Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Egitto: continuano gli scontri fra esercito e sostenitori di Morsi cronache e commenti di Carlo Panella, Costantino Pistilli, Vittorio Dan Segre, Gianni Riotta, Redazione del Foglio, Giulio Meotti
Testata:Libero - Il Giornale - La Stampa - Il Foglio - Informazione Corretta Autore: Carlo Panella - Vittorio Dan Segre - Gianni Riotta - Redazione del Foglio - Giulio Meotti Titolo: «Egitto: Meglio un esercito oggi che la Fratellanza domani - Le proteste si avvicinano ai resort - La guerra islamica nella terra orfana del Nilo - L'equazione sanguinaria di al-Sisi»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 17/08/2013, a pag. 14, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Le proteste si avvicinano ai resort ". Dal GIORNALE, a pag.15, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " La guerra islamica nella terra orfana del Nilo ". Dalla STAMPA, a pag. 1-31, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " L'equazione sanguinaria di al-Sisi ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Il calcolo freddo dei generali del Cairo, scatenare l’istinto jihadista dei Fratelli ", a pag. 3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Ecco perché Israele è contento del golpe egiziano del generale Sisi ". Ecco i pezzi, preceduti dal commento di Costantino Pistilli dal titolo " Egitto: Meglio un esercito oggi che la Fratellanza domani ":
INFORMAZIONE CORRETTA - Costantino Pistilli : " Egitto: Meglio un esercito oggi che la Fratellanza domani "
“I Fratelli musulmani non hanno bruciato solamente le chiese dei cristiani, che l’esercito si è impegnato di ricostruire, ma anche i nostri ospedali, i nostri oratori e le nostre scuole”, ci fa sapere una fonte egiziana presso la Santa Sede che preferisce l’anonimato: “I Fratelli musulmani stanno scagliando contro di noi la loro rabbia, la loro violenza. Razziano le farmacie gestite da cristiani, gli alberghi, le barche dei pescatori”. Poi mi fornisce materiale per accertarmi delle informazioni, e una volta fatto, attingere ad altre, per scoprire del rapimento ad Assiut di un pastore di una Chiesa avventista e di sua moglie e di un Paese così diverso da come i media lo descrivono, soprattutto grazie alle notizie disseminate dalla qatarina Al Jazeera che per sostenere i Fratelli musulmani mostra un Egitto spaccato in due, mentre, conferma la nostra fonte, i seguaci di Al Banna sono solamente una minoranza ma ben armata che per nulla affatto si sta difendendo un golpe militare. Difficile paragonare, infatti, la situazione di questo Egitto all’Algeria degli anni novanta, dove l’esercito decise di effettuare un vero e proprio colpo di Stato mentre al Cairo c’è un presidente ad interim e un esercito, che certo sta difendendo i propri interessi economici, ma è lo stesso esercito –senza Tantawi ma con il suo delfino El Sisi- che ha deposto Morsy nello stesso modo in cui ha deposto Mubarak, un esercito che da giorni sta difendendo i diritti di oltre 30 milioni di persone, quelli della protesta del 30 giugno, che per nulla vogliono la Fratellanza musulmana, né tantomeno la vuole un’altra potente elite, quella dei giudici che ha fortemente ostacolato l’ascesa dei Fratelli al potere, un potere per nulla guadagnato democraticamente -pressioni esercitate davanti alle urne dai Fratelli musulmani per impedire di votare Shafiq, decine di migliaia di voti multipli, decine di migliaia di voti di elettori non registrati- e ora l’esercito deve difendere e mantenere la stabilità nel Sinai dove solo poche ore fa 14 morti e oltre 60 feriti, in gran parte uomini della sicurezza, sono stati uccisi nelle ultime 48 ore da militanti jihadisti, dal Sinai dove si lanciano missili contro i civili israeliani e dove Hamas continua a scavare nuovi tunnel indispensabili per il traffico di armi, da/e verso la penisola. Senza contare il lavoro che l’esercito egiziano deve svolgere sul confine con la Libia, ormai terra di nessuno, ma magazzino di armi a cielo aperto, come riportava un rapporto ONU dello scorso aprile: “Negli ultimi 12 mesi, la proliferazione di armi dalla Libia è continuata a un ritmo preoccupante e si è diffusa in un nuovo territorio: Africa occidentale, Medio Oriente e potenzialmente, anche il Corno d'Africa. I flussi illeciti stanno alimentando arsenali anche di gruppi terroristici. Il traffico dalla Libia comprende armi leggere e pesanti, compresi nuovi sistemi portatili di difesa aerea, munizioni, esplosivi e mine”. Dunque, oltre a questi problemi l’esercito egiziano deve affrontare la minaccia domestica dei sostenitori di Morsy, ai quali da giorni è stato intimato di abbandonare la lotta armata, di abbattere le trincee di cemento che avevano eretto e di non usare i bambini come scudi umani durante le proteste (http://www.egyptindependent.com/news/opinion-brotherhood-treats-children-pawns-where-s-outcry). Mentre Obama, già sostenitore di Morsy, scambiando la Fratellanza musulmana con i Tea Party se ne lava le mani ed ecco che “in tutte le piazze è malvisto perché gli egiziani non gli credono più mentre invece aspettano una soluzione che arrivi da Mosca, da Putin”, conclude la nostra fonte. Fortunatamente, Obama non fu presidente degli Stati Uniti nel 1933 (http://www.americanthinker.com/2013/08/revisiting_churchill_on_democracy.html), concludiamo noi.
LIBERO - Carlo Panella : " Le proteste si avvicinano ai resort "
Carlo Panella
«Il venerdì della collera», proclamato ieri dai Fratelli Musulmani è diventato, come previsto, l’ennesimo giorno di sangue al Cairo e in molti altri centri dell’Egitto. L’immagine dei corpi dei manifestanti crivellati di pallottole, avvolti nel sudario bianco e ammassati sul pavimento della moschea Ramses è e sarà l’immagine più esplicativa dell’Egitto di oggi e probabilmente dei prossimi giorni, settimane, mesi.Non solo al Cairo; le proteste e gli scontri si estendono a Fayoum, Alessandria, Tanta, Damietta, Ismailya, Mansoura, nel Sinai e altrove. Anche sul Mar Rosso ci sono stati cortei della Fratellanza, con i manifestanti che hanno attraversato le vie del centro inneggiando a Morsi. E i resort turistici non sembrano più così tranquilli. L’estensione capillare degli incidenti dimostra un dato inequivocabile: nonostante i 700 morti negli scontri seguiti allo sgombero delle piazze al Nasr e Rabaaal Adawiya di tre giorni fa, la forzadi mobilitazione deiFratelli Musulmani è intatta. Anzi, la loro ideologia intrisa di esaltazione del martirio, l’idea che si è radicata nell’islam ad opera dell’ayatollah Khomeini che la morte per una causa collettiva non sia solo da rispettare (come è in tutte le tradizioni, anche laiche e occidentali) ma addirittura un «obbligo» che il fedele deve perseguire, è motore di un sempre maggiore impegno di masse di islamisti, non scalfito dalla durezza assassina del generale al Sissi. SFIDA ISLAMICA Il termine assassino è dovuto e addirittura rivendicato dallo stesso al Sissi, che ha datogiovedì ordine netto e formale alle forze di sicurezza di sparare sui manifestanti. Così è stato al Cairo, dove non meno di 28 cortei di Fratelli Musulmani (quello partito dalla moschea Ennour era composto solo da migliaia di donne)sono partitidaaltrettante moschee e si sono diretti verso il centro e piazza Tharir, accolti in più occasioni dal fuoco ad alzo zero dei poliziotti, che hanno sparato anche sulle ambulanze chetrasportavano i feriti,conun bilancio che, nella sola capitale, ieri sera era di 50 morti e centinaia di feriti. Trentimorti si sono avuti anche al Cairo negli scontri diretti tra la piazza dei «Tamarrod », i «Ribelli» di piazza Tahrir, e i cortei dei Fratelli Musulmani a suon di bastonate, coltellate e anche di spari degli uni contro gli altri. Mohammed Badie, il leader spirituale dei FratelliMusulmani ha chiamato a una «protesta pacifica» ma sono molte le immagini della polizia e anche di reporter indipendenti, che mostrano in azione di squadre di Fratelli col cappuccio nero e armati di pistole. Violenza degli islamisti – ma questa volta condannata dai leader dei Fratelli Musulmani e probabilmente non ascrivibile e loro - anche contro 40 chiese cristiane in più località egiziane. I cristiani - e in particolare i copti, che sono il 10% della popolazione e forse più - hanno salutato con gioia la caduta del governo dei Fratelli Musulmani, durante il quale per 15 mesi gli attentati contro di loro si erano moltiplicati - e ora il terrorismo islamico moltiplica le sue azioni nel Paese prendendoli di mira per vendetta. D’altronde, la dinamica di questi giorni sanguinosi in Egitto non è propriamente quella di una guerra civile – come appare - ma di un Jihad, di una Guerra Santa le cui regole, da parte dell’islamico generale al Sissi, così come da parte dei Fratelli Musulmani, non hanno nulla a che fare con la dinamica dei conflitti, anche violenti, del resto del mondo. Il Jihad islamico,codificato da 14 secoli nella tradizione politicamusulmana, a cui si ispirano i militari e i Fratelli Musulmani (e in realtà anche i «Tamarrod», che dai generali di Mubarak si fanno in realtà comandare, con una contraddizione lacerante), non prevede uno scontro, anche armato, per arrivare infine a un compromesso, ma solo la sopraffazione totale dell’avversario politico. Questo perché il legame intrinseco tra Fede e politica comporta la semplice e drammatica conseguenza che non si possano fare trattative omediazioni in materia di Fede, e quindi in materia politica. L’Egitto è dunque sempre più immerso in una guerra civile, omeglio in un Jihad fratricida, che cresce di giorno in giorno e di cui non è facile prevedere l’esito, perché tanto grande è la potenza di fuoco – e anche il consenso politico - di cui gode il generale al Sissi, altrettanto grande è la capacità di mobilitazione e di assorbimento della violenza da parte delle decine, centinaia di migliaia di adepti dei Fratelli Musulmani. JIHAD FRATRICIDA Questa dinamica di Jihad fratricida, le cui premesse sono state poste da due anni, da quando è stato abbattuto Mubarak (ma non il suo regime che era ed è incarnato dai generali e in primis da al Sissi, che era uno dei più fidati collaboratori del deposto raìs) sfugge completamente all’Occidente. Dopo anni di politiche balbettanti e contraddittorie, gli Usa di Obama (che ha ciecamente appoggiato sino all’ultimo i Fratelli Musulmani), l’Ue e l’Onu chiedono a parole e senza mezzi per imporla, una pacificazione che è di fatto impossibile. Manifestazione impressionante di impotenza.
Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " La guerra islamica nella terra orfana del Nilo "
Vittorio Dan Segre Fratelli Musulmani
Le immagini che giungono non solo dal Cairo ma anche da città come Suez e Port Said e da centri minori dimostrano due tragici fatti. Il primo è che l'Egitto rischia di passare dallo stato di rivolta a quello di guerra civile. Il secondo, che l'esercito si è unito alle forze di polizia per schiacciare questa guerra all'inizio secondo il proverbio arabo: se vuoi tagliare la coda al cane che ami, non farlo a fette ma d'un colpo solo. La domanda è ora se una violenta e sanguinosa repressione contro i sostenitori dell’esautorato presidente Morsi - che hanno respinto le proposte dei militari e del gruppo internazionale di mediazione, offerta di partecipazione al governo inclusa basterà a riportare la calma nel paese. Fare pronostici a caldo è impossibile perché gli interessi in gioco sono troppo grandi dalle due parti. I Fratelli musulmani non difendono soltanto la legittimità contro quello che vogliono far riconoscere dal mondo come un colpo di stato e la loro versione di «democrazia» ma il ruolo dell’Islam politico sunnita - in fase di piena affermazione grazie alla «primavera araba» - in tutti gli stati islamici contro il risveglio dell'Islam sciita. Questo porta a uno schieramento di forze molto più largo e profondo di quello che in questo momento mette di fronte la caserma «nazionalista» e teoricamente apolitica e la moschea «internazionalista» e politica in Egitto. La prima sostenuta da un coacervo di forze disorganizzate e deboli che vanno dai cristiani terrorizzati da un regime islamico assieme a gruppi laici democratici privi di seguito e da un primo gruppo di rottura del fronte islamico: i radicali musulmani di Al Nour (che sperano di rimpiazzare in qualche modo i Fratelli musulmani al potere). Dietro a questo vacillante schieramento locale c'è quello di paesi sunniti come l'Arabia saudita e gli Emirati - che temono l'emergere politico e nucleare dell'Iran (e il tentennante squalificato occidente con Europa e l'America di Barack come esempi di ignoranza diplomatica e percezione storica). La seconda, la moschea politica dei Fratelli Musulmani, con la sua capillare organizzazione sociale e scolastica che vede il suo appello al martirio sostenuto da una situazione di povertà di massa e di distacco dallo stato. Situazione che per molti egiziani rende la morte più attrattiva di una vita senza pane e senza speranza. Dietro di lei si schiera la Turchia preoccupata da un ritorno al potere dei militari in patria, l'Iran che sfrutta il fallimento della rivoluzione araba per aumentare il suo peso di immagine nel mondo musulmano oltre a quello strategico e nucleare. Russia e Israele stanno a guardare più preoccupati di quello che succede in Siria e del processo di tribalizzazione del mondo arabo che di quello che succede in Egitto. La chiave della situazione nel Paese che con i suoi 80 milioni di abitanti resta leader del mondo arabo, non sta tanto nella sospensione della violenza (cosa sono 1000 morti fotografati nelle piazze del Cairo in confronto dei 100 mila morti non fotografati in un paese «piccolo» come la Siria?) ma in due fenomeni difficilmente trasformabili e neutralizzabili con rapidità da parte dei militari. Il primo è che l'Egitto ha cessato di essere il figlio del Nilo. Il fiume e le sue strutture sociali, agricole e autoritarie, non sono più in grado di sfamare il terzo più povero della popolazione. La produzione extra agricola - industria e turismo - è in crisi profonda. Gli aiuti dall’estero - 12 miliardi dall'Arabia saudita e circa due dall'Occidente vengono ingoiati senza rimettere in moto l'economia che richiede riforme che nessun governo in 30 anni è stato capace di fare oltre a una stabilità e sicurezza interna scomparsa col regime di Mubarak . Perché il popolo sa percepire e apprezzare che per un cambiamento per il meglio occorre un tempo che manca ai militari. Il secondo fenomeno è la possibile trasformazione della rivolta di piazza in guerriglia armata. Nei Sinai è già in atto con la piena collaborazione fra militari israeliani e egiziani. In Egitto potrebbe diventare una tragica realtà se i Fratelli musulmani passassero all'azione armata e al sabotaggio, e se frange radicalizzate e periferiche della comunità cristiana copta - forte di 10 milioni di aderenti per il momento schierata coi militari - decidessero di armarsi col pretesto di creare un sistema di autodifesa. Ieri di nuovo è stata bruciata una chiesa. Il peggio non è ancora successo ma la connessione innaturale fra beduini del Sinai e cristiani d'Alto Egitto dovrebbe essere seguita con più attenzione degli scontri di piazza fotogenici del Cairo.
La STAMPA - Gianni Riotta : " L'equazione sanguinaria di al-Sisi "
Gianni Riotta
La giornata di guerriglia di ieri, in Egitto, ha toccato oltre al Cairo Alessandria, Ismailia, Damietta e le proteste hanno lambito i centri turistici internazionali, dando alla grande crisi del Paese arabo risonanza nelle distratte cronache del mese di vacanze in agosto.
La strage di centinaia di morti, il calcolo delle vittime resterà per sempre incerto, conferma che il regime militare del generale Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di portare l’orologio politico egiziano ancora più indietro rispetto ai tempi del presidente Mubarak. Allora i Fratelli Musulmani, per quanto perseguitati e incarcerati, avevano però un margine di manovra sociale, lavorando nei quartieri con la loro vasta rete di solidarietà religiosa. Tollerati, purché non alzassero troppo la testa.
Ora, dopo il golpe che ha abbattuto il presidente islamista Morsi e la feroce repressione, la giunta militare manda un messaggio chiaro: l’ordine deve regnare al Cairo e in tutte le altre città d’Egitto e lo stato di perenne anarchia seguito alla caduta di Mubarak deve cessare, subito. La protesta del presidente Obama, per quanto flebile e limitata, in concreto, a un semplice stop a manovre militari congiunte che avrebbero visto gli americani fianco a fianco ai responsabili delle stragi, è stata irrisa dai generali. Che hanno spiegato, con sussiego, di dare la caccia agli stessi islamisti che Obama colpisce con i droni in Yemen e Afghanistan. Un’accusa chiara di ipocrisia, tanto più che Washington staccherà puntuale l’assegno annuo di un miliardo di euro, mancia pingue su cui l’esercito basa da decenni il potere.
La denuncia europea della repressione, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente francese Hollande e dal premier italiano Letta, benvenuta sul piano diplomatico, non avrà però nessun effetto concreto sulla crisi. Da troppi anni l’Europa agisce in Medio Oriente divisa, ciascuna potenza a rimorchio dei propri interessi locali, e l’assenza di una forza militare accanto alle belle parole sui diritti, farà sì che l’UE, per dirla all’italiana, godrà di «una bella figura» all’Onu, che pure sta muovendo, tardi e male, il Consiglio di Sicurezza, ma senza aiutare l’Egitto a ritrovare pace. Israele, che collabora nel Sinai con l’esercito egiziano contro terroristi infiltrati, sta a guardare, ma il bagno di sangue al Cairo rende i «negoziati di pace» israelo-palestinesi, voluti a tutti i costi dal segretario di Stato Usa Kerry, ancor più vacui e velleitari.
In Egitto la parola è alle armi, in uno scontro di potere dove la forza schiaccia la debolezza, nel senso più crudele dei filosofi Hobbes e Machiavelli, niente diritti, niente dialogo, nessuna carta civile. Il generale al-Sisi legge il governo di Morsi come prova che i Fratelli Musulmani non accetteranno mai non solo la democrazia, ma neppure un equilibrio di stabilità, il vecchio Egitto, più grande Paese arabo, come boa tra le tensioni in Medio Oriente. La giunta accusa Morsi di non avere mediato con i militari, di avere lasciato che la piazza islamista spaventasse e minacciasse i cristiani copti, i liberali, il ceto dei mercanti e degli industriali. Ha deciso che, fino a quando i Fratelli non saranno annichiliti, ridotti alle corde, terrorizzati, l’Egitto non avrà pace e si comporta di conseguenza, certo che alla fine Usa e Europa abbozzeranno, come in Siria davanti alla piramide macabra di 100.000 morti che Assad ha eretto pur di restare al potere.
La noncuranza con cui i militari massacrano i Fratelli Musulmani e fanno spallucce davanti alle proteste occidentali si radica nell’appoggio, sfrontato, immediato e munifico che viene loro dai Sauditi. Terrorizzata dalla cosiddette «Primavere arabe» e dall’insorgenza islamica in Egitto, la Casa Reale saudita è opulento sponsor di al-Sisi. Re Abdullah mobilita con l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti per versare 10 miliardi di euro nelle esauste casse del Tesoro egiziano, 10 volte, calcola il quotidiano Financial Times, più dell’obolo americano e del sostegno venuto al presidente Morsi da Qatar e Turchia.
L’azzardo di al-Sisi punta su un’opinione pubblica egiziana stanca di disoccupazione e violenza, poco interessata alla democrazia, determinata a riprendere il lavoro e una qualche forma di convivenza pacifica. A questa stabilità i militari vogliono portare i contadini, i poveri delle città, il ceto medio produttivo e urbano, i cristiani, contando che intellettuali e progressisti accetteranno la mano forte, in cambio di un Egitto laico, odiato da Morsi. Un sondaggio Zogby sembra dare loro ragione, tra la gente comune poca attenzione per i diritti, molto desiderio che il caos finisca presto.
L’incognita della sanguinaria equazione è lo spirito di sacrificio e la forza del fanatismo islamista. Che potrebbe non accettare di tornare nei quartieri come ai tempi di Mubarak, occupare tragicamente le piazze, mentre il terrore filo al Qaeda colpisce le spiagge sul Mar Rosso, distruggendo l’industria del turismo. I libri di storia registreranno come insieme liberali, militari e Fratelli Musulmani abbiano sprecato un’opportunità unica per avviare il loro antico Paese verso il XXI secolo.
Oggi, mentre in Egitto si muore e nel mondo si parla compunti e presto si penserà ad altro, la sola alternativa sembra una vittoria della repressione di al-Sisi o la guerra civile strisciante. Lo «scontro di civiltà», che nella fallace previsione del professor Huntington avrebbe dovuto opporre occidentali a musulmani, continua invece, dal Nord Africa alla Turchia all’Afghanistan, a dilaniare la umma, la gigantesca comunità islamica.
Il FOGLIO - " Il calcolo freddo dei generali del Cairo, scatenare l’istinto jihadista dei Fratelli"
Abdel Fatah al Sisi
Roma. Il generale Fattah al Sisi ha dato ordine di sparare sui manifestanti. E così è stato: una formale dichiarazione di guerra contro i Fratelli musulmani, con i crismi dell’ufficialità delle regole d’ingaggio scritte. Da parte loro, i Tamarrod, i ribelli, i “laici”, perso l’unico rappresentante nel governo (Mohamed ElBaradei si è dimesso per dissociarsi dal massacro), invece di lavorare per una ricomposizione politica della crisi, hanno chiamato i propri adepti in piazza per contrastare i Fratelli musulmani. Risultato: la polizia spara sui Fratelli musulmani in tutto l’Egitto, ovunque le piazze dei Tamarrod e le “piazze dei martiri” si scagliano l’una contro l’altra e la guerra civile segue una escalation implacabile, peraltro prevista dal Foglio sin dal giorno dopo il golpe che depose Morsi il 3 luglio scorso. Incerto l’esito dello scontro, perché alta e feroce è la potenza di fuoco degli armati di al Sisi, forte è il consenso che riscuote sia nei tanti egiziani nostalgici di Mubarak (in prima linea le sue Forze armate e i suoi generali, rafforzati, non indeboliti dalla sua caduta), che tra i Tamarrod, ma eccezionale è la capacità di mobilitazione dei Fratelli musulmani. Forti, questi ultimi, non solo delle proprie ragioni per la palese violazione delle regole democratiche da parte di al Sisi e dei Tamarrod, ma anche e soprattutto della ideologia del martirio. Quanti più “martiri” accumulano, tanto più i Fratelli musulmani si rafforzano in una perversa, fanatica testimonianza non solo di militanza politica, ma soprattutto di fede millenaristica. E sui “martiri” moltiplicano il proselitismo. La frenesia di violenza che copre e coprirà per giorni, mesi e forse anni l’Egitto è esempio perfetto, di scuola, non già di una guerra civile come tante altre, ma di un vero e proprio jihad. Ragione non ultima della totale incomprensione dello scenario egiziano da parte degli Stati Uniti e dell’occidente. Le dinamiche che guidano al Sisi, i Tamarrod e la Fratellanza, nulla hanno a che fare con le regole politiche – anche le più feroci – dell’occidente e tutto spiegano invece dell’essenza dell’islam politico odierno. Se al Sisi si rifà alla tradizione millenaria dei mamelucchi, i clan militari, che governarono l’Egitto dal XII secolo sino all’invasione napoleonica (seguita dalla fase dei generali-rais alla Mehmet Ali e, un secolo dopo, alla Nasser), se i Tamarrod incarnano i sogni di una gioventù che non sa fare politica e che si affida toto corde alla leadership dei peggiori generali allevati da Mubarak, i Fratelli musulmani replicano i lineamenti politico- militari applicati da Maometto nelle battaglie contro “il falso governo politeista della Mecca” tra il 622 e il 630 d.C. Il jihad minore (quello maggiore è battaglia interna all’anima), codificato da al Ghazali e dalla tradizione musulmana, non prevede, anzi esclude la “mediazione”, il “compromesso” tra due visioni contrapposte in lotta. Non c’è mediazione possibile in materia di fede, e nell’islam la politica altri non è se non la concretizzazione della fede. Il jihad contempla solo e unicamente la vittoria completa, schiacciante dei “veri fedeli” e l’annichilimento dell’avversario, la sua resa senza condizioni (la Hudna, la tregua, è ammessa, ma solo per perseguire la vittoria finale). Questa è la logica che ispira l’islamico generale al Sisi, questa la logica che ispira Mohammed Badie, leader della Fratellanza. La logica jihadista ha prodotto 60 anni di sconfitte arabe contro Israele e dal 1946 in poi ha mietuto le vite di 3-4 milioni di musulmani uccisi da musulmani in Asia e in Africa. La logica jihadista distrugge ora l’Egitto.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Ecco perché Israele è contento del golpe egiziano del generale Sisi "
Ehud Barak
Roma. Con il suo consueto cinismo, ieri l’ex ministro della Difesa e premier israeliano Ehud Barak, parlando con Fareed Zakaria sugli schermi della Cnn, ha invitato “il mondo libero” a sostenere l’esercito egiziano e il suo generale, Fattah al Sisi. “A chi altro dovremmo rivolgerci?”, ha detto Barak, che ha definito Sisi “liberale”. Mohammed Morsi, il deposto presidente egiziano, secondo Barak stava trasformando il paese in “un regime totalitario di sharia”. Non è la prima volta che un alto ufficiale israeliano tesse elogi pubblici del generale golpista del Cairo. Secondo indiscrezioni di stampa, l’ambasciatore di Israele al Cairo, Yaakov Amitai, aveva definito Sisi “un eroe”. Cosa c’è dietro l’amore israeliano per la giunta militare egiziana? Il Sinai. “L’ascesa dei Fratelli musulmani alla presidenza nel luglio 2012 è stata la notizia migliore per i jihadisti del Sinai”, ci dice Mordechai Kedar, a lungo ufficiale dell’intelligence militare israeliana e oggi arabista alla Bar Ilan University. “I jihadisti sapevano che quel governo non avrebbe agito con determinazione contro di loro per ragioni ideologiche: entrambi, i Fratelli musulmani e i jihadisti, credono nella supremazione dell’islam, nell’obbligo del jihad, vedono Israele come una entità illegittima ed entrambi sono a favore di una implementazione della sharia in ogni aspetto della vita”. Secondo il generale Sameh Seif el Yazal, all’origine del colpo di stato ci sarebbe stata anche la situazione nel Sinai. Il presidente Morsi avrebbe detto ad al Sisi: “Non voglio che i musulmani facciano scorrere il sangue di altri musulmani”. E’ l’ordine fatale si sospendere qualsiasi operazione militare contro i terroristi nel Sinai. Alcuni giorni fa arriva l’attacco israeliano nella penisola, evento che ha illuminato il nuovo livello di cooperazione fra Gerusalemme e il Cairo nella guerra ai terroristi. L’Associated Press ha citato militari egiziani che avrebbero assistito gli israeliani nello strike a Rafah contro i qaidisti. Per questo Mohammed Badie, Guida suprema dei Fratelli musulmani, ha chiamato al Sisi “peggio dei sionisti”, mentre fra gli slogan pro Morsi cantati nelle piazze uno dice che il generale “è controllato da Netanyahu” (premier d’Israele, ndr). Ha chiesto Ansar Beit Muqaddas, l’organizzazione terroristica colpita nell’attentato: “Quale traditore nell’esercito egiziano consentirebbe a droni israeliani di violare lo spazio aereo egiziano?”. Secondo Steven Cook, analista del Council on Foreign Relations e autore di “The struggle for Egypt”, per la prima volta i militari egiziani avrebbero lasciato campo aperto agli israeliani nell’operazione contro il jihad nel Sinai. Sarebbe stato il primo attacco drone israeliano nell’area, dove alla testa dei terroristi ci sarebbe Ramzi Mowafi, già medico personale di Osama bin Laden e noto anche come “il chimico”. Nell’aprile del 1982 Israele ritirò tutte le proprie forze militari dalla penisola del Sinai. Trent’anni dopo sarebbe entrato di nuovo nella regione. Il generale al Sisi avrebbe anche rassicurato gli omologhi israeliani che il trattato di Camp David resterà in vigore. Il generale ha ottimi rapporti con i due inviati del premier israeliano Benjamin Netanyahu per l’Egitto, Amos Gilad e Yitzhak Molcho, con il vice capo di stato maggiore israeliano generale Nimrod Sheffer, inoltre conosce bene l’ex primo ministro Barak e ha collaborato anche al negoziato per liberare il caporale Gilad Shalit, detenuto a Gaza da Hamas. Senza pur portare delle prove, l’analista militare Roni Daniel sul secondo canale televisivo israeliano ha dichiarato che il generale al Sisi avrebbe informato Israele con tre giorni di anticipo dei suoi piani di rimuovere Morsi. “Tenete d’occhio Hamas”, la richiesta di al Sisi.
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