lunedi` 12 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
21.08.2013 Egitto: l'Occidente sbaglia a schierarsi con Morsi contro i militari
Cronache e interviste di Fausto Biloslavo, Viviana Mazza, Paolo Mastrolilli, Claudio Gallo, Giulio Meotti

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Fausto Biloslavo - Viviana Mazza - Paolo Mastrolilli - Claudio Gallo - Giulio Meotti
Titolo: «Così l’Occidente trasforma Al Sisi in un eroe - Siamo pragmatici, la democrazia può attendere - Ankara attacca, Riad sgomita. Le alleanze americane nel caos - Badie, il leninista islamico che sogna la jihad globale - Dopo 1.600 anni le campane delle chies»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 21/08/2013, a pag. 14, l'intervista di Fausto Biloslavo a Wael Faruk dal titolo " Così l’Occidente trasforma Al Sisi in un eroe ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'intervista di Viviana Mazza a Charles Kupchan dal titolo " Siamo pragmatici, la democrazia può attendere". Dalla STAMPA, a pag. 11, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Ankara attacca, Riad sgomita. Le alleanze americane nel caos ", preceduto dal nostro commento, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Badie, il leninista islamico che sogna la jihad globale ". Dal FOGLIO, a pag. 2, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Dopo 1.600 anni le campane delle chiese sono di nuovo mute in Egitto ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Così l’Occidente trasforma Al Sisi in un eroe"


Wael Faruq

Wael Faruq, ospite d’onore del Meeting di Rimini è un docen­te musulmano di lingua araba al­l’università americana del Cairo, in visita alla Cattolica di Milano. Intellettuale e rivoluzionario del­la prima ora ha le idee chiare sui cambiamenti in Egitto.
L’arresto di Mohammed Ba­die, leader dei Fratelli musul­mani, fermerà le proteste?
«No. I Fratelli puntano sulla pressione internazionale sul­l’Egitto e non vogliono nuove ele­zioni per timore di ridare voce al popolo. Loro sanno che in un an­no di governo di Mohammed Morsi si sono inimicati la stra­grande maggioranza degli egizia­ni. Questa è la ragione che ci ha portati di nuovo in piazza contro il potere della Fratellanza».
Lei è musulmano. Come giudi­ca la reazione di piazza alla de­stituzione di Morsi?
«I Fratelli musulmani hanno mostrato il loro fascismo religio­so. Se il tuo presidente viene co­stretto ad andarsene da milioni di egiziani non ti scateni contro gli edifici governativi e nella caccia ai cristiani o bruciando le chiese. Oggi c’è violenza in Egitto sia per mano dell’esercito, che da parte della Fratellanza, ma l’odio che l’ha provocato deriva dalle scelte di Morsi dell’ultimo anno».
Ottanta fra chiese, scuole ed istituti cristiani sono stati at­taccati. È una vendetta?
«È il frutto di una propaganda costante del partito Giustizia e li­bertà dei Fratelli musulmani. Pos­so elencare i nomi di chi in que­st’ultimo anno ha accusato i cri­stiani di cospirazione contro lo stato islamico. Ringrazio Dio che adesso sono fuori gioco».
Non pensa che la repressione, con circa 1000 morti, sia stata terribilmente sanguinosa?
«Sono d’accordo, ma i soldati sono mal addestrati e si tratta in gran parte di ragazzi senza alcu­na istruzione. L’alto numero di vittime è stato provocato da que­ste carenze strutturali. Non so­stengo l’esercito, ma sono ferma­mente contrario al terrorismo e auspico nuove e libere elezioni che mostrino il vero volto del­l’Egitto ».
Cosa pensa della possibile li­berazione dell’ex presidente Mubarak?
«È da due anni in prigione sen­za essere stato ancora condanna­to. Non può rimanere dietro le sbarre per sempre. Senza una pe­na il tribunale è obbligato a rila­sciarlo ».
Dopo la morte in custodia del­la p­olizia di 36 attivisti dei Fra­telli musulmani, 24 agenti so­no stati «giustiziati» nel Sinai.
È lo spettro siriano che avan­za?
«Morsi ha fatto rilasciare centi­naia di terroristi. Il Sinai è fuori controllo, rifugio di Al Qaida. I Fr­a­telli musulmani propagandano il rischio della guerra civile, ma non penso sia realistico».
Come giudica la reazione del­l’Occidente e dell’Italia davan­ti agli ultimi avvenimenti?
«Quando i Fratelli musulmani hanno preso il potere, molti in Eu­ropa pensavano che lo avrebbero tenuto per decenni e si sono di­menticati di noi. Ho conosciuto Emma Bonino, prima che diven­tasse ministro degli Esteri, quan­do er­a venuta al Cairo per difende­re i diritti delle donne egiziane. Le stesse donne hanno perso i loro diritti in un solo anno sotto Morsi. La signora Bonino, però, è rima­sta in silenzio. Perché? Non solo io, ma la maggioranza degli egizia­ni è profondamente sorpresa dal doppio standard dell’Unione Eu­ropea e degli Stati Uniti. Di fronte alle violazioni dei nostri diritti da parte di Morsi, la comunità inter­nazionale ci ha abbandonato. E adesso protesta per la rivolta con­tro i Fratelli musulmani».
Il generale Abdel Fattah Al Si­si, che ha destituito Morsi, sa­rà il prossimo Rais?
«Non sono un fan dei militari o di Al Sisi, ma chi l’ha trasformato in eroe? Le pressioni degli Usa e della Ue. E se verranno applicate sanzioni sarà punito il popolo egi­ziano, non i militari, ma Al Sisi ri­sulterà sempre più un eroe. L’Eu­ropa sta facendo esattamente l’opposto di quello in cui spera. Con la pressione sull’Egitto il ge­nerale diventerà un secondo Nas­ser democraticamente eletto».

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Siamo pragmatici, la democrazia può attendere "


Charles Kupchan

«La democrazia può aspettare in Egitto». L’ha scritto, sul New York Times Charles Kupchan, professore di studi internazionali all’Università di Georgetown, autore di «Come trasformare i nemici in amici» (Fazi) e di «No One’s World. The West, the Rising Rest and the Coming Global Turn» (e Gideon Rachman è giunto a simili conclusioni sul Financial Times ). «Non si tratta di un invito all’isolazionismo», spiega Kupchan al Corriere , ma è piuttosto un appello al «pragmatismo nella politica estera americana<. Nel caso egiziano, lo studioso sostiene che «chiedere all’esercito di lasciare il potere e indire le elezioni, come ha fatto Obama, non porterà affatto a essere ascoltati ma solo a una perdita di influenza per gli Stati Uniti. La diplomazia americana otterrebbe invece risultati più efficaci lavorando con il generale Al Sisi e con altri nel governo egiziano per ricostruire l’economia e spingere al rispetto dei diritti umani».
Non è una scusa per non fare nulla mentre l’esercito reprime gli islamici?
«Penso che, al contrario, sia una strategia per evitare di non far nulla. Se guardiamo alla realtà in bianco e nero, o democrazia liberale o niente, finiamo per mollare. Invece questa è una prospettiva che cerca di aiutare le autocrazie a trasformarsi in modo graduale in governi responsabili. In questo modo gli Stati Uniti avranno una maggiore influenza nella regione, oltre che un intervento più efficace».
Lei suggerisce di privilegiare gli interessi americani anziché gli ideali di democrazia?
«Suggerisco il pragmatismo, c’è bisogno di bilanciare il lato morale e idealista dell’equazione con quello realista e basato sugli interessi. Questo è un dilemma che gli Stati Uniti si trovano periodicamente ad affrontare, è la tensione tra idealismo e realismo in politica estera. Accadde in Iran con la rivoluzione del 1979: c’erano coloro che suggerivano di appoggiare lo Scià e di tollerare la repressione per proteggere gli interessi americani, e chi invece sosteneva che bisognava puntare i piedi e aiutare le forze della democrazia. Ebbene la rivoluzione ha portato a un lungo periodo di conseguenze negative per gli interessi americani. Anche adesso Obama si trova di fronte a un dilemma: e la posta in gioco è alta, include il diritto di sorvolo del territorio egiziano e il passaggio navale da Suez, la lotta all’estremismo nel Sinai, il rapporto tra blocco sunnita e sciita, il trattato di pace con Israele. La lista è lunga ed è per questo che Obama sta faticando a trovare il giusto equilibrio di condanna e punizione senza rompere i rapporti. A volte i politici americani tendono ad essere un po’ ingenui sulle difficoltà della transizione verso la democrazia. Gli Stati Uniti hanno già fatto questo errore in passato. Ma la democrazia non può essere imposta, deve essere coltivata dal basso».
Come ci si assicura che la transizione vada nella giusta direzione?
«Non c’è modo per esserne sicuri. L’ultimo decennio e le primavere arabe ci hanno insegnato che la nostra capacità di influenzare il corso degli eventi è in realtà piuttosto limitata, a partire dall’Egitto e dalla Tunisia. E dunque gli Stati Uniti dovrebbero essere attenti a fare il passo più lungo della gamba, come insegnano l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia dove l’intervento ha portato a un lungo e profondo coinvolgimento in situazioni difficili».
Dunque l’intervento in Libia è stato sbagliato? Lo paragona all’Iraq e all’Afghanistan?
«Io ero contrario all’intervento in Libia. Devo dire che la missione della Nato, dal punto di vista militare, ha avuto successo e ha portato alla caduta di Gheddafi. Ma se ci chiediamo “Ne valeva la pena? Quali sono state le conseguenze a lungo termine?” allora diventa discutibile: pensiamo all’ambasciatore americano ucciso a Bengasi, che era stata la roccaforte dei ribelli, alle armi che circolano nel Paese. La Libia oggi non è stabile, è vicina ad essere uno stato fallito ed è un terreno fertile per l’estremismo. Iraq, Afghanistan e Libia sono situazioni diverse ma insegnano la difficoltà della transizione politica in Medio Oriente, anche perché include questioni come le fedeltà tribali e settarie, il ruolo della religione nella politica».
Lei ha sostenuto che l’Islam non è incompatibile con la democrazia. Lo crede ancora?
«Sì è quello che credo. Ma penso pure che la tradizione islamica che non vede distinzione tra moschea e stato, tra sacro e laico è un aspetto che questa regione dovrà affrontare per riuscire a incorporare questi due aspetti. La stessa cosa peraltro accade in Israele, che è una democrazia liberale e laica, ma dove c’è una profonda divisione tra comunità religiose e laiche a proposito del ruolo della religione».

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Ankara attacca, Riad sgomita. Le alleanze americane nel caos "


Recep Erdogan

Aggiungiamo una nota al pezzo. Quando Mastrolilli scrive " Proprio ieri Erdogan ha detto di avere le prove che Israele «è dietro al golpe», riferendosi a una conversazione in cui Tzipi Livni e Bernard-Henri Levy dicevano che la democrazia non sta solo nel voto " si riferisce al video girato durante un incontro sulle 'primavere arabe' tenutosi nel 2011 alla Tel Aviv University.
Ecco il pezzo:

Il mondo alla rovescia. La crisi egiziana mette a rischio le alleanze su cui gli Usa cercavano di ricostruire una parvenza di stabilità in Medio Oriente, dopo la «primavera araba», creando imbarazzo e confusione anche sul fronte interno.

Partiamo dai guai domestici, per allargarci poi a quelli internazionali. I neocon avevano spinto l’amministrazione Bush a diffondere la democrazia con ogni mezzo, inclusa la guerra in Iraq, e Michael Novak rivendica ancora oggi che «la primavera araba è stata un effetto di quella politica». C’è da chiedersi se l’effetto è stato positivo, però, considerando l’instabilità che travolge l’intero Medio Oriente. Ed è curioso notare che proprio il rivale repubblicano di Bush, John McCain, sostiene ora la necessità di adottare la linea dura contro i militari egiziani e tagliare gli aiuti, mentre analisti democratici come Charles Kupchan o Zbigniew Brzezinski invitano a passare dal moralismo al realismo, lasciando che l’esercito sconfigga i Fratelli musulmani.

L’amministrazione Obama non sarebbe certamente dispiaciuta di vedere gli islamici fuori gioco, anche se aveva fatto di necessità virtù, stabilendo un rapporto di collaborazione col governo di Morsi. Però aveva posto dei paletti: prima aveva chiesto proprio a Morsi di rendere democratico il suo esecutivo e dialogare con l’opposizione, quindi aveva sconsigliato il golpe ai militari, e una volta accaduto aveva sollecitato il generale Al Sisi a non infierire sui Fratelli musulmani, ricostruendo al più presto un governo civile. Nulla di tutto questo è avvenuto, anche perché gli alleati di Washington hanno fatto l’opposto di quanto si aspettava Obama. Arabia, Emirati e Kuwait, decisi ad eliminare la concorrenza del modello islamico egiziano, hanno promesso a Sisi di compensare qualunque riduzione degli aiuti Usa: 12 miliardi di dollari offerti, contro 1,5 degli americani, e discorso chiuso.

Nello stesso tempo Israele, pur non coordinandosi con l’Arabia, ha fatto capire che sta dalla parte dei militari, ad esempio con l’intervento dell’Aipac sui parlamentari repubblicani che proponevano il taglio degli aiuti al Cairo. Netanyahu ha appena accettato di tornare al negoziato con i palestinesi, e non si capisce perché dovrebbe favorire la conservazione in Egitto di un regime islamico alleato di Hamas. Dunque Stato ebraico sulla stessa linea di Arabia ed Emirati, che neppure lo riconoscono.

Lo scompiglio delle alleanze, però, è anche più complicato di così. Infatti Turchia e Qatar hanno lavorato insieme agli Usa per contrastare in Siria l’Iran, Hezbollah e gli sciiti che appoggiano Assad, ma in Egitto hanno difeso Morsi. Proprio ieri Erdogan ha detto di avere le prove che Israele «è dietro al golpe», riferendosi a una conversazione in cui Tzipi Livni e Bernard-Henri Levy dicevano che la democrazia non sta solo nel voto

Se questo non bastasse, la Russia sta attentamente alla finestra, pronta a sfruttare l’occasione per ristabilire la sua influenza al Cairo. Magari Sisi «comprerà gli Su-35 di Mosca, al posto degli aerei F16 americani, con i soldi offerti dall’Arabia», avverte l’editorialista del «Wall Street Journal» Bret Stephens.

Come se ne viene fuori? Per gli interessi americani il successo dei militari sarebbe la soluzione migliore, anche se significherebbe derogare ai valori di democrazia e libertà, a patto però di non provocare una guerra civile o generare una nuova ondata terroristica. Su questo, almeno, l’analista del Council on Foreign Relations Kupchan non ha dubbi: «Piuttosto che vedere la fine del monopolio autocratico come un’occasione per diffondere la democrazia, Washington dovrebbe ridimensionare le sue ambizioni e lavorare con governi di transizione per stabilire le fondamenta di un potere responsabile, anche se non democratico».

La STAMPA - Claudio Gallo : " Badie, il leninista islamico che sogna la jihad globale "


Mohamed Badie

Era l’ultimo giorno del gennaio 2011, in un vecchio palazzo slabbrato vicino alla pasticceria Groppi al Cairo si riuniva il Gotha dell’opposizione egiziana, mentre nella vicina piazza Tahrir i sanculotti stavano rovesciando Mubarak. Nell’emiciclo di boiserie e velluti che sembrava non essere mai uscito dal XIX secolo, vecchi tromboni liberali come Aymar Nour e il magnate nazionalista Rami Lakah, franco egiziano, greco-cattolico, discutevano con islamisti moderati come Magdi Hussein sul futuro di un paese che li ignorava.

A un certo punto arrivò un tizio con il fez, accompagnato da due armadi: era Mohammed Badie, leader dei Fratelli musulmani. Non faceva parte di quel ridicolo parlamento ombra, ma con la sua curata barba bianca salì su uno scranno, fece un breve discorso e se ne andò. Si capiva che quell’ometto dalla faccia sveglia non era un politico da operetta come quegli altri ma almeno aveva dietro qualcuno. Adesso, due anni dopo, in un mondo sempre più veloce, Al Badie ha già percorso un’intera parabola politica che lo ha portato dalla regia del potere alla prigione.

Le immagini che la crudele propaganda dei generali egiziani ha diffuso nell’etere mostrano un uomo ancora aggrappato alla dignità del suo ruolo ma umiliato. La polizia sa che mostrarlo come un vecchio fragile equivale a dire tacitamente che l’intera Fratellanza è indifesa come il suo leader.

Settant’anni, Badie è un veterano del movimento islamista. Nato in un centro del delta del Nilo dove il caldo è irrespirabile, sposato con tre figli, è professore part-time di veterinaria. Nella Fratellanza ha fatto carriera dalla gavetta, cominciando dalla sua città natale. Nel 1965 mentre in America si moltiplicano le marce contro il Vietnam, Nasser fa i conti con i Fratelli, messi fuorilegge fin dal ’48. Badie è arrestato insieme al leader di allora Sayyed Qutb e condannato a 15 anni di prigione.

Dopo nove anni, nel 1974, arriva la grazia del presidente Anwar el Sadat, l’uomo della pace con Israele, che sarà ucciso dal tenente islamista Khalid Islambouli durante una parata nel ’91. Teheran dedicherà all’assassino una via, vicino al ministero dell’Informazione. Nel frattempo Badie sale lentamente i gradini della gerarchia della Fratellanza. Nel 1994, già in era Mubarak, è arrestato per 75 giorni per aver partecipato a una società musulmana proibita.

Nel 2010 arriva al vertice, al posto di Muhammad Mahdi Akef. Mantenendo la linea politica ambiguamente moderata che ha permesso in qualche modo alla Fratellanza, proibita politicamente ma riconosciuta come associazione culturale, di fare politica sotto l’ultimo Faraone, ha espresso alcuni punti di vista radicali in politica estera. Sposando un tipo di retorica comune nel mondo islamico, ha accusato i »Paesi musulmani di evitare il confronto con l’«entità sionista» e gli Stati Uniti.

Le sue critiche, sulla stessa linea di Hamas, non hanno risparmiato l’Autorità palestinese che secondo lui ha svenduto la causa nazionale.

Anche quando il «suo» presidente Morsi è riuscito nel 2012 a mediare una tregua tra Hamas e Israele, ha detto che la pace con «i sionisti» era illusoria: i musulmani non avevano davanti a sé che la jihad. La sua visione politica appare quella di un leninista islamico che scende a patti tatticamente con il nemico senza accettare in realtà alcuna mediazione, aspettando pazientemente il momento di impadronirsi del potere. Proprio l’immagine che i generali egiziani vogliono dare dei Fratelli, anche se il movimento è certamente più complesso e stratificato, «un coacervo di partiti diversi», come ha detto qualcuno.

Mohammed Badie non è mai stato però il vero uomo forte della Fratellanza, Khairat al Shater (arrestato con lui), Mahmoud Ghozlan e Mahmoud Hussein e Mahmoud Ezzat (il suo successore) hanno contato più di lui nelle decisioni.

Il FOGLIO - Giulio Meotti : "Dopo 1.600 anni le campane delle chiese sono di nuovo mute in Egitto "

Roma. Mentre il leader di al Qaida Ayman al Zawahiri parla di “complotto copto contro Morsi”, un simbolo della cultura nazionale, le antiche chiese di Minya, per la prima volta non celebreranno la messa. “Non abbiamo officiato le funzioni religiose nel monastero per la prima volta in 1.600 anni”, ha detto padre Selwanes Lotfy al giornale al Masry al Youm. La chiesa è stata distrutta dai sostenitori del deposto presidente Mohammed Morsi. Sulla facciata dell’edificio qualcuno ha lasciato scritto: “Donatela alla moschea dei martiri”. Finora sono 58 le chiese assaltate o bruciate dai Fratelli musulmani e da altre formazioni islamiste. Il patriarca di Alessandria dei copti, Ibrahim Isaac Sidrak, ha fatto appello affinché l’esercito venga sostenuto in questa “lotta di tutti gli egiziani al terrorismo”. Per questo, aggiunge, la chiesa cattolica conferma il suo “sostegno” “alla polizia egiziana e alle Forze armate per tutti gli sforzi che stanno compiendo per proteggere il paese”. Il generale Abdel Fattah al Sisi, stratega del colpo di stato, ha ordinato all’esercito di ricostruire immediatamente le chiese distrutte dalla Fratellanza. Il Papa copto Tawadros II, che apparve al fianco del generale al Sisi durante l’annuncio della destituzione del presidente Morsi, da giorni è nascosto in una località segreta per timore di attacchi terroristici. Sulla pagina facebook della Fratellanza islamica giorni fa è apparso un proclama contro “la Repubblica militare del Papa copto Tawadros”. Presi di mira case, scuole, monasteri e negozi gestiti dai cristiani, da Suez a Minya, da Sohag ad Assiut. I luoghi dei cristiani sono marchiati con una “X” di colore nero, mentre i negozi dei musulmani con una “X” di colore rosso. Al termine degli scontri, gli edifici macchiati di nero sono stati distrutti, mentre sono rimasti illesi quelli di colore rosso. Dunque una operazione di “pulizia religiosa” preparata da giorni. La litania delle chiese attaccate e distrutte ormai si perde: San Giorgio, Santa Maria, Buon Pastore e Pentecostale a Minya; Santa Teresa, Chiesa della Riforma, Chiesa dell’Apostolo e di San Giovanni ad Assiut; Chiesa della Vergine Maria, Santa Damiana, San Giuseppe e Evangelica a Fayoum; Chiesa dell’Arcangelo Michele, Anglicana e le chiese ortodosse e francescane a Suez. Lo scorso luglio un cristiano è stato decapitato dagli islamisti e negli ultimi giorni si contano almeno sette morti confessionali fra i cristiani, compreso un tassista linciato a morte dalla folla. Il guru della Fratellanza, lo sceicco Yusuf al Qaradawi, ha dato formale approvazione agli attacchi contro i cristiani. In un video, Qaradawi dice che “i cristiani” sono stati “reclutati (dalla giunta militare, ndr) per uccidere musulmani innocenti”. E’ in corso un esodo della minoranza cristiana dal paese. Nel 2010, prima della cacciata di Hosni Mubarak, storico protettore dei copti, in 531 lasciarono il paese alla volta degli Stati Uniti. Nel 2012 sono stati 2.882. Il presidente deposto Morsi aveva consentito la costruzione di una sola chiesa, mentre Mubarak nel solo 2010 ne aveva consentite sedici. I video di questi giorni di attacchi e repressione mostrano chiese in fiamme e islamisti che si abbracciano e baciano, congratulandosi per lo scempio degli edifici degli “infedeli”. Nella città di Sohag, gli islamisti hanno issato una grande bandiera nera di al Qaida sulla chiesa di San Giorgio e giustiziato una coppia di cristiani, dopo aver chiesto loro la carta di identità, su cui per legge deve comparire la religione. La scuola francescana di Beni Suef, in Egitto, è stata data alle fiamme dagli islamisti, che hanno poi fatto sfilare tre suore per le strade come se fossero “prigioniere di guerra”, mentre la croce di fronte all’edificio veniva abbattuta e sostituita da una bandiera qaidista. Intanto, nella chiesa cattolica di Mallawi, la statua della Madonna veniva letteralmente decapitata.

Per inviare la propria opinione a Giornale, Corriere della Sera, Stampa e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti


segreteira@ilgiornale.it
lettere@corriere.it
lettere@lastampa.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT