lunedi` 12 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
19.08.2013 Egitto ancora nel caos tra islamisti ed esercito
commento di Giuseppe Sarcina, Roberto Tottoli, Renzo Guolo, Paolo Mastrolilli

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa
Autore: Giuseppe Sarcina - Roberto Tottoli - Renzo Guolo - Paolo Mastrolilli
Titolo: «La sfida tra le antenne televisive. Quando le notizie diventano armi - Ora i salafiti si fanno avanti. E riparte la faida tra sunniti e sciiti - La Fratellanza a rischio Qaedista - Quelle trattative fallite e le pressioni di Israele»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/08/2013, a pag. 11, l'articolo di Giuseppe Sarcina dal titolo " La sfida tra le antenne televisive. Quando le notizie diventano armi ".  Dal CORRIERE della SERA, a pag. 8, l'articolo di Roberto Tottoli dal titolo " Ora i salafiti si fanno avanti. E riparte la faida tra sunniti e sciiti ". Da REPUBBLICA, a pag. 25, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " La Fratellanza a rischio Qaedista ", preceduto dal nostro commento. Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Quelle trattative fallite e le pressioni di Israele ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Giuseppe Sarcina : " La sfida tra le antenne televisive. Quando le notizie diventano armi "


                               Egyptian Tv

IL CAIRO — Al Jazeera è la moschea virtuale dei Fratelli musulmani. Instancabile, assicura senso della comunità, coesione e capacità di resistenza islamica. L’emittente del Qatar è un canale satellitare che diffonde, in lingua araba, un giornalismo di immagini tanto imprescindibile quanto controverso. Gli islamisti del Cairo sono perennemente sintonizzati e seguono la rivolta contro il generale Al Sisi, minuto per minuto. Sul fronte opposto, per il governo (che ieri ha diramato una nota di protesta) e tra i civili anti Morsi (il presidente rovesciato lo scorso 3 luglio)Al Jazeera è sinonimo di falsità, di premeditata distorsione dei fatti. L’etichetta di «fiancheggiatori dei terroristi islamici» viene sempre più spesso attribuita (e si stenta a capire perché) agli inviati stranieri, americani o europei, non importa. Specie se muniti di telecamera, macchina fotografica o semplice telefonino. In realtà l’informazione televisiva (qualche margine in più rimane per la carta stampata) è ormai parte attiva dello scontro. Un solo esempio: due giorni fa, sul cavalcavia che domina la piazza Ramses, l’antenna di Al Jazeera ha ripreso tutte le fasi dell’assedio alla moschea di El Fath, dove si erano barricati circa 700 militanti dei Fratelli musulmani. La telecamera, per definizione, non nasconde nulla. Così i telespettatori hanno potuto vedere i colpi di fucile che partivano dal minareto verso i militari e verso la gente rimasta intorno ai blindati. Evidentemente nella torre si era posizionato un gruppetto ostile all’esercito. I commentatori di Al Jazeera hanno lasciato la parola all’Imam della moschea, Salah Sultan, che si è prodotto in una ridicola spiegazione: dall’interno del tempio non si può accedere al minareto (e passi) e dunque non si capisce da dove siano entrati i cecchini. Come dire: non erano dei nostri. E allora chi erano? Da dove erano entrati? Purtroppo i giornalisti di Al Jazeera hanno omesso queste semplici e indispensabili domande, avallando la versione dell’Imam e l’assunto di base: tutti i Fratelli musulmani sono combattenti per la libertà e la democrazia. Ma disarmati. Una mezza verità, come hanno testimoniato tutti i reporter internazionali presenti nello slargo di Ramses. Il problema è che dall’altra parte le cose non vanno meglio. Le due tv di Stato, Egyptian tv e Nile tv, mantengono costantemente una sovrascritta in rosso nell’angolo sinistro degli schermi, «l’Egitto sta combattendo il terrorismo». E anche le televisioni private più seguite, come Cbc, Ontv, Dream tv e Al Caire melnass, sono comunque schierate e, con più o meno sfumature, condividono l’assunto opposto: Morsi è un fascista, i dimostranti sono terroristi che vogliono distruggere il Paese. In questo caso le due mezze verità non ne fanno una intera. Per tornare al minareto: i competitor di Al Jazeera, cui va aggiunta anche la saudita Al Arabiya, hanno descritto il tiro alla torre sacra dell’Islam come un’operazione necessaria per stanare soggetti pericolosi, con legami internazionali ancora più insidiosi (l’ombra di Al Qaeda torna sempre utile). Anche qui sorvolando sulle ragioni che spingono nelle moschee e nelle strade non solo i guerriglieri (che ci sono), ma anche decine di migliaia di uomini (e molte donne) vocianti, ma sicuramente disarmati, come, ancora una volta, ha documentato la stampa internazionale al completo. Naturalmente anche sugli ascolti esistono versioni contrastanti. Al Jazeera, comunque, non dovrebbe superare uno share compreso tra il 15 e il 20%, le tv private si spartirebbero il resto, mentre le due emittenti di Stato non avrebbero pubblico. In ogni caso il mosaico televisivo aiuta a comprendere il peso delle forze in campo. Al Jazeera resta l’unica sponda dei Fratelli, anche se l’emiro del Qatar sembra abbia cominciato a sganciarsi. Al Arabiya, sede negli Emirati, proprietà saudita, riflette il sostegno di Riad al governo del generale Al Sisi. Le tv private fanno capo a potenti imprenditori che chiedono stabilità e sicurezza, dunque appoggiano l’esercito. Due figure su tutte: Naguib Sawiris, (proprietario di Ontv e di un gruppo che va dalle telecomunicazioni alle ferrovie); Ahmed Bahgat (dall’elettronica al settore medicale) cui fa capo Dream tv, l’emittente che ogni sera attacca Al Jazeera con l’anchorman Wael El Ebrashy. Il programma si chiama 10pm. La sfida tra le antenne si spegne solo a tarda sera.

CORRIERE della SERA - Roberto Tottoli : "Ora i salafiti si fanno avanti. E riparte la faida tra sunniti e sciiti "


Roberto Tottoli

Nordafrica e Vicino Oriente vivono in questi giorni momenti drammatici. Le primavere arabe hanno fatto esplodere le contraddizioni nascoste da repressione e negazione di ogni libertà. I musulmani e le varie forme di Islam della regione non si sono sottratti a questa ventata di novità e anzi, partecipano più di tutti alla nuova scena politica. Sotto molti aspetti è proprio l’Islam, nelle sue molteplici espressioni, il protagonista principale di ciò che sta accadendo. In un quadro segnato da ben altri problemi, l’immaginario islamico pervade ogni fase delle gravi crisi che emergono dalla Nigeria al Pakistan. E slogan religiosi o contrasti insanabili sul terreno della legittimità sono diventati il pane quotidiano di una realtà che vede musulmani combattere contro altri musulmani. Tre le questioni che emergono con forza maggiore: la sorte nell’immediato futuro della Fratellanza musulmana, il contrasto sempre più acceso tra sunniti e sciiti, e la pervicace resistenza di un jihadismo polverizzato che ancora si richiama ad Al Qaeda.
Ciò che accade alla Fratellanza musulmana in Egitto segnerà in maniera definitiva il futuro della più importante organizzazione dell’Islam politico. Nata quasi un secolo fa in Egitto, la Fratellanza è giunta al potere in vari Paesi dopo decenni fatti di effimeri successi e più lunghe persecuzioni. In Egitto, la presidenza Morsi ne ha evidenziato limiti e scarse capacità a fronteggiare problemi complessi. L’appuntamento con la storia, tra l’altro benedetto anche dall’amministrazione americana, si è ben presto consumato tra incapacità di allargare il consenso e rigidità di vecchie leadership nello spartire potere come un consumato partito politico. Decenni di attesa e un trionfo elettorale paiono così ormai cancellati. Ma è tutto il Nordafrica che pare accomunato da tale destino. I partiti espressione dei Fratelli musulmani vacillano anche in Tunisia e Libia, subiscono attacchi da laici e salafiti che ne contestano titubanze e indecisioni. La reazione delle altre forze in campo e i propositi liquidatori dell’esercito egiziano generano dubbi sempre maggiori sul loro futuro politico.
In Nordafrica come in Egitto, però, l’eventuale ridimensionamento della Fratellanza musulmana non sarà la fine dell’Islam politico. Gli stessi Fratelli musulmani e i loro sostenitori non scompariranno nel nulla e i ben più insidiosi salafiti già incombono. Opportunisti in politica ed estremamente variegati nelle scelte strategiche, i salafiti sono l’espressione di un Islam attento più a questioni di purità e di etichetta personale che non a proclami collettivi. Accompagnati dai soldi sauditi e del Golfo, hanno capacità di penetrazione capillare, e rappresentano sotto molti aspetti una forza post politica, in chiave islamica; che punta apparentemente sulla fede dei singoli più che sulla presa del potere. Ma la loro predicazione ha ed avrà inevitabili sbocchi politici. Un tracollo politico della Fratellanza non potrà che rafforzarli.
Il Vicino Oriente sul versante asiatico del Mediterraneo sembra vivere invece una condizione diversa, legata al secolare contrasto tra sunniti e sciiti. Con l’ombra dell’Iran alle spalle, la tragica situazione siriana ruota intorno allo scontro tra la minoranza sciita alawita degli Assad da un lato e la variegata opposizione sunnita dall’altro. L’Iraq brucia ormai da mesi in attentati antisciiti che tendono a destabilizzare una realtà nazionale in cui sciita è la maggioranza destinata a governare. Il Libano vive ormai da tempo le tensioni del conflitto siriano che ne sollecitano il precario equilibrio confessionale. L’ultimo attentato contro Hezbollah ne è un esempio evidente, soprattutto nel nome del gruppo che lo ha rivendicato: le Brigate di Aisha. Moglie del profeta Maometto, Aisha è nella storia islamica la nemica giurata di Ali e quindi degli sciiti. Scegliere il suo nome per rivendicare un attentato significa sfidare con perfidia gli sciiti Hezbollah utilizzando a piene mani l’immaginario fondante dell’Islam. Non molto diverso, in questo ambito, è del resto quel che avviene in campo sunnita: richiami al martirio, oppure gli slogan che vanno dai continui giorni della rabbia alle adunate di venerdì stanno a ricordare come sunniti e sciiti si combattono sul terreno simbolico utilizzando a piene mani richiami al tempo di Maometto. Si perpetua così un tradizionalismo che inevitabilmente radica lo scontro sempre più dell’immaginario religioso ed impedisce di guardare avanti.
In tale situazione, in tutte le regioni e anche oltre, si affaccia ancora minacciosa la presenza del radicalismo militante, della stessa Al Qaeda e di tutte le organizzazioni che ad essa si rifanno. Se la morte di Bin Laden aveva illuso sulla loro fine, gli avvenimenti di questi ultimi due anni dimostrano l’esatto contrario. Abbandonato l’Afghanistan e i progetti strategici di attacco diretto agli Stati Uniti e l’Occidente, le varie cellule jihadiste paiono tornate a guardare alle loro realtà nazionali. Lo scopo è ora quello di destabilizzare la realtà interna e di consolidare una presenza sul terreno. Ciò avviene con maggiore capacità in Yemen o in certe zone dell’Africa subsahariana o del Pakistan, oppure entra con forza nella confusa situazione siriana, libanese e irachena o nel Sinai egiziano. Uccisioni mirate di militari, autobombe e attentati di altro tipo, compresi quelli contro i cristiani, segnano le attività di gruppi dalla consistenza sconosciuta ma in apparente espansione, più spesso sunniti e visceralmente antisciiti oltre che anticristiani. E accanto ai destini dell’Islam politico e allo scontro settario, questo nuovo jihadismo aumenta interrogativi e genera continue apprensioni sull’immediato futuro di tutto il mondo islamico.

La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " La Fratellanza a rischio Qaedista "


Renzo Guolo

Come Antonio Ferrari sul CORRIERE della SERA di ieri (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=50339), anche Guolo si è lasciato incantare dalla tesi secondo la quale i Fratelli Musulmani sarebbero a rischio radicalizzazione e al Qaeda. Come se la Fratellanza fosse moderata e immune al radicalismo di suo.
Ecco il pezzo:

Sopravvissuta a Nasser e a Mubarak, la Fratellanza sopravviverebbe anche a al-Sisi. Certo, il partito Libertà e Giustizia verrebbe sciolto ma la confraternita, con il suo radicamento sociale e capacità di influenzare il discorso religioso, continuerebbe ad agire. Non è un caso che al-Sisi abbia richiamato la necessità di evitare un conflitto religioso. Sul fronte islamista, comunque, il 3 luglio e le giornate di agosto, hanno già prodotto notevoli contraccolpi. Il rovesciamento di Morsi segna uno spartiacque per un’organizzazione di massa che, solo dopo una lunga e faticosa marcia ideologica, aveva accantonato, pur divenendo nella prassi fautrice di una concezione illiberale della democrazia, l'equazione sovranità popolare eguale idolatria. Ora lo scacco subito non può che rilanciare le tesi sconfitte nella Fratellanza nel 1969, quando l'allora guida Hudaybi sconfessò l'eredità di Sayyd Qutb, ideologo del gruppo e sostenitore della tesi secondo cui la società egiziana era jahilita, preislamica. Giudizio che legittimava il jihad contro il “potere empio” e quanti, tra i musulmani, lo sostenevano. Non a caso, da quella frattura ideologica nasce lo jihadismo egiziano, prodotto delle scissioni di piccoli gruppi fautori della lotta armata come atto fondativo dello Stato islamico. Ora, la brutale fine dell'esperienza di Morsi, e la repressione che ne è seguita, rischia di segnare la fresca cultura politica della Fratellanza, inducendo alcuni suoi settori minoritari a ascoltare le sirene delle correnti islamiste più radicali. Correnti convinte che non sia possibile alcuna via diversa da quella dell'islamizzazione dall'alto, pervase da una sorta di leninismo religioso attratto dalla spirale azione-repressione- insurrezione come levatrice di un “autentico” stato islamico. Teorie e prassi nettamente sconfitte alla fine dello scorso secolo. Ma la clandestinità produce clandestinizzazione della politica e, dunque, terreno favorevole alla ripresa del jihad. La polverizzazione di quello che il movimento Tamarod chiama polemicamente “fascismo islamico”, espressione molto in voga qualche anno fa tra i neocon americani, può generare, dunque, un movimento centrifugo, destinato a far fuoriuscire settori militanti disposti a imboccare la via della lotta armata contro il “potere empio” e la “società idolatra”. Esito che renderebbe instabile tutta l'area Mediorientale e nordafricana. La decapitazione della Fratellanza egiziana ha già riflessi all'esterno. In Siria, innanzitutto, dove tra gli islamisti potrebbero ora prevalere le correnti più intransigenti dell'organizzazione, scettiche su un possibile processo democratico, e dove rischia di aumentare la forza gravitazionale del nucleo qaedista dello “Stato islamico in Iraq e Levante”. Per i qaedisti le vicende egiziane non fanno che confermare le loro tesi sull'impossibilità di accettare la democrazia e qualsiasi rapporto con il mondo crociato, nella sua duplice accezione di Stati Uniti e mondo cristiano. E poi in Tunisia, dove Ennahda, che ha subìto già il pesante condizionamento salafita, potrebbe non reggere l'accesa polemica di quello schieramento sulla sua svolta centrista. A Gaza, infine, dove Hamas potrebbe cercare di uscire dal nuovo isolamento ostile con la ripresa degli attacchi contro Israele. La crisi della Fratellanza rilancia l'influenza dell'Arabia Saudita, in quanto potenza protettrice del confessionalismo sunnita e attore del controllo del campo religioso mediante la diffusione del wahhabismo come dottrina rivale e ostile a quella della Fratellanza. In riva al Nilo non si decide, dunque, solo chi comanda in Egitto ma la stessa forma politica del campo islamista.

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Quelle trattative fallite e le pressioni di Israele "


Paolo Mastrolilli

In questi giorni mancava, sui quotidiani italiani, qualcuno che sostenesse la responsabilità di Israele per la presa di potere dell'esercito e la destituzione del dittatore Morsi.
Per fortuna è venuto in nostro soccorso Paolo Mastrolilli che, nella sua cronaca, riporta fedelmente le tesi complottiste di New York Times e Washington Post.
Secondo i due quotidiani americani, dietro al disastro del governo islamista e alla mancanza di polso di Obama nel mantenere i Fratelli Musulmani al potere, ci sarebbero Israele e AIPAC.
Che, nei giorni scorsi, Ehud Barak abbia dichiarato che per Israele è meglio un Egitto sotto ai militari piuttosto che sotto agli islamisti, è vero. Ma è semplicemente il punto di vista di qualunque laico. Presumere dalle dichiarazioni di Barak che Israele sia così potente da influenzare la politica non solo dell'Egitto, ma anche del presidente degli Stati Uniti, ha dell'assurdo.
I Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni, questo, però, non basta a farne dei democratici. Tra una dittatura laica militare e una teocrazia stile Iran, la scelta è semplice.

Stati Uniti e Unione Europea hanno cercato in tutti i modi di fermare la violenza in Egitto, con pressioni e mediazioni di ogni genere. Pensavano anche di essere arrivati a un passo dall’accordo, ma poi si sono visti sbattere la porta in faccia dai militari, convinti che non avrebbero subito conseguenze serie per la scelta della linea dura contro i Fratelli Musulmani. È la drammatica versione dei fatti che emerge dalle cronache pubblicate negli ultimi giorni dal «New York Times» e dal «Washington Post», che sono andati dietro le quinte dei tentativi di mediazione.

Le pressioni americane erano cominciate prima del golpe, quando il segretario di Stato Kerry aveva cercato di convincere l’allora presidente Morsi ad applicare meglio la democrazia e aprire alle opposizioni, per evitare di essere rovesciato come Mubarak. Morsi aveva risposto indurendo ancora di più la sua posizione.

Dopo il golpe, il capo del Pentagono Hagel aveva fatto 17 telefonate al generale Al Sisi, cercando di convincerlo a seguire la strada della restaurazione del sistema democratico. Visto che non accadeva nulla, il 26 luglio El Baradei aveva deciso di dimettersi, ma Kerry lo aveva fermato, dicendogli che era l’ultima voce di moderazione rimasta. A quel punto gli Usa e la Ue avevano cominciato una mediazione congiunta, condotta al Cairo dal sottosegretario William Burns e dall’inviato Bernardino León. L’intesa sembrava a portata di mano, su queste basi: i militari avrebbero rilasciato l’ex presidente del Parlamento Saad alKatatni e il fondatore dell’Islamist Party Aboul-Ela Maadi, come segno di buona fede, e i Fratelli Musulmani avrebbero ridotto le proteste. Entrambe le parti, poi, avrebbero fatto dichiarazioni conciliatorie per riprendere il dialogo. León aveva anche annunciato il rilascio imminente agli interlocutori islamici, tranquillizzandoli quando le ore erano passate inutilmente, ma poi era accaduto il contrario, con l’incriminazione il 4 agosto della guida dei Fratelli Musulmani, Badie.

Anche gli alleati regionali degli Usa erano stati mobilitati: il Qatar aveva promesso di intercedere presso gli islamici, mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero fatto pressione sui militari. Nulla era seguito, e quando il senatore repubblicano Rand Paul aveva introdotto una misura per minacciare il taglio degli aiuti economici da 1,5 miliardi all’Egitto, la potente organizzazione ebraica American Israel Public Affairs Committee aveva fatto azione di lobby per fermarlo. Israele era dalla parte dei militari, e non voleva che Washington li abbandonasse.

Il 6 agosto al Cairo erano arrivati anche i senatori McCain e Graham, per due incontri molto tesi con Sissi e il premier Hazem el-Beblawi. Graham aveva detto Al Sisi: «Se fate le elezioni oggi, Morsi perde. Ma voi lo state trasformando in un martire». Beblawi gli aveva risposto che gli islamici dovevano rispettare lo stato di diritto, e Graham era esploso: «Come si permette di dare lezioni sullo stato di diritto? Quanti voti ha preso lei?». L’ultimo tentativo lo aveva fatto Hagel, il 9 agosto, con una telefonata di un’ora e mezza a Sissi. Poi il bagno di sangue.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera, Stampa e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it
lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT