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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
15.08.2013 Egitto, esercito e polizia contro Fratelli Musulmani: centinaia di morti. Analisi e commenti
di Carlo Panella, Fausto Biloslavo, Antonio Ferrari, Federico Rampini, Roberto Toscano

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa
Autore: Fausto Biloslavo - Carlo Panella - Antonio Ferrari - Federico Rampini - Roberto Toscano
Titolo: «La rabbia islamica contro i cristiani e il rischio che finisca come in Algeria - Lo schianto dei Fratelli, tutta lotta e niente governo - Scommessa sbagliata dei Fratelli Musulmani - La rabbia dell’America contro i generali egiziani - Il fallimento dell»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/08/2013, in prima pagina, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Lo schianto dei Fratelli, tutta lotta e niente governo " . Dal GIORNALE , a pag. 13, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " La rabbia islamica contro i cristiani e il rischio che finisca come in Algeria ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Scommessa sbagliata dei Fratelli Musulmani ". Da REPUBBLICA, a pag. 6, l'articolo di Federico Rampini dal titolo " La rabbia dell’America contro i generali egiziani ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Il fallimento dell'islamismo moderato ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Lo schianto dei Fratelli, tutta lotta e niente governo"


Carlo Panella               Mohamed Morsi

Roma. Nel giorno in cui vengono massacrati nelle piazze di Egitto, non è facile rimarcare le terribili responsabilità politiche dei Fratelli musulmani. Ma è indubbio che da due mesi la Fratellanza ha deciso a freddo di arrivare a questo sanguinoso esito, rifiutando pervicacemente qualsiasi ipotesi di ricomposizione politica di un conflitto in cui peraltro le sue ragioni di sostanza democratica sono forti. Mohammed Badie, il loro leader spirituale, nel suo primo comizio a Rabaa al Adawiya annunciò chiaramente che avrebbe contrapposto “la piazza dei martiri” alla “piazza dei Tamarrod”. Purtroppo c’è riuscito: ai trecento morti dei primi quaranta giorni dal 3 luglio, si sono sommate le centinaia di morti di ieri. Un bilancio spaventoso che diventa ancora più inquietante perché è chiaro che questa ferale “massa critica” è l’unico baricentro politico su cui i Fratelli musulmani intendono costruire la loro risposta al nuovo regime sanguinario (altro termine non si merita da ieri Fattah al Sisi), premessa quasi certa per una guerra civile come quella che dilaniò l’Algeria, in un quadro e con protagonisti maledettamente simili. Le anime belle che in occidente, in primis alla Casa Bianca, guardavano ai Fratelli musulmani come a un interlocutore intriso di fondamentalismo, ma pronto alle duttilità del gioco democratico, si devono ricredere. I Fratelli musulmani intendono l’esercizio del potere in modo autoritario e non dialettico, non concorsuale. Non condividono la logica occidentale di ricomposizione alta del conflitto politico, ma praticano la concezione jihadista della imposizione con la forza sull’avversario, da schiantare. Così è stato durante i 15 mesi di governo Morsi, così è stato quando egli ha rifiutato l’ultimatum di Fattah al Sisi che non gli ingiungeva affatto di lasciare il potere, ma solo di dare vita a un governo di unità nazionale. Così si sono comportati in questi ultimi giorni, rifiutando seccamente la mediazione seriamente tentata da el Baradei (che infatti si è dimesso per dissociarsi dalla strage) e dalla comunità internazionale (in testa l’ambasciatore Usa al Cairo Robert S. Ford) e si sono intestarditi su una occupazione delle piazze del Cairo che non poteva che avere la conclusione che ha avuto. Al Sisi, il più islamista tra i generali egiziani, scelto da Morsi proprio per questo, infatti, concepisce lo scontro politico esattamente come loro: imposizione violenta sull’avversario. Ma questa non è solo una catastrofe egiziana. D’ora in poi gli avvenimenti di sangue del Cairo avranno conseguenze drammatiche in tutti i paesi arabi in cui i Fratelli musulmani sono la più forte organizzazione di opposizione, con buone chance di aspirare al governo. Il loro fallimento al Cairo, la loro cieca scelta di seguire solo la “politica dei martiri” e non altro (identica a quella dell’ex fratello musulmano Yasser Arafat tra il 2000 e il 2004) li mostra per quello che sono: una organizzazione che non sa governare, capace solo di portare i propri adepti al macello, millantando per di più questa cieca follia suicida quale alta professione di fede.

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " La rabbia islamica contro i cristiani e il rischio che finisca come in Algeria "


Fausto Biloslavo

L’ Egitto rischia di sprofondare nella sanguinosa deriva algeri­na degli anni Novanta, quan­do i militari cancellarono la vittoria isla­mica alle elezioni scatenando una pauro­sa guerra civile che è costata 150mila morti. Il pugno di ferro contro i Fratelli musul­mani potrebbe p­ortare le frange più gio­vani ed estremiste alla lotta armata. Non solo: il massacro di ieri al Cairo ha provo­cato, come una scossa di terremoto, scontri in tutto il Paese, che sono sfociati in attacchi alle chiese della minoranza cristiana. Lo stato di emergenza dichiarato dal presidente provvisorio, AdlyMansour, ri­corda quello algerino di vent'anni fa. Gli islamici del Fis vinsero le elezioni nel di­cembre 1991. Il 4 gennaio i militari chiu­sero il Parlamento e iniziò una spavento­sa guerra civile durata dieci anni. Il 3 lu­glio il presidente eletto dei Fratelli musul­mani, Mohammed Morsi, è stato destitu­ito dall'attuale ministro della Difesa, ge­nerale Abdel Fattah El Sisi appoggiato da un’ampia fetta della popolazione. Ieri i militari e la polizia hanno scatenato il ba­gno di sangue per sgomberare i presidi della Fratellanza al Cairo che protestava­no contro il «golpe». A Rabba,uno dei sit­in smantellati nella capitale, si è assistito a un prologo della guerra civile: cecchini governativi sparavano dai tetti e militan­ti islamici rispondevano al fuoco. La Fratellanza è un movimento politi­co- religioso storico in Egitto, che fin dai tempi di Nasser veniva represso e viveva in clandestinità. Il pericolo è che si formi una costola armata sull’esempio di Ha­mas, il movimento palestinese che co­manda a Gaza ispirato dai Fratelli musul­mani. Gli alleati non mancano. Ieri il gruppo Al Jamaa Al Islamiya, vicino ai so­stenitori di Morsi, ha annunciato che in Egitto «ci sarà una rivoluzione globale in tutto il Paese». Non si tratta di neofiti, ma degli eredi della formazione terrorista che insanguinarono il Paese negli anni Ottanta uccidendo il presidente Sadat e decine di turisti. I suoi membri hanno ab­bandonato da tempo la lotta armata, ma in questo caos potrebbero tornare ad im­bracciare le armi. Chi fin dalle ore precedenti alla deposi­zione di Morsi aveva minacciato il Jihad è Mohammed Al Zawahiri, fratello mino­re di Ayman, il capo di Al Qaida dopo la morte di Bin Laden. Mohammed, scarce­rato grazie alla rivolta contro Mubarak, è uno dei leader dei Salafiti per la guerra santa, un cartello di gruppi estremisti egi­ziani. Come in Algeria le zone desertiche e montagnose sono state per un decennio roccaforte del Fronte islamico e dei suoi eredi, il Sinai è già una terra di nessuno dove si nascondono cellule integraliste ben armate grazie ai contrabbandieri be­duini. Una miscela esplosiva, ma la vera inco­gnita è il ruolo del potente partito salafita Al Nour, la seconda formazione politica egiziana. A parole stanno con i «martiri» islamici uccisi dalle forze di sicurezza, ma nei fatti cercano di fare le scarpe ai Fra­telli musulmani attirando il loro elettora­to. Dopo la deposizione di Morsi hanno addirittura trattato con il nuovo premier Hazem El Beblawi ed il vice premier Mohammad El Baradei. Quest’ultimo è l'anima più liberale del governo che non voleva l'intervento armato contro i Fratel­li musulmani. E per questo motivo, ieri, ha dato le dimissioni. Ma le somiglianze con la tragedia del­l’Algeria non sono finite. Il generale Al Si­si aveva annunciato pubblicamente la destituzione di Morsi con al suo fianco l'imam di Al Azhar, la più importante isti­tuzione musulmana del Paese ed il «pa­pa » dei copti. Ieri la guida di Al Azhar ha preso le distanze dall'intervento di eserci­to e polizia. Due chiese e un centro giova­nile cristiano, invece, sono stati presi d'as­salto e incendiati dagli islamici, come rappresaglia al bagno di sangue del Cai­ro. Una deriva algerina scatenerebbe la caccia ai cristiani copti, che sono oltre il 10 per cento della popolazione.

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Scommessa sbagliata dei Fratelli Musulmani "


Antonio Ferrari      Fratelli Musulmani

L’Egitto brucia i suoi figli e sembra divorare se stesso. L’odio ha ormai prodotto una polarizzazione che si è già trasformata in tragedia. Ora, quando si creano le condizioni di una guerra civile e si disegnano i contorni di un sistematico massacro, vi sono un dovere e una necessità.
Il dovere è fermare le violenze, a qualsiasi costo. La necessità è chiedersi qual è il punto da cui tutto ha avuto origine. La fine del regime di Hosni Mubarak, che aveva tenuto saldamente le redini del Paese per 30 anni, adoperando il pugno di ferro, ha liberato una società affamata di diritti e ha dato spazio, dopo decenni di emarginazione e spesso di persecuzione, alla Fratellanza musulmana. In realtà i Fratelli si erano ben guardati dal sostenere apertamente la rivolta di piazza Tahrir, pensando di incassarne in seguito i dividendi politici. Essendo la forza più organizzata, non hanno avuto molte difficoltà a prendere il potere, però con una vittoria alle elezioni presidenziali non certo plebiscitaria. Chiara nei numeri che hanno portato alla presidenza il loro candidato, Mohammed Morsi; assai dubbia se la si considera aderente alle volontà del popolo, che in maggioranza era più interessato a cambiare che a consegnarsi ai Fratelli e a farsi condizionare dai loro elementi più radicali. Come quel leader che, in un’intervista al Washington Times, ha detto che il Ramadan può anche essere interrotto per condurre un «jihad» contro la società egiziana. Siamo lontani anni luce dal pensiero del fondatore della Fratellanza Hassan alBanna, e ben lontani da quell’idea di moderazione (c’era chi pensava: «Macerandosi nell’attesa saranno diventati più saggi») che ha ingannato governi e diplomazie internazionali, a cominciare dagli Stati Uniti, che avevano seguito con comprensione, e anche con simpatia, l’esperimento di Morsi in Egitto, e quello più o meno analogo nella Tunisia del dopo Ben Ali. Ma l’Egitto è il più grande Paese arabo, il suo ruolo è fondamentale, le sue responsabilità immense, e Morsi non ne era all’altezza.
Gli intellettuali più avveduti della Fratellanza gli avevano consigliato una linea flessibile: tolleranza sociale, sostegno al turismo e alla cultura, che sono poi le risorse più preziose di quel grande Paese gravido di storia e — teoricamente — di antica saggezza. Di sicuro, i consigli non sono stati accolti da Morsi e dai suoi collaboratori più stretti, che hanno invece dimostrato la poca avvedutezza di una scommessa sbagliata, e realizzata dando corpo a un Islam politico senza timone. Il raìs, probabilmente malconsigliato, ha scelto una pasticciata intransigenza, sia all’interno, sia all’esterno. All’interno spaventando turisti, finanziatori, intellettuali, banchieri, studenti, istituzioni, economisti, con misure coercitive esiziali. Ancor peggio in politica estera. Il vertice della Fratellanza, pur di ottenere gli aiuti americani (un miliardo e mezzo di dollari all’anno) ha accettato — con poca convinzione — di confermare il trattato di pace con Israele.
Però tra gli integralisti di Gaza e i laici di Ramallah, Morsi non ha avuto dubbi: ha scelto i primi. La Fratellanza e le sue propaggini dogmatiche si erano illuse poi di poter rimpiazzare gli aiuti di chi non accettava l’islamizzazione strisciante della società con i miliardi profumati di petrolio del Golfo. All’inizio sembrava che il cartello dei sostenitori arabi vedesse, avvinti, il piccolo, straricco e ambizioso Qatar al gigante Arabia Saudita. Oggi Doha continua a sostenere i Fratelli musulmani e il presidente Morsi, mentre Riad sostiene i militari e il nuovo governo.
Persino le due più importanti tv globali arabe sembrano seguire i destini polarizzati dell’Egitto. Al Jazeera, la tv del Qatar fondata nel 1996, sembra seguire gli eventi dalla parte dei Fratellanza. Al Arabiya, creata nel 2003 negli Emirati Arabi Uniti con la partecipazione di capitali sauditi, racconta gli eventi spiegando le ragioni dei militari.
È chiaro che gli errori della Fratellanza egiziana avranno inevitabili ripercussioni in tutta la regione. Colpisce e sconvolge l’assoluta mancanza di un progetto politico meditato, maturo e realistico. I Fratelli musulmani non hanno neppure voluto accettare l’idea di essere comunque una minoranza. Forte, con i propri diritti, con i propri obiettivi, ma pur sempre una minoranza che deve quindi fare i conti con una tranquilla maggioranza: quella che alcuni chiamano del «sofà». Cioè degli egiziani che stanno a casa, che sono stanchi di violenze e vogliono tornare a sentire il profumo di quella modesta prosperità che avevano sognato.

La REPUBBLICA - Federico Rampini : " La rabbia dell’America contro i generali egiziani "


Federico Rampini      Barack Obama

NEW YORK — Il segretario di Stato americano, John Kerry, invoca la fine dello stato d’emergenza «al più presto» e definisce il massacro del Cairo «un colpo grave». Il capo della diplomazia americana interviene dopo aver parlato col ministro degli Esteri egiziano, a cui ha detto che queste violenze «rendono molto più difficile il ritorno alla democrazia ». Kerry si rivolge ai militari: «Avendo la superiorità della forza in questi scontri, hanno una responsabilità unica nel prevenire nuove violenze». Ma un portavoce di Barack Obama, Josh Earnest, conferma che la Casa Bianca non è pronta a compiere un passo decisivo: definire ufficialmente quello dei militari un colpo di Stato, il che farebbe cessare in base alla legge Usa ogni aiuto di Washington alle forze armate egiziane (attualmente 1,3 miliardi di dollari all’anno). Il portavoce di Obama si limita a ribadire «gli appelli ai militari perché dimostrino controllo, rispettino i diritti universali dei cittadini». È troppo poco, davvero troppo poco. Perfino un falco come il senatore repubblicano John McCain, reduce da un viaggio in Egitto, non ha dubbi: «Si tratta di un golpe, bisogna dirlo». Incalzato, il portavoce Earnest ribadisce: «Abbiamo stabilito che non è nell’interesse degli Stati Uniti fare quel passo». Ovvero tagliare gli aiuti alle forze armate colpevoli della strage. L’imbarazzo dell’Amministrazione Obama è evidente. Oltre all’escalation di violenza, al bilancio terrificante delle vittime, ora c’è anche la dimissione dal governo ad interim del vicepresidente Mohammed El Baradei, un laico moderato, che gli americani conoscono bene (fu capo dell’Aiea, l’agenzia atomica Onu) e che poteva essere un interlocutore prezioso in una transizione verso il ritorno alla normalità. La timidezza di Obama gli attira critiche durissime. Le più aspre vengono dai settori liberal. Le riassume l’editoriale del Washington Post, dai toni particolarmente severi. L’Amministrazione Obama viene definita addirittura «complice nel nuovo e orrendo spargimento di sangue». Le proteste della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, scrive il quotidiano della capitale, sono ignorate dai militari com’era prevedibile, «perché Washington ha già dimostrato che i suoi moniti non sono credibili». Viene ricordata la gaffe di Kerry: in un’intervista televisiva si lasciò sfuggire che i militari stavano «ripristinando la democrazia» (giudizio poi rimangiato e corretto dallo stesso segretario di Stato). Il fatto che l’America non interrompa i suoi aiuti finanziari ai militari, prosegue il Washington Post, «contribuisce a spingere l’Egitto nella dittatura, anziché a restaurare la democrazia ». L’editoriale sottolinea la rilevanza delle dimissioni di El Baradei, un segnale che anche quei laici moderati che inizialmente diedero fiducia ai militari, hanno dovuto ricredersi. Per il Washington Post c’è una sola via d’uscita: anche se l’America non ha il potere d’influenzare il tragico corso degli eventi al Cairo, deve sospendere ogni aiuto e dare così un messaggio forte ai generali sulla necessità di cessare la repressione e restaurare la legittimità democratica. Michele Dunne, un’autorevole esperta di Medio Oriente nonché ex diplomatica in quell’area, accusa la politica estera di Obama verso l’Egitto di essere «basata sulla paura anziché sui principi». La paura, cioè, di «perdere la cooperazione sulla sicurezza con i militari», che ha garantito la pace con Israele ed è stata uno dei pochi elementi di stabilità nella regione. Con le sue incertezze, sostiene l’esperta, la Casa Bianca ha finito per alienarsi tutti gli interlocutori, dai Fratelli musulmani alle componenti laiche dell’opinione pubblica egiziana.

La STAMPA - Roberto Toscano : " Il fallimento dell'islamismo moderato "

Il titolo non rispecchia il contenuto del pezzo.
Toscano, infatti, scrive : "
L’idea di un islamismo moderato ha subito un duplice colpo: da un lato il fallimento dell’esperienza di governo e dall’altro il rovesciamento violento di un governo islamista democraticamente eletto, che ha indebolito ulteriormente la già tenue ipotesi di una via pacifica".


Roberto Toscano

Quello che si temeva è avvenuto: l’esercito egiziano ha dato inizio - con l’uso delle armi e con l’impiego di mezzi blindati e bulldozer – alle operazioni per lo sgombero degli accampamenti allestiti dagli aderenti al movimento dei Fratelli Musulmani per protestare contro il colpo di Stato e l’arresto del presidente Morsi e di altri dirigenti del movimento.

Si registrano già centinaia di vittime, sia al Cairo che in altre località, e fra i morti ci sono anche giornalisti stranieri (fra cui un cameraman di Sky). Vi sono pochi dubbi sull’esito della repressione militare. Gli accampamenti verranno di certo smantellati, e il potere del generale al-Sisi ne risulterà rafforzato. Intanto, è stato proclamato lo stato di emergenza, che fornirà all’esercito ulteriori strumenti di controllo e repressione.

Diventa così sempre più difficile definire l’intervento militare come qualcosa di diverso da un colpo di Stato.
Non si tratta di disquisizioni politologiche, ma di semplice constatazione di fatti reali – fatti che rendono insostenibile la tesi del “golpe per la democrazia”, a meno di non volere parafrasare quel colonnello americano che in Vietnam, dopo che un villaggio era stato raso al suolo dall’aviazione, aveva detto: “E’ stato necessario distruggere il villaggio per salvarlo”.

Un golpe non certo democratico – scrive d’altra parte il professor Parsi sul Sole-24 Ore – bensì rivoluzionario. E cita il parallelo del «18 Brumaio» di Napoleone. Bonapartismo: in fondo niente di nuovo, e soprattutto niente di nuovo in Egitto, da Nasser (e prima di lui Neguib) a Sadat a Mubarak.

Dovremmo quindi abbandonare i moralismi e rassegnarci al fatto che in una prospettiva storica la rivoluzione ha spesso bisogno di essere promossa con la violenza armata. La «levatrice della Storia», come dicevano i leninisti.

Non credo che fosse quello che prevedevamo, e speravamo, quando avevamo salutato con grande simpatia ed entusiasmo la Primavera Araba.

Colpisce anzi la sorprendente volubilità di gran parte dell’opinione pubblica occidentale che, dopo aver dato anche troppo credito all’ipotesi dell’islamismo moderato, adesso prende per buone le assicurazioni di un esercito che proclama la propria intenzione di difendere la rivoluzione e l’interesse nazionale, ma in realtà è impegnato nella restaurazione del proprio potere sia politico che economico.

Certo, è assurdo – come ha fatto la Premio Nobel per la Pace yemenita Tawwakkul Karman – definire Morsi, personaggio mediocre, incompetente e autoritario, come un altro Mandela. Ma se le forze armate dovessero rovesciare tutti gli incompetenti con tendenze autoritarie avrebbero di certo un bel da fare, e non solo in Egitto.

Non sarà comunque facile, alla luce dello spargimento di sangue di oggi, e di quelli che probabilmente seguiranno (anche dopo le delusioni del governo Morsi i simpatizzanti dei Fratelli Musulmani sono pur sempre centinaia di migliaia), mantenere l’apertura di credito ai militari egiziani, quell’atteggiamento favorevole che, come scrive Adam Shatz nella London Review of Books, vede «un’improbabile coalizione di sostenitori del golpe, da Tony Blair a Bashar al-Assad, dai vertici dell’intelligence israeliana a, soprattutto, Arabia Saudita ed Emirati».

Diventerà anche difficile per i liberali egiziani, che hanno aderito al golpe in odio ai Fratelli Musulmani, continuare a sostenere i militari, almeno apertamente. Infatti, come aveva minacciato nel caso i sit-on fossero stati smantellati con la forza, ieri sera il vice presidente El Baradei si è dimesso.

La questione islamista, in ogni caso, non è risolta. Ben diversa sarebbe stata una sconfitta elettorale, che avrebbe sanzionato un fallimento politico che ora viene mascherato, e addirittura nobilitato dalla brutale vittimizzazione degli islamisti prodotta dalla repressione violenta.

E’ in ogni caso estremamente difficile poter sperare che la futura vicenda politica dell’Egitto possa sfuggire ad un perverso ciclo di violenza. E’ subito inquietante la notizia di attacchi a case, negozi e chiese di cristiani copti, per gli islamisti capri espiatori ideali.

Faremmo anche bene a chiederci come mai i salafiti, islamisti radicali e apertamente antidemocratici che hanno sempre accusato i Fratelli Musulmani di essere degli illusi perché propongono una via pacifica all’islamismo, facciano parte della «improbabile coalizione» filogolpista.

Nulla di buono nemmeno per noi, sull’altra riva del Mediterraneo. Sembra che negli ultimi sbarchi di clandestini sulle nostre coste ci fossero molti siriani, ma anche egiziani. Non più quindi una emigrazione prodotta dalla miseria ma la fuga da conflitti e violenze.

Il fatto è che siamo tutti, sia europei che americani, incapaci di individuare una linea politica sostenibile: i militari non tornano indietro, mentre una loro sconfessione aperta comporterebbe (soprattutto per Washington) la sospensione di aiuti senza i quali l’Egitto sprofonderebbe nel caos più totale. L’idea di un islamismo moderato ha subito un duplice colpo: da un lato il fallimento dell’esperienza di governo e dall’altro il rovesciamento violento di un governo islamista democraticamente eletto, che ha indebolito ulteriormente la già tenue ipotesi di una via pacifica.

I liberali, quelli che avevamo sperato potessero svolgere un ruolo importante dopo la caduta di Mubarak, sono numericamente deboli e vittime di una pesante contraddizione: come si fa a difendere democrazia e laicità con i carri armati? La crisi egiziana è solo all’inizio.

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