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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Libero Rassegna Stampa
23.08.2013 Egitto: meglio una dittatura militare che una teocrazia
commenti di Bret Stephens, Giulio Meotti. Intervista all'ambasciatore Kamal Helmy di Simona Verrazzo

Testata:Il Foglio - Libero
Autore: Bret Stephens -Simona Verrazzo - Giulio Meotti
Titolo: «L'alleanza con i generali - Italia muta di fronte alle chiese distrutte - Servirebbe un Atatürk»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/08/2013, a pag. II, l'articolo di Bret Stephens dal titolo " L'alleanza con i generali ", l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Servirebbe un Atatürk ". Da LIBERO, a pag. 16, l'intervista di Simona Verrazzo a Kamal Helmy, ambasciatore d'Egitto in Italia dal titolo " «Italia muta di fronte alle chiese distrutte» ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Bret Stephens : " L'alleanza con i generali "


Bret Stephens         Abdel Fatah el Sisi

Per quanto riguarda l’Egitto: lo scopo del governo americano è semplicemente quello di assumere un atteggiamento scontroso? O forse intende anche sostenere una politica in merito? Un atteggiamento scontroso “deplora la violenza” e pospone un’esercitazione militare, come ha fatto il presidente Barack Obama da Martha’s Vineyard. Un atteggiamento scontroso informa in modo inflessibile l’esercito egiziano, come ha fatto il senatore Lindsey Graham (repubblicano della South Carolina), che “sta portando l’Egitto lungo un sentiero oscuro, un sentiero che gli Stati Uniti non possono e non devono percorrere con loro”. Un atteggiamento scontroso richiede la sospensione degli aiuti statunitensi all’Egitto, così come tutti hanno fatto, da Rand Paul (repubblicano del Kentucky) a Patrick Leahy (democratico del Vermont). Un atteggiamento scontroso è qualcosa di meraviglioso. Una vanità di cui rendere conto alla coscienza. Ma tale atteggiamento non giustifica ciò che fanno gli Stati Uniti riguardo all’Egitto una volta che il dito è stato puntato e l’aiuto ritirato. Quando l’Egitto deciderà di comprare degli Su-35 dalla Russia (finanziata dall’Arabia Saudita), e si offrirà come cliente a Vladimir Putin perché l’Amministrazione Obama ha interrotto la fornitura di F-16, Graham deciderà di prendersela anche con la Russia? Forse sì. La nostra già diminuita influenza sull’Egitto potrebbe presto diventare nulla, ma almeno le nostre mani resterebbero pulite. Oppure potremmo decidere di avere una politica a riguardo, cosa che non è mai meravigliosa. Infatti è un insieme di scelte pragmatiche fra alternative sgradite atte a raggiungere il risultato realistico più desiderabile.
Cosa si può definire realistico e desiderabile? Rilasciare il deposto presidente Mohammed Morsi e gli altri leader della Fratellanza imprigionati potrebbe essere realistico, ma non è desiderabile – a meno che non pensiate che Aleksandr Kerensky sia stato intelligente a rilasciare i bolscevichi imprigionati dopo la fallita insurrezione del luglio 1917. Restaurare ciò che si stava trasformando in dittatura, cioè il governo eletto di Morsi, non è né desiderabile né realistico – a meno di pensare che i milioni di egiziani scesi in strada a protestare a giugno e luglio per domandarne la cacciata non capissero nulla. Portare la Fratellanza all’interno di una qualche coalizione inclusiva di governo, nella quale accetti un ridotto ruolo politico in cambio di una cancellazone dei suoi sit-in e delle sue dimostrazioni potrebbe essere desiderabile, ma è realistico quanto far lavorare assieme una mangusta e un cobra per il bene dei topi. Ciò che è realistico e desiderabile è che l’esercito abbia successo nel suo confronto con la Fratellanza, nel modo più veloce e convincente possibile. La vittoria permette di essere magnanimi. Dona all’egiziano medio la possibilità di ritornare a una vita normale. Agisce da deterrente verso possibili sfide politiche e militari. Permette a un governo di civili nominati di assumere un ruolo politico prominente. Appiana il panorama diplomatico. Permette di far capire ai paesi confinanti qual è la situazione reale. E sconfigge ogni altra alternativa. Alternativa numero 1: un percorso in discesa che porta dritti verso una guerra civile totale, che ricorda l’Algeria degli anni Novanta. Alternativa numero 2: la vittoria della Fratellanza, desiderosa di vendetta, che ripagherebbe con gli interessi i suoi nemici politici per i danni subiti. Ciò non varrebbe solo per Abdel Fattah al Sisi e i suoi luogotenenti, ma anche per ogni direttore, parlamentare, leader religioso, uomo d’affari o poliziotto che sia identificato come oppositore della Fratellanza.
Una domanda per Graham, Leahy e Paul: in che modo gli interessi umanitari, regionali, egiziani o americani, trarrebbero giovamento da uno qualsiasi di questi scenari? L’altro giorno il senatore Paul si è fermato negli uffici del Wall Street Journal a New York e ha sottolineato la sua opposizione a qualsiasi politica americana in Siria che vada contro gli interessi dei cristiani di quella regione. Cosa pensa possa accadere ai copti egiziani, che hanno dimostrato aperta simpatia nei confronti del generale al Sisi, se vincesse la Fratellanza? Ovviamente si può ribattere che la repressione brutale dei militari dia nuovo vigore alla Fratellanza. Forse. Ma è possibile anche che una politica di contenimento dia coraggio alla Fratellanza. I militari hanno ritenuto che la seconda possibilità fosse più probabile della prima. Questo può essere un errore, ma quanto meno si basa su una conoscenza più approfondita del modo nel quale pensano gli egiziani rispetto ai soliti cliché occidentali sulla violenza che causa sempre altra violenza. Si può anche ribattere che dato che il generale al Sisi non ha seguito il nostro consiglio nonostante 1,3miliardi di dollari di aiuti economici da parte nostra, potremmo anche ritirarli. Ma perché dovremmo aspettarci che accolga un cattivo consiglio? La politica in Egitto è un gioco a somma zero: o vince l’esercito o vince la Fratellanza. Se gli Stati Uniti vogliono conservare la loro influenza, devono turarsi il naso e prendere posizione. Ora come ora, le persone che più sono convinte che Obama sia segretamente musulmano non sono mamme-grizzly del Tea Party. Sono i secolaristi egiziani.
Per persuaderli che non è così, il presidente dovrebbe considerare di compiere alcuni passi per sostenere un governo che i secolaristi giustamente considerano la loro salvezza. Il generale al Sisi può anche non aver bisogno di F-16 nuovi fiammanti, ma tenute antisommossa, gas lacrimogeno, proiettili di gomma e pistole Taser potrebbero aiutare, specialmente per prevenire quei bagni di sangue cui il mondo ha assistito la scorsa settimana. Sarebbe bello vivere in un mondo nel quale si possa portare avanti una politica estera che miri alla realizzazione dei nostri sogni – pace in Terra santa, un mondo senza armi nucleari, democrazia liberale nel mondo arabo. Una politica estera migliore sarebbe portata avanti per mantenere lontani i nostri incubi: fermare la scommessa iraniana con il nucleare, evitare che le armi chimiche siriane finiscano nelle mani dei terroristi, e tenere la Fratellanza lontana dal potere in Egitto. Ma questo richiederebbe un’Amministrazione che conosca la differenza fra un atteggiamento e una politica.

LIBERO - Simona Verrazzo : " «Italia muta di fronte alle chiese distrutte» "


a destra, Kamal Helmy

Ex ambasciatore in Corea del Sud e in Irlanda, Amr Mostafa Kamal Helmy da marzo è alla guida della sede diplomatica di Roma, nella splendida cornice di Villa Ada. È lì che concede l’intervista a Libero e ci spiega cosa sta succedendo nel Paese e, soprattutto, che cosa ancora non viene raccontato. Ambasciatore, in questo momento così difficile per l‘Egitto le sue prime parole per chi sono? «Per le potenze occidentali, che hanno condannato l’usodella violenza dei militari ma non quello dei Fratelli musulmani: sono loro che hanno dato fuoco a oltre 50 chiese, di tutte le confessioni cristiane, copte e cattoliche».
Lei come se lo spiega?
«Con un grandissimo errore nell’informazione: non viene raccontato quello che in realtà sta succedendo. I musulmani, quelli veramente moderati, hanno difeso chiese, case, negozi dei cristiani mentre i Fratelli musulmani li assalivano. Le potenze occidentali non hanno condannato quelle azioni neppure dopo la presa di posizione contro la Fratellanza dello sceicco di Al Azhar, massima autorità religiosa sunnita ».
Quindi buona parte di quello che sappiamo sta succedendo in Egitto non sarebbe vero?
«Non viene raccontato tutto: l’Egitto, in questo momento, sta combattento contro un movimento che è di stampo estremista, perchè vuole distruggere, un movimento che ha vinto le elezioni ma poi ha forzato la legge per cambiare la politica, l’eco - nomia, la società, la cultura del Paese. Si riferisce all’accentramento dei poteri?
«Certo. Non si è fatta la rivoluzione per dare più forza a un singolo movimento ma per incamminare il Paese verso la democrazia. La popolazione è scesa per strada tra fine giugno e l’inizio di luglio perchè le sue aspettative sono state disattese».
Ora come intende rispondere il nuovo governo alle attese dei cittadini? «Con un pacchetto di riforme economiche e sociali, con l’obiettivo di non alzare le tasse».
Con quali risorse finanziarie?
«All’Egitto è arrivata la fiducia di tre paesi del Golfo Persico, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, che hanno inviato aiuti per miliardi di dollari».
Sono gli aiuti che sostituiranno quelli dell’Occidente?
«Questo è un altro errore. Avere un Egitto stabile, che cresce economicamente, è un vantaggio anche per l’Occidente, a cominciare dall’Europa».
E i rifornimenti di armi?
«Bloccare le forniture di armi significa fare un favore ai Fratelli musulmani. Così i poliziotti e i militari non possono difendere la popolazione e anche i suoi tesori archeologici. Chi pensa che abbia assaltato la biblioteca di Alessandria? I civili da soli non possono proteggere musei o chiese».
E l’uso della violenza da parte di polizia ed esercito che ha disorientato l’occidente?
«E io le rispondo con un’altra domanda. Perché l’occidente ha condannato quanto è successo nelle piazze El Nahda e Rabaa el Adawiya e non la morte di decine di poliziotti nell’attacco a un loro bus nel Sinai pochi giorni fa? Nessuno sa cosa succede veramente al Cairo…».
Cosa succede?
«Amnesty International, il 2 agosto, ha denunciato che ci sono prove che i sostenitori di Morsi hanno ucciso e torturato i loro oppositori. Il comunicato parla anche di donne violentate proprio nel corso delle manfestazioni in suo sostegno».
Eppure è molto strano vedere ora incarcerati Morsi e liberato l’ex rais Mubarak…
«Ma perchè si parla di liberazione? Mubarak non è libero: è stato trasferito in un ospedale militare. Ha molte accuse a suo carico e riprenderanno altri processi a suo carico. Non è libero per la giustizia egiziana, non può lasciare il Paese». Riuscirà l’Egitto a uscire da questo periodo così difficile? «Certo, ma con l’aiuto di tutte le anime della sua popolazione. L’Egitto è un paese grande, complesso. Si possono avere idee diverse, ma bisogna lavorare tutti insieme, pacificamente».

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Servirebbe un Atatürk "


Atatürk

Qualcuno ha scritto che l’11 settembre è nato nelle galere del Cairo, dove nel 1949 la monarchia semicoloniale egiziana giustiziò il fondatore della Fratellanza musulmana, Hassan al Banna. Il suo messaggio era il califfato e il rifiuto del modello occidentale laico e democratico. “E’ nella natura dell’islam dominare, anziché essere dominato, imporre la propria legge a tutte le nazioni e allargare il proprio potere all’intero pianeta”, proclamò al Banna. Nel giro di pochi anni, i Fratelli s’erano diffusi in tutto il paese, e poi in tutto il mondo arabo, piantando i semi della futura rivolta islamica e del terrorismo qaidista. Aprirono scuole, ambulatori, moschee, gli uomini iniziarono a farsi crescere la barba, le donne a portare il velo. Un ciclo di martirio che si è tragicamente rimesso in moto la scorsa settimana, quando il nipote di al Banna, Khaled Fernas Abdel-Basit, è stato ucciso negli scontri al Cairo fra i Fratelli e la giunta militare del generale al Sisi, che ha deposto il presidente islamico Mohammed Morsi. Stessa sorte per il figlio del leader della Fratellanza, Mohammed Badie. Le classi dirigenti occidentali dovrebbero leggere il fallimento dell’islam politico in Egitto come il grande paradigma di una nuova fase dopo l’11 settembre. L’America e l’occidente hanno un diretto interesse nel progresso del medio oriente, perché in quella regione è in gioco la sicurezza di tutti. Il dilemma è sempre stato come fornire a quelle popolazioni un’idea concorrenziale rispetto a quella di tenersi dittatori corrotti e foraggiatori di instabilità. Dopo l’11 settembre, dopo che il jihad ha colpito la nazione egemone del mondo libero, gli Stati Uniti hanno sradicato due regimi odiosi e fuorilegge, il Baath iracheno e i talebani del Mullah Omar. Si partì dai paesi in cui un’azione di forza era storicamente doverosa e possibile, da un regime come quello di Saddam Hussein, sterminatore degli arabi delle paludi, invasore di paesi limitrofi, finanziatore del terrorismo, reo di aver aperto fosse comuni e di voler distruggere Israele. L’idea era che la democrazia non potesse fiorire da sola nel giardino dell’islam, ma che bisognasse innestarcela con baionette e nation building. La strategia di diffusione della democrazia tramite i carri armati era l’unica in campo. Come alternativa non c’era la pace, ma la guerra con i carri armati guidati da Saddam. Tuttavia, a questo programma robusto e armato in Europa si rispose con il rifiuto ideologico di menzionare parole come “civiltà” e “guerra” per non sciupare il sogno pacifista. Fra risposte irenistiche e infingimenti apologetici, edulcorazione e minimizzazione, la sola risposta politica all’unilateralismo fu la campagna ipocrita alle Nazioni Unite di Dominique de Villepin, il ministro degli Esteri della “chiracchìa” che si atteggiò a difensore della ragione, della prudenza e della legge internazionale contro un’America arrogante, sconsiderata, irragionevole. Poi c’era l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che si accingeva a diventare un alto impiegato dell’impero petrolifero putiniano. E proprio in Iraq, fra segni di speranza costituzionalista e drammi settari, le piazze arabe sono insorte davvero e hanno votato “Zarqawi go home”, smentendo il partito dei menagramo. Il giorno dopo il voto a Baghdad in molti elogiarono le file ai seggi con le donne sorridenti che mostravano le dita inchiostrate. Ma la vera gloria di quelle elezioni è che furono l’esportazione pura e semplice di un modello culturale occidentale, estraneo alle radici della cultura islamica fondamentalista, che le considera “blasfeme” secondo i suoi principi. La democrazia in Iraq è stata il prodotto della cacciata a colpi di bombe di Saddam, del lavoro sporco della Coalition Provisional Authority, della messa in mora dell’Onu e dell’accettazione della divisione dell’occidente. Nella guerra fra chi voleva tagliare le teste e chi voleva contarle nelle urne, tra chi voleva la dittatura dei versetti coranici e chi voleva coltivare la fede islamica in uno stato pluralista e non confessionale, tra chi esigeva di nascondere le donne sotto veli di feroce misoginia e chi voleva pari diritti per Marte e Venere, tra chi amava la morte più della vita e chi difendeva la vita rischiando la morte, questa guerra è stata certamente vinta dai secondi. Quella fase strategica e difficile si è chiusa fra successi e fallimenti (come il mancato riconoscimento di Israele da parte del nuovo governo iracheno). Ma come ha spiegato Kanan Makiya sul New York Times (e poi in una intervista sul Foglio), proprio la guerra in Iraq ha aperto la strada delle “primavere arabe”. Così gli ipocriti che erano stati contro la guerra preventiva ma avevano esaltato le prime elezioni della storia irachena, quelli che dissero che dal voto potevano nascere solo “dittature della maggioranza”, hanno scommesso sull’islam politico, sull’idea, coltivata dagli arabisti dentro e fuori la Casa Bianca, che la democrazia debba essere affidata a un ramo dell’islam politico, i Fratelli musulmani (nel 2007 Foreign Affairs, organo dell’establishment americano di politica estera, chiese di avviare un dialogo con i Fratelli sulla base della loro “evoluzione non violenta”). Un abbaglio dietro cui si celava il comando totalitario della moschea sulle comunità e un militantismo clericale che ha sempre avuto un programma feroce: “La società deve essere basata sui principi dell’islam”. La primavera araba si è dimostrata un tragico fallimento: l’Egitto è sotto coprifuoco militare, in Tunisia si giustiziano per strada i politici laici, la Libia è succube di una guerra fra tribù, la Siria sembra uscire da un quadro di Bosch. Il regime di Hosni Mubarak era stato, per usare le parole del consigliere di Yitzhak Rabin, Eitan Haber, “l’ultimo ostacolo allo tsunami islamista”. Mubarak aveva collocato l’Egitto nell’orbita occidentale, si era schierato contro Saddam e l’Iran di Khomeini, aveva siglato un trentennale patto di pace con Israele, era scampato a sei complotti di assassinio islamista e nel 1995 era stato l’unico leader arabo, assieme al re giordano Hussein, a partecipare ai funerali di Rabin. Non era poco in medio oriente. L’immagine di Mubarak che tende la mano a Leah Rabin resterà per sempre. Eppure le proteste arabe erano nate da un legittimo malcontento verso regimi secolaristi che avevano creato nepotismo, corruzione, stagnazione. Ma Bernard Lewis, uno di quelli che ha scommesso sulla possibilità di coniugare Corano e voto nell’urna, le aveva per tempo definite “rivoluzioni popolari non democratiche”, in cui chi cercherà di approfittarne sarà l’islamismo, che vuole la leadership del mondo arabo dopo mezzo secolo di nazionalismo laicista e di patti con l’occidente. Piuttosto è stato il ritorno al 1979, con il crollo dei fautori della pace con Israele e dell’alleanza con gli Stati Uniti, neo isolazionisti con Obama, e con società governate dalla sharia che chiedono “democrazia” in chiave plebiscitaria (“una testa, un voto, una volta sola”). Eccola la grande lezione iraniana, la questione irrisolta dopo l’11 settembre da parte delle due Amministrazioni Bush e Obama. Teheran non è un corrotto fortilizio oligarchico, ma una democrazia plebiscitaria di massa e assieme una teocrazia governata dalla sharia. Khamenei non è il re Saud, un rentier post coloniale che custodisce i luoghi santi dell’islam e fa il doppio gioco. Khamenei è al vertice di una Rivoluzione degli “incorruttibili”, l’imamato in cui è ancora molto salda la consistenza, forse più che maggioritaria, del blocco sociale, religioso e ideologico che tiene in piedi il regime. Il khomeinismo, a differenza dell’Unione sovietica, ha una “legittimità” nel fatto che il regime non è frutto di un golpe, ma l’erede di una rivoluzione. Maxime Rodinson ha scritto che la creazione di Khomeini è “al tempo stesso banale ed eccezionale”. Banale come ogni rivoluzione. Eccezionale perché, nel XX secolo, Khomeini e i suoi hanno saputo coniugare rivoluzione e religione (in Europa non si vedeva nulla di simile dai Lumi). I Fratelli musulmani sono la versione speculare nel mondo sunnita. E mentre cercavano la legittimazione per via elettorale stavano approntando una dittatura in fieri. Per questo l’esercito egiziano, che ha una salda tradizione di autoritarismo panarabista, è intervenuto. “I Fratelli musulmani e gli islamisti vogliono imporre un ordine internazionale anche attraverso la non violenza”, dice al Foglio l’islamologo americano Daniel Pipes. “Questo li ha resi più ‘accettabili’, ma gli obiettivi sono gli stessi: l’egemonia totalitaria, la brutale distruzione di vite umane e la sottomissione di donne e non musulmani. Gli islamisti considerano la democrazia come il mezzo principale per promuovere i loro programmi. Si servono delle leve statali per soddisfare i loro fini”. Da Teheran al Cairo, la guerra intestina e fatale fra pietà ultra religiosa e ambizione ultra moderna appare inevitabile. Secondo Roger Scruton il problema è culturale. “Il giudeo-cristianesimo ha riconosciuto che il governo della società umana è un compito puramente umano, e ha considerato il cristiano come ‘un servo di Dio’ e allo stesso tempo come il cittadino dell’ordinamento secolare. Anche la concezione illuminista del cittadino, che lo considera unito in un libero contratto sociale con gli altri cittadini sotto uno stato di diritto laico e tollerante, deriva dall’eredità cristiana. Questa visione è in totale contrasto con quella del Corano, secondo il quale la sovranità è soltanto nelle mani di Dio e del suo Profeta, e l’ordine legale si fonda sul comando divino. Questo ha finora reso del tutto impossibile l’idea di una democrazia islamica”. Si affaccia allora il modello turco, pur anch’esso sotto pressione islamizzatrice (nella Turchia di Erdogan sono state costruite 17 mila moschee). Anche a Istanbul l’originale formula della laicità protetta dalla cultura dell’esercito è alla prova della libertà di religione nell’epoca del conflitto tra civiltà. E anche lì, come in Egitto, il paradosso è che nella misura in cui la Turchia si democratizza è destinata ad abbandonare la laicità. Tuttavia in Turchia il sistema incentrato sulla sovranità popolare, sulla libertà di pensiero, sulla separazione tra stato e chiesa, è stata resa possibile proprio grazie al fatto che un geniale “apostata”, il generale Mustafa Kemal Atatürk, che strappò con le maniere forti la Turchia all’Asia per consegnarla all’Europa, chiuse gli harem, abolì la poligamia, diede battaglia a barbe e baffi, emancipò la donna spogliandola dei veli e fornendola di scheda elettorale, introdusse l’alfabeto a base latina, rinsaldò le istituzioni repubblicane, ma soprattutto spazzò via il califfato e al suo posto installò una Costituzione occidentale. Per dirla con Atatürk: “Din insân ilay Allah arasinda bir ishtir”, la religione è una questione tra Dio e l’uomo. Solo in questa chiave esisterà democrazia nel mondo islamico. Dal vicolo cieco della dittatura in turbante si esce, purtroppo, con il conflitto e la guerra interna all’islam, non con Twitter, le ong o Speakers’ Corner.

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