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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.08.2013 Egitto: possibile la scarcerazione di Mubarak. Attentato in Sinai
cronache di Fiamma Nirenstein, Davide Frattini. Interviste di Claudio Gallo, Paolo Mastrolilli

Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Claudio Gallo - Paolo Mastrolilli - Davide Frattini
Titolo: «Retromarcia in Egitto, torna il Faraone - Passo verso la pacificazione se si apre anche agli islamisti - Scelta assurda dei militari. Si torna indietro di due anni - Agguato nel Sinai: trucidati 25 poliziotti. I timori di Israele»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 20/08/2013, a pag. 1-14, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Retromarcia in Egitto, torna il Faraone ". Dalla STAMPA, a pag. 9, l'intervista di Claudio Gallo a Jeremy Salt dal titolo " Scelta assurda dei militari. Si torna indietro di due anni ", l'intervista di Paolo Mastrolilli a Lawrence Korb dal titolo " Passo verso la pacificazione se si apre anche agli islamisti ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Agguato nel Sinai: trucidati 25 poliziotti. I timori di Israele ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Retromarcia in Egitto, torna il Faraone "


Fiamma Nirenstein

Il Medio Oriente può inventarsene di tutte, ma questa è fra le più stravaganti: Hosni Mubarak, l’ex dittatore egiziano, deposto da un’immensa rivolta popolare dopo trent’anni al potere nel febbraio del 2011, potrebbe essere messo in libertà durante la settimana. A comunicarlo sono stati i suoi avvocati che hanno presentato una petizione per il suo rilascio immediato dopo l’assoluzione dai crimini di corruzione per cui era sotto processo. E’ vero che Mubarak era già stato condannato a 25 anni per non aver fermato la strage compiuta dalla polizia e dall’esercito durante la rivoluzione che lo cacciò, ma è in attesa del secondo appello e pare che siano scaduti i termini della detenzione. Molti dicono che alla fine il governo provvisorio sostenuto dall’esercito non avrà il coraggio di lasciare libero il vecchio rais, causa e origine prima dell’attuale situazione di caos. Addirittura, si può ipotizzare che le forze rivol uzionarie della Fratellanza Musulmana e quelle anti Mubarak potrebbero unire la loro ira per questo immenso sberleffo della storia.

Se sia possibile davvero liberare Mubarak nonostante i prossimi processi e le condanne inflittegli, non sappiamo. La situazione giudiziaria egiziana, ha registrato comunque, nel breve tempo di Mursi, uno scontro mortale: da una parte il paludato potere giudiziario abituato al rispettoso cerimoniale di Mubarak, dall’altra il nuovo potere islamista contro la legge laica dello Stato a fronte di quella della Sharia, che esautorava i giudici a favore dei Clerici, e che Mursi ha subito prescelto in nome dell’Islam. L’idea beffarda di Mubarak libero sta già creando uno shock enorme: è un morto che cammina quello che si alza dalla barella da cui ha assistito al suo processo, è una rottura politica ed epistemologica dal raìs biancovestito, immobile, dignitoso come un cadavere importante, pallidissimo  sotto gli occhiali neri come la pece, il golem del mondo arabo in cui il generale Sisi, vero o falso che sia, adesso soffia una nuova vita; torna muovendo di nuovo le membra atrofizzate, dolenti, il corpo invaso dalla malattia  per cui era stato detenuto non in carcere ma nell’ospedale di Sharm el Sheik. E’ la fine della primavera araba, la sua più clamorosa resa.

Appare chiaro, anche se per caso non fosse vero, che Sisi non poteva essere ignaro dell’imminente verdetto.  Per  fragili che sia la cornice giuridica nel mezzo del mondo da incubo che oggi è l’Egitto, degli scontri micidiali che anche ieri hanno portato alla strage di 25 soldati costretti a terra e fucilati uno a uno dagli islamisti del Sinai, l’idea stessa che Mubarak potrebbe tornare in circolazione, nella mente degli egiziani e di tutto il Medio Oriente è legata alla sconfitta della Fratellanza Musulmana, il nemico storico di Nasser, Sadat, Mubarak. Il nemico giurato dell’esercito, la sua preda e il suo assassino. E’ anche un’ennesima conferma del potere dell’esercito, che invece Nasser, Sadat, Mubarak, tutti militari, hanno sempre considera to cosa loro. L’esercito è più di uno Stato nello Stato: dal 1952 governa il Paese. Mubarak era un comandante dell’aviazione, e il suo abbandono è stato legato in parte alla decisione di passare il potere al figlio Gamal, un imperdonabile civile. L’esercito possiede dozzine di fabbriche che producono di tutto, dalle armi, al cibo, ai veicoli civili, è il landlord di edifici, di fondi governativi fuori dal radar delle transazioni internazionali. E anche allontanandosi da Mubarak , deciso a non condividerne le accuse di corruzione,l’esercito è rimasto quello di Mubarak. Mursi è stato un tentativo fallito.

Il generale Sisi è un tipo all’antica, non risponde al telefono a Obama, non teme il dissenso dell’Europa, spiega che l’Egitto non poteva sopportare il “terrorismo” dei Fratelli  Musulmani e l’esercito è stato costretto a ristabilire l’ordine. Se Mubarak verrà rilasciato, resterà nei libri di storia a dire agli islamisti: la vostra vittoria  non è portata di mano, questo vecchio che voi avevate conda nnato, noi lo assolviamo. Un ennesimo segnale di quanto nel mondo arabo “democrazia” sia una parola in cerca d’autore.
www.fiammanirenstein.com

La STAMPA - Claudio Gallo : " Scelta assurda dei militari. Si torna indietro di due anni "


Jeremy Salt

Non condividiamo nè la tesi di Salt nè quella di Korb (intervistato da Paolo Mastrolilli e ripreso da IC in questa stessa pagina).
L'ipotetica scarcerazione di Mubarak non ha tutta quest'importanza. E' una cosa che riguarda la legge egiziana. Non è Mubarak a reggere tutto l'Egitto al momento e non si torna indietro. Il fatto, poi, di pretendere che vengano scarcerati anche i Fratelli Musulmani è impensabile.
Il governo dei militari con al Sisi non è democratico, ma, se non altro, è laico. Quello dei Fratelli Musulmani era una teocrazia e basta.

Jeremy Salt, britannico e australiano, insegna Storia alla Bilkent University di Ankara. Nel suo «The Unmaking of Middle East» ha cercato di raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista dei suoi popoli.

Professor Salt, un tribunale ha cancellato le accuse a Mubarak, salvo quella di peculato. C’è un legame tra questa svolta inattesa e il nuovo ruolo forte dell’esercito in Egitto?

«Il presidente Mubarak è stato prosciolto da alcune accuse, ma altre pendono ancora su di lui. Per adesso nessuno ha detto che debba essere liberato, si tratta solo di congetture. È una situazione molto strana. È impossibile verificare se l’episodio abbia una valenza politica. Dal punto di vista dei militari sarebbe una scelta assurda che avrebbe come conseguenza soltanto quella di scontentare tre quarti della popolazione egiziana, riportando le lancette degli orologi al 2011».

L’esercito ha salvato la democrazia? E’ stato un golpe democratico, come ha detto qualcuno?

«Non lo si può chiamare un golpe democratico. Morsi ha governato molto male, in modo rozzo, provocatorio, autoritario e stupido. La reazione dell’esercito non ha però nulla di democratico: hanno ucciso indiscriminatamente, sparato sui dimostranti, diviso il Paese. La gente è molto confusa su quello che sta succedendo. E adesso nessuno sa che cosa potrà accadere».

Si aprirà uno scenario siriano oppure uno scenario algerino?

«Mi lasci dire che sarà uno scenario egiziano. La Siria è un mosaico molto diverso. La situazione algerina ha qualche similarità in più, con il Fronte islamico di salvezza che aveva vinto le elezioni: i militari rovesciarono il tavolo e sono al potere ancora adesso. In Egitto oggi non si vede una soluzione, perché le due parti sono ormai sprofondate nelle loro trincee senza possibilità di mediazione. Una situazione angosciante».

La sanguinosa repressione egiziana segna il declino dell’Islam politico in Medio Oriente?

«Niente affatto. Nel breve periodo in Egitto forse. L’Islam politico nel mondo continuerà a confrontarsi con le elezioni e la democrazia. D’altra parte i salafiti, la parte più radicale del movimento politico islamico, continuano a essere appoggiati dall’Arabia Saudita che sappiamo ha sostenuto il golpe egiziano. Ci si può dunque aspettare una crescita dei partiti più radicali».

Lo studioso francese Gilles Kepel ha paragonato la repressione dei generali contro i Fratelli Musulmani a quella compiuta da Nasser nel 1954, secondo lei il paragone tiene?

«È corretto fino a un certo punto. Nel 1954 i Fratelli avevano tentato di uccidere Nasser e lui certo non li amava, le loro ideologie erano all’opposto. Approfittò di tutte le occasioni per distruggere il movimento, arrestando il più grande numero possibile di militanti, mandandone alcuni al patibolo, altri in esilio. La grande diversità è che il movimento di Morsi è andato al governo democraticamente e la repressione dei generali oggi è stato molto dura e sanguinosa».

Che cosa farà adesso Obama, farà finta nei fatti di non vedere o romperà i rapporti con il Cairo?

«Washington ovviamente non vorrebbe rompere. Se avesse voluto, lo avrebbe già fatto. La violenza che abbiamo visto dei giorni scorsi non si fermerà tanto presto. L’unica opzione sarebbe di cacciare i generali, ma per il momento Obama dà l’impressione, come nel caso della Siria e dell’Iraq, di non voler essere coinvolto. L’iniziativa è passata ai sauditi. Questo non toglie che se la situazione peggiorerà potrebbe anche rompere».
Golpe democratico?
Morsi ha governato in modo autoritario e rozzo, ma l’esercito ha ucciso dimostranti indiscriminatamente».

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Passo verso la pacificazione se si apre anche agli islamisti "


Lawrence Korb

«Sembra uno schiaffo, ma la possibile liberazione di Mubarak potrebbe contribuire a diminuire le tensioni, se fosse accompagnata anche dal rilascio dei membri più moderati dei Fratelli Musulmani». Lawrence Korb parla sulla base della sua doppia esperienza, prima come vice segretario al Pentagono, e ora come consigliere dell’amministrazione Obama dalla think tank democratica Center for American Progress.

Lei ha conosciuto personalmente Mubarak?

«L’ho incontrato varie volte quando ero al Pentagono, e ho visto anche il figlio negli Stati Uniti, quando è venuto dopo che il padre era stato rovesciato dalle proteste di piazza Tahrir».

Che tipo di operazioni ha condotto con lui?

«Era un periodo molto importante per gli Stati Uniti sul piano strategico, perché stavamo creando il Central Command che si sarebbe occupato dell’intera regione mediorientale. Poi avevamo uomini schierati nella penisola del Sinai, e dovevamo garantire la tenuta dell’accordo di pace con Israele. Avviammo anche i programmi per portare i militari egiziani a studiare negli Stati Uniti, con cui poi sarebbe venuto da noi il futuro generale AbdulFattah Al Sisi».

Liberare Mubarak ora non dimostra l’intenzione di voler riportare l’Egitto al passato?

«Di sicuro il governo ci sta mandando un segnale, dicendo che non possiamo condizionare le sue scelte. Però questo passo potrebbe anche avere un effetto stabilizzante».

Come?

«Mubarak ha 85 anni ed è malato, non ha un futuro politico. In Egitto, però, molte persone sostengono ancora quello che lui rappresenta, e si sentiranno garantite dalla sua liberazione. L’importante è farla seguire da un gesto simile nei confronti dell’opposizione islamica, che offra speranze di inclusione anche all’altra parte. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea avevano negoziato un compromesso che prevedeva il rilascio dell’esponente dei Fratelli Musulmani Saad al-Katatni, e del fondatore dell’Islamist Party Aboul-Ela Maadi. Se il governo mantenesse questa promessa, la liberazione di Mubarak e degli islamici potrebbe trasformarsi in un atto di riconciliazione».

Lei crede che Washington dovrebbe bloccare gli aiuti?

«Io penso che il presidente Obama stia bilanciando bene i nostri interessi e i nostri valori, in una situazione molto delicata: non dimentichiamo che abbiamo ancora una presenza nel Sinai. Ha mantenuto gli aiuti, ma ha cancellato un’esercitazione, la consegna degli F16, e forse quella degli Apache».

Gli interessi prevalgono sulla difesa della democrazia?

«Bisogna chiarire. La democrazia non consiste solo nelle elezioni. Morsi aveva certamente ottenuto più voti, ma poi non ha costruito un governo democratico e attento anche alle istanze delle opposizioni. Questo è un processo che richiede tempo, e va riavviato con pazienza. Nello stesso tempo, gli interessi da tutelare riguardano l’intera stabilità del Medio Oriente, e la possibilità di far ripartire i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi. Sono cose importanti da salvaguardare, per il bene di tutta la comunità internazionale».

Lei pensa che Al Sisi voglia insediare un regime militare, oppure sia disposto a ricostruire un governo civile?

«È difficile dirlo, in questo momento. Di sicuro, però, la situazione attuale non favorisce il ritorno alla democrazia, e offre ai militari la giustificazione per mantenere il controllo».

Non teme la deriva verso una guerra civile?

«Sarebbe un disastro, per l’Egitto e per l’intera regione. L’unica strada per evitarla è tornare a una politica inclusiva, che fermi le violenze e i disordini, e riapra la strada a un governo civile. Il rilascio degli esponenti più moderati dei Fratelli Musulmani potrebbe essere il primo passo per avviare questo dialogo».

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Agguato nel Sinai: trucidati 25 poliziotti. I timori di Israele "


Davide Frattini

GERUSALEMME — La strategia del silenzio imposta da Benjamin Netanyahu ai suoi ministri è accompagnata da una diplomazia quieta: gli ambasciatori in Europa e negli Stati Uniti sono stati incaricati di far arrivare il messaggio «Israele sta con i generali egiziani solo che non può proclamarlo». Perché imbarazzerebbe Abd al Fattah al-Sisi e il governo che ha installato, perché guasterebbe la cooperazione tra i due eserciti, mai interrotta neppure quando Mohammed Morsi era al potere.
Mordechai Kedar, esperto di Medio Oriente alla università Bar-Ilan, riassume la situazione al New York Times con la vecchia barzelletta del bagnino che pizzica un bambino a far pipì in piscina e lo apostrofa: «È vero, lo fanno tutti, ma non dal trampolino». Israele non può lasciarsi beccare sul trampolino mentre preme su Washington perché non tagli gli aiuti militari al Cairo (1,55 miliardi di dollari l’anno). Così a parlare sono funzionari anonimi — o ormai in pensione — che spiegano: «La scelta è tra i generali e il caos, i soldati sono gli unici in grado di ristabilire l’ordine nel Paese». Portavoce pubblico delle preoccupazioni israeliane diventa un consigliere di Adly Mansour, il presidente egiziano provvisorio, che all’emittente Russia Al-Youm ammette: «È naturale che tengano sotto controllo gli eventi, hanno paura che il caos tracimi oltre il confine».
Gli elicotteri di Tsahal ieri hanno pattugliato la frontiera senza interruzioni. A pochi chilometri da Rafah, nel Sinai che sfugge al dominio dei militari, 25 poliziotti egiziani sono stati trucidati dagli estremisti islamici: erano in licenza, sono stati fatti scendere dai due autobus su cui viaggiavano e freddati al bordo della strada. Il valico verso la Striscia di Gaza è stato chiuso, come quello di Nitzana verso lo Stato ebraico. «Le forze di sicurezza israeliane ed egiziane stanno cooperando dentro una bolla protetta — scrive l’analista Alex Fishman sul quotidiano Yedioth Ahronoth — e in questo periodo le relazioni non sono state intaccate. I manifestanti al Cairo stanno però cominciando a protestare contro l’accordo di pace del 1979 e se i generali saranno costretti a lanciare un osso al popolo arrabbiato, quell’osso saremo noi».
Due settimane fa Moshe Yaalon, il ministro della Difesa israeliano, si è affrettato a smentire che la sua aviazione fosse responsabile dell’uccisione con un missile di cinque miliziani fondamentalisti in Sinai: «Rispettiamo la sovranità dei nostri vicini».
Quel raid ha costretto lo scrittore egiziano Alaa Al Aswani ad arrampicarsi sugli specchi ideologici: «Se Israele ha perpetrato l’attacco in Sinai, dobbiamo sostenere il nostro esercito perché dichiari guerra. Se sono i Fratelli musulmani a sfruttare l’episodio, è inaccettabile». Salvo pochi giorni prima sostenere — sempre sulla sua pagina Facebook — che lo Stato ebraico «appoggia gli islamisti».
Come spiega Giora Eiland, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Ariel Sharon, «anche se non condividiamo tutti i valori del generale Sisi, ne condividiamo gli interessi». L’accordo firmato da Anwar Sadat e Menachem Begin 34 anni fa obbliga l’esercito egiziano a ottenere da Israele il via libera a ogni incremento di truppe nel Sinai: per ora — sembra — il governo di Netanyahu non ha mai negato il permesso. La cooperazione è considerata fondamentale nella guerra al terrorismo.

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