenti di circostanza?
La vera questione, nondimeno, è, appunto, la Russia. Il vero, abissale enigma riguarda i motivi che — contro ogni logica, contro il mondo intero e contro (è una novità) una parte della propria opinione pubblica sconcertata, come il resto del pianeta, dalle immagini di bambini gassati — possano spingere i russi a tenere in palmo di mano un regime notoriamente omicida.
Si consideri la Cecenia. Si dice: come potrebbero i massacratori dei ceceni,
senza il rischio di vedere la comunità internazionale chiedere loro conto dei crimini commessi, aderire alla condanna di Bashar Assad?
Si parla anche della loro opposizione di principio a tutto ciò che possa somigliare a una rispolverata del buon vecchio adagio hitlero-stalinista: «Il carbonaio è padrone a casa propria». E ciò è, naturalmente, innegabile. Rimane — di questo strano comportamento, di questa associazione in fondo irrazionale e quasi assurda al viva la muerte di un regime di cui i gerarchi del Cremlino non possono ignorare come esso sia, in tempi più o meno brevi, condannato a scomparire — un altro punto del quale ho preso coscienza nel discutere, quest'estate, con un ufficiale russo del quale devo rispettare l'anonimato. La Russia era uno Stato colosso. Un colosso dai piedi d'argilla, ma comunque un colosso, regnante fino a tempi recenti su Cuba e Vietnam, l'Asia centrale, una parte dei Balcani, l'India, l'Iraq, l'Egitto, senza dimenticare l'Europa centrale e orientale, i Paesi Baltici, la Finlandia. Ebbene, di questo regno passato, di questa zona d'influenza senza precedenti né equivalenti, di questo impero di fianco al quale il presunto impero americano appariva come una pallida e goffa replica, che cosa rimane oggi? Niente. Neppure un dominio. Neanche un protettorato. Nemmeno la ribelle Ucraina. Né Cuba, sotto l'influenza venezuelana. Neppure l'ombra di un residuo, neppure coriandoli. Davvero nulla. Ad eccezione, appunto, di questa Siria così malfamata, ma che, agli occhi dell'ex membro del Kgb Putin, deve probabilmente incarnare l'ultimo vestigio di questo passato splendore.
La Russia è un Paese malato. La Russia è un Paese esangue, il cui commercio estero, ad esempio, è equivalente a quello dei Paesi Bassi. Ma la Russia è, ancora, un Paese sconfitto che ha nostalgia di una potenza di cui non resta che questa Siria, ancora più martoriata di lei, e alla quale la si vede aggrapparsi con la stessa folle energia, mutatis mutandis, della Francia indebolita degli Anni 50 nei confronti di un'Algeria che sapeva tuttavia
di avere irrimediabilmente perso.
La spiegazione sembrerà inquietante a coloro — e non avranno torto — che non gradiscono vedere un grande Paese governato da vendicativi sbruffoni, assuefatti al risentimento. Ma essa dovrebbe rassicurare chi sa — ugualmente — che non si mettono mai in moto dei meccanismi se non quando lo si sa fare, in fin dei conti, senza effetto reale sul corso delle cose. E se Putin fosse una tigre di carta? Un Braccio di Ferro palestrato? Un ricattatore senza biscotti, che non correrà il rischio di compromettere le Olimpiadi invernali di Sochi? La Storia, naturalmente, esita. E non ci sono, in questi momenti di suspense, né soluzioni già pronte né decisioni senza rischi. A ciascuno, pertanto, la propria scommessa e il proprio partito. Il mio è che si possano soccorrere i civili siriani, salvare la credibilità e l'onore della comunità internazionale. E che questo non provochi l'apocalisse di cui veniamo minacciati.

Il FOGLIO - Matteo Matzuzzi : " Intervento sì o no? Le diplomazie dei cristiani del medio oriente si muovono preoccupate. E in ordine sparso "


Matteo Matzuzzi

Roma. “Ancora una volta, come nel caso dell’Iraq, gli Stati Uniti si comportano da giustizieri internazionali”, dice al sito Asianews il metropolita Hilarion, presidente del dipartimento per le Relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. “Ancora una volta, migliaia di vittime saranno sacrificate sull’altare di un’immaginaria democrazia. Primi fra tutti, i cristiani, che rischiano di diventare gli ostaggi principali della situazione e le principali vittime delle forze estremiste radicali, che con l’aiuto degli Stati Uniti andranno al potere”. E’ chiara la posizione della chiesa ortodossa russa riguardo la reazione annunciata lunedì dal segretario di stato americano, John Kerry, all’attacco con armi chimiche sferrato la scorsa settimana nella periferia di Damasco. Una posizione, tradizionalmente e prevedibilmente, succube alla linea politica della Russia e incapace di analisi più articolate della situazione dei cristiani mediorientali. A Mosca non vogliono sentire ragioni: l’attacco, grande o piccolo che sia, più o meno esteso, con o senza mandato Onu, non s’ha da fare. A Roma, invece, le posizioni sono più sfumate. I toni meno perentori di quelli usati da Hilarion. Certo, l’Osservatore romano lunedì denunciava come “le voci di un intervento armato dei paesi occidentali si stiano facendo sempre più insistenti e meno frenate da doverosa prudenza”, e il patriarca di Antiochia dei maroniti, il cardinale Béchara Boutros Raï, continua a scongiurare interventi in Siria, perché “a pagare il prezzo più alto sarebbero sempre i cristiani”. Il copione, aggiungeva qualche giorno fa a Radio Vaticana il porporato libanese, è il solito: “Quando si verifica il caos o quando c’è una guerra, in generale i musulmani si scatenano contro i cristiani, come se i cristiani fossero sempre il capro espiatorio”. Un esempio? Si guardi “all’Egitto, dove sono stati i Fratelli musulmani ad attaccare le chiese dei copti e i copti stessi”. Il problema, diceva Raï, “è la mentalità di certi musulmani, che attaccano i cristiani senza nemmeno sapere il perché”. Eppure, nella realtà cattolica, non tutti sono disposti a mantenere un profilo prudente, in attesa degli eventi e degli sviluppi decisi dalle cancellerie. Lo dimostra l’intervento duro – e in qualche modo inusuale per un diplomatico – del nunzio a Damasco, mons. Mario Zenari: “Io in questi ultimi giorni, vedendo quelle terribili immagini che ci hanno tutti sconvolti, sentivo il grido di questi bambini, di queste vittime innocenti, questo grido verso il Cielo e un grido verso la comunità internazionale. Non possiamo rimanere muti così, di fronte a questo grido, a questo appello”, spiegava a Radio Vaticana Zenari. “Dobbiamo fare in modo che non si ripetano mai più, mai più!, questi crimini, questi massacri. La comunità internazionale deve fare di tutto perché non si vedano più queste immagini che ci hanno sconvolto”. A ogni modo, spiega il nunzio in Siria, “bisogna trovare i mezzi più adatti e più opportuni, che non complichino la situazione”, ma è chiaro che “qui la gente è stufa”. Calma, predica invece da Ginevra l’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu: “Mi pare che per arrivare a una giusta soluzione si debba evitare una lettura parziale della realtà della Siria e del medio oriente in generale. Ho l’impressione che la stampa e i grandi mezzi di comunicazione non considerino tutti gli aspetti che creano questa situazione di violenza e di continuo conflitto. Abbiamo visto in Egitto il caso dei Fratelli musulmani, dove l’appoggio indiscriminato a loro ha portato ad altra violenza. Ci sono degli interessi ovvi: chi vuole un governo sunnita in Siria; chi vuole mantenere una partecipazione di tutte le minoranze”, spiega mons. Silvano Maria Tomasi. Insomma, le posizioni non sono univoche. Da una parte il timore che una volta caduto Assad, la minoranza cristiana si trovi alla mercé dei gruppi integralisti islamici. Dall’altra, la convinzione che così non si possa più andare avanti. Dopotutto, da vent’anni – nel 1993 Giovanni Paolo II scrisse una lettera all’allora segretario generale dell’Onu, Boutros Boutros Ghali, in cui si sottolineava che “l’autorità del diritto e la forza morale dell’Onu costituiscono le basi sulle quali si fonda il diritto d’intervento per salvaguardare la popolazione presa in ostaggio dalla follia mortale dei fautori della guerra” – il Vaticano ha ammesso la liceità dell’intervento umanitario, benché i dubbi sulla sua attuazione siano ancora laceranti. Oggi serve equilibrio, diplomazia, anche nei toni. Papa Francesco lo sa, e per questo reitera in ogni circostanza pubblica gli appelli perché “cessi il rumore delle armi” e perché “la comunità internazionale si dimostri più sensibile” a quanto avviene in Siria. Un messaggio che guarda anche all’Egitto, alla situazione dei copti guidati dal patriarca Tawadros II, che lo scorso maggio è stato ricevuto in Vaticano da Bergoglio. In quella circostanza non sfuggì l’estrema prudenza usata dal Pontefice nel suo saluto all’ospite giunto a Roma. Si evitò ogni riferimento all’attualità, agli incidenti seguiti alla caduta di Hosni Mubarak due anni fa. E così oggi, con riferimento agli incidenti del Cairo dopo la deposizione di Morsi e all’evoluzione della crisi siriana. Il Papa non rinuncia a fare la sua parte. Non gli bastano i rapporti che ogni mattina gli vengono recapitati sul tavolo di lavoro, ma vuole farsi un’idea diretta su ciò che sta accadendo, sulle mosse della diplomazia e le posizioni dei paesi arabi coinvolti. Di certo, giovedì prossimo chiederà informazioni e sostegno al re giordano Abdallah II, che incontrerà per la prima volta in Vaticano.

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