Riportiamo dalla LETTURA del CORRIERE della SERA di oggi, 04/08/2013, a pag. 10, l'articolo di Cesare Segre dal titolo " Shoah senza più testimoni ", a pag. 11, l'articolo di Alessia Rastelli dal titolo " L'Olocausto impresso nel ricordo. Digitale ", l'articolo di Paolo Di Stefano dal titolo " Fingere la normalità tra le spire dell'orrore ".
Ecco i pezzi:
Cesare Segre - " Shoah senza più testimoni "


Cesare Segre, Shlomo Venezia, sopravvissuto alla Shoah, morto l'anno scorso
Le leggi biologiche ci permettono di prevedere che i testimoni diretti della Shoah saranno presto tutti morti. Le testimonianze che molti di loro hanno considerato un dovere, portandole specialmente nelle scuole, saranno sospese per sempre. Ma che cosa cambia? Certo, i testimoni erano/sono mossi dalla loro passione (comprendere e far comprendere, o meglio illustrare l'incomprensibile): passione che una pagina letta ad alta voce non comunica con altrettanta efficacia. Però dal punto di vista conoscitivo non c'è alcuna perdita, perché sulla Shoah sappiamo tutto, basti anche solo ricordare il bel libro di Frediano Sessi sull'organizzazione di Auschwitz. E infatti, nonostante l'ossessione degli aguzzini di non lasciare tracce, il materiale documentario è ricchissimo, anche per la mania classificatoria dei tedeschi.
Ricordo quando, riuscite vane tutte le ricerche dei miei zii e cugini, il magnifico Libro della memoria di Liliana Picciotto (Mursia, 1991), basato sulla pura burocrazia degli sterminatori, mi fece sapere dove i miei cari erano stati catturati, in quale convoglio furono portati ad Auschwitz, quali di loro (i più vecchi) all'arrivo furono immediatamente «mandati a gas», quali altri e per quanto tempo sopravvissero brevemente. Inutile domandare che senso abbia trasportare per metà Europa e in condizioni inumane dei vecchi già condannati dalla loro età. Siamo nell'area dell'irrazionale più disumano, la stessa cui pertengono i negazionisti. Naturalmente, conoscere i fatti e le situazioni è appena un inizio, e sul senso di tutto ciò lavoreranno le future generazioni.
Certo meno commossa, certo più didattica, ci sarà sempre, nelle scuole e nei Lager, una voce che proviene dal profondo dell'orrore. E ci saranno sempre i figli e i nipoti che cercheranno in quei luoghi il paesaggio in cui i loro cari furono trucidati, che cercheranno di vedere quello che videro i loro occhi prima del buio, o magari cercheranno una briciola di cenere del loro corpo profanato. Interessante sarebbe capire la spinta che porta tante scolaresche alle lezioni sulla Shoah, o a visitare i Lager. In molti ci può essere curiosità, o il bisogno di dare consistenza al poco o al molto che si è già letto sull'argomento. Per qualcuno sarà soltanto una tappa oltre Cracovia. Tutto ormai è diventato turismo e spettacolo.
Credo però che nei più consapevoli ci sia qualcosa di più intricato. Visitare un Lager non è come scendere, nelle Conciergeries, sino alle celle che ospitarono le vittime della Rivoluzione francese destinate alla ghigliottina. In quel caso è come leggere le illustrazioni di un libro, è la presa d'atto della Storia Condivisa, da parte di una qualunque persona che conosce i fatti e li «verifica».
Chi visita un museo dell'Olocausto, o un Lager, sa che si tratta della sua storia, sa anche oscuramente che alla Shoah i suoi rispettabili genitori o nonni possono in qualche modo aver dato un contributo, non facendosi domande, non chiedendosi perché certe cose succedevano intorno a loro, perché certi loro amici sparivano. E quanti hanno offerto un bicchiere d'acqua o una pagnotta agli uomini stremati che dai carri bestiame facevano disperatamente segno? La fenomenologia è molto varia, e va dai guardiani dei Lager, o dai collaboratori «laici», normalmente stipendiati e nutriti, che lavoravano fianco a fianco con qualche deportato denutrito, ai kapò che tenevano l'ordine tra i prigionieri, e a quanti usavano i prigionieri come giocattoli, uccidendo a casaccio, per motivi frivoli.
Ma più impressionanti, tra le ricerche recenti, sono quelle che riguardano la partecipazione volontaria di cittadini di vari Paesi europei agli eccidi. È cioè successo che città dove cristiani ed ebrei erano convissuti da secoli, pacificamente e persino amichevolmente, abbiano assistito impassibili all'eccidio degli ebrei, e anzi, in qualche caso, abbiano collaborato volonterosamente.
Anche episodi di questo genere ci devono ricordare che la storia non ammette soluzioni di continuità: si voglia o no, l'Europa dei visitatori dei Lager e degli ascoltatori delle memorie degli internati è la stessa in cui quegli orrori si produssero. E perché sia lecito inserire anche la Shoah tra gli avvenimenti della Storia Condivisa, bisogna che, prima, un serio esame di coscienza collettivo abbia luogo. La Germania in parte l'ha già fatto, talora con risultati traumatici (pensate a un giovane che scopre di essere figlio o nipote di un assassino o di un torturatore), mentre in Francia le reticenze continuano e l'Italia ha tirato fuori la solita maschera degli italiani «brava gente». Non sembri una forzatura collegare la mancanza di un serio esame di coscienza sulla Shoah con il nostro attuale disastro etico.
Alessia Rastelli - " L'Olocausto impresso nel ricordo. Digitale "

Anna Frank
Una vecchia libreria, accanto a una finestra. Un pulsante invita a cliccare. Lo scaffale ruota, appare un corridoio. Sembra di esserci. È l'ingresso dell'alloggio segreto di Anna Frank, così come ricostruito, in 3D, sul sito www.annefrank.org. Disponibili anche le spiegazioni audio. E i passi del Diario della giovane ebrea che visse nascosta dal 1942 al '44 e poi morì, quindicenne, a Bergen-Belsen, diventando un simbolo della Shoah. Si diffondono, in Italia e nel mondo, le iniziative in cui le nuove tecnologie e il digitale diventano preziosi alleati della Memoria. Dagli archivi online per conservare i documenti (i più vasti, allo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto di Gerusalemme) ai corsi di elearning sulla Shoah del Museo di Auschwitz. Fino all'uso di Facebook, Twitter e YouTube per trasmettere la testimonianza e ricordare «che questo è stato» (possiede i tre account, ad esempio, l'Holocaust Memorial Museum di Washington). «È giusto usare anche questi mezzi — sostiene Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) —. Sebbene infatti per conoscere e capire servano ancora i libri, il web e il digitale offrono alcune opportunità in più». «Per preservare i documenti, innanzitutto, mettendoli in sicurezza nel formato elettronico, che li rende anche potenzialmente accessibili da ogni luogo — spiega Sarfatti —. E per arrivare ai giovani, fornendo ad esempio alla scuola materiale didattico adatto al loro linguaggio». Lo stesso Cdec ci sta provando. All'indirizzo www.nomidellashoah.it si trova un Memoriale elettronico in cui il Centro ricorda tutte le vittime della persecuzione in Italia. Per ognuna vengono forniti una scheda biografica, i nomi dei familiari deportati e di altri ebrei arrestati nella stessa città. «Simbolicamente è anche un modo per ricostruire i nuclei familiari distrutti» nota Sarfatti. Oltre 300 documenti, inoltre, sono stati raccolti dal Cdec nella Mostra digitale sulla Shoah in Italia (www.museoshoah.it). «Vorremmo trasformarla in un ebook o farne una versione per i tablet — spiega Sarfatti —. Il problema sono i costi. In un momento in cui i contribuiti che riceviamo sono esili». Stesse difficoltà per la Fondazione ex campo Fossoli, che ha comunque deciso di intraprendere la via digitale. «Abbiamo realizzato un database dei transitati nel campo tra il 1942 e il '44 — spiega la direttrice Marzia Luppi —. Sarà online entro l'anno mentre, per la Giornata della memoria 2014, pubblicheremo 80 ore di videotestimonianze, da cui sarà tratto anche un film-documentario: "Crocevia Fossoli"». Oltre 52 mila, inoltre, le videotestimonianze sulla Shoah già raccolte in 56 Paesi dalla University of Southern California Shoah Foundation, l'originaria fondazione di Steven Spielberg, poi diventata istituto universitario. Il database è disponibile a Roma all'Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, mentre le sole interviste in italiano (433) si possono consultare su www.shoah.acs.beniculturali.it. Per gli studenti delle superiori, inoltre, la Fondazione ha creato iWitness: una piattaforma che contiene oltre 1.200 videotestimonianze. «I ragazzi possono, tra l'altro, fare ricerche e creare un loro progetto-video — spiega Doris Escojido, consulente della Fondazione per l'Italia —. Il principio è educare mediante la testimonianza». Nel nostro Paese, attraverso il ministero dell'Istruzione, la piattaforma è stata sperimentata finora in cinque scuole.
Paolo Di Stefano - " Fingere la normalità tra le spire dell'orrore "

Giorgio Sacerdoti, Nel caso non ci rivedessimo (Archinto)
Sembra che risuonino due versi di Montale, durante la lettura delle quasi quattrocento pagine del libro di Giorgio Sacerdoti, Nel caso non ci rivedessimo (Archinto). Sono due versi del famoso sonetto Gli orecchini: «Ronzano èlitre fuori, ronza il folle/ mortorio e sa che due vite non contano». Sotto il fischio dei funesti coleotteri meccanici che sono gli aerei carichi di bombe, la vita degli individui è una variabile insignificante. Per essere tale, la follia lugubre della persecuzione nazista doveva ignorare esistenze private, affetti, aspirazioni, speranze, dolori, sogni dei singoli. C'era una non-ragione superiore. Sacerdoti costruisce il suo libro autobiografico con le lettere familiari. Da una parte (la più consistente) quelle della famiglia Klein, di Colonia; dall'altra quelle dei Sacerdoti, modenesi residenti a Milano. Due famiglie ebraiche il cui destino finirà per incrociarsi nel 1939, quando i giovani Piero (Sacerdoti) e Ilse (Klein) si incontrano su un campo di tennis a Parigi, dove lui lavora presso la filiale francese delle assicurazioni Ras e lei è segretaria d'ufficio. L'amore scoppia ben presto e il matrimonio viene celebrato il 14 agosto 1940 a Marsiglia. Intanto, con la Notte dei Cristalli (novembre 1938), papà e mamma Klein — l'avvocato Siegmund e la moglie Helene (Meyer) — hanno deciso di fuggire ad Amsterdam (come avrebbero fatto altri ventimila ebrei tedeschi) per raggiungere il figlio Walter. Il rifugio, purtroppo, si rivelerà nefasto. La corrispondenza è il filo che tiene in contatto Ilse con i genitori, ma, essendo interrotto il servizio postale tra Olanda e Francia del Sud, le lettere originali vengono inviate ad Anni, una cugina di Helene che vive in Svizzera, la quale (chissà perché) le ricopia per smistarle da Zurigo ai destinatari.
Nel 1938 la famiglia aveva trascorso insieme una felice vacanza estiva a Pontresina, in Engadina. Ilse avrebbe poi raggiunto i genitori in Olanda un anno dopo, portandosi dietro, al rientro a Parigi, un'impressione di serenità, senza immaginare che quello sarebbe stato l'ultimo incontro con i familiari. Nell'inconsapevolezza dei più, le cose precipitano e, tra retate e deportazioni, la vita ad Amsterdam si fa sempre più pericolosa per gli ebrei. La famiglia Klein ne pagherà il prezzo più alto. Walter, per le resistenze della madre, aveva perso l'occasione di andarsene a Cuba, pur avendo un biglietto in nave già pagato da Ilse. Tra le paure dei genitori, nel maggio 1942 cerca di raggiungere clandestinamente la sorella a Marsiglia, ma a Dôle, nel passaggio della linea di demarcazione che divide la Francia occupata dal Sud, viene catturato dai tedeschi. Dal carcere invia lettere sempre più angoscianti, chiedendo viveri e aiuto, mentre Piero si adopera in ogni modo per salvarlo: da Drancy, periferia nord di Parigi, quotidianamente partono i convogli per Auschwitz. La mattina del 26 agosto tocca a lui e ad altri 948 deportati di varie nazionalità. Siegmund e Helene perdono il loro figlio di 23 anni, fingono di pensarlo ancora salvo e non si danno pace. Soprattutto la madre che, presa probabilmente da mille rimorsi, si ammala e il 14 gennaio 1943 finisce i suoi giorni in un ospedale di campagna, dopo aver tentato il suicidio. È l'apice della tragedia, quando Siegmund, rimasto solo, fidando nella distanza e nella mediazione di Anni (la copiatura), finge la normalità e continua a scrivere a Ilse non solo tenendola all'oscuro della morte della madre, ma anche firmando «Mammy» e più in là con il più generico «i tuoi genitori». Alle parole cifrate per aggirare la censura si aggiungono le menzogne. Siegmund sa che sua figlia è in gravidanza, ma neanche quando, il 2 marzo, nasce Giorgio, riuscirà a confessare la verità. Nell'avvertire che pure su di sé incombe la persecuzione, trascorre settimane in solitudine e nella disperazione, anche se scrive a Ilse che sulla sua pietra tombale vorrebbe essere definito un «lottatore». Lo è, a suo modo, pur avendo ormai perso fiducia e speranze, consapevole che non vedrà mai il suo nipotino. Il 16 ottobre, quando sente la fine imminente, chiede ai parenti di rivelare tutto a Ilse e tre giorni dopo verrà arrestato. Ancora due cartoline dal campo di raccolta di Westerbork, dov'era stata deportata anche la scrittrice olandese Etty Hillesum, e poi, il 16 novembre, anche per lui un convoglio per Auschwitz e la morte a 69 anni.
Da qui si apre il capitolo italiano, la fuga da Nizza della giovane coppia con neonato, il rifugio in un villino sul lago Maggiore con i genitori Sacerdoti, papà Nino e mamma Gabriella, il terrore dell'occupazione tedesca dopo l'8 settembre, il passaggio della frontiera elvetica da Viggiù, con il piccolo sedato da una pastiglia per evitarne il pianto, l'approdo fortunoso a Stabio, in Ticino, il trasferimento a Ginevra, una nuova vita in attesa che si chiuda il conflitto. Raccontata così, per sommi capi, la vicenda della famiglia Sacerdoti-Klein è, purtroppo, una delle tante. Ma la ricostruzione che ne fa l'autore nel libro (apparso in Germania in prima edizione) è accorta nell'intrecciare le lettere private con la sua voce neutrale di narratore-cronista-storico. Questa accompagna con discrezione il lettore, per chiarire gli snodi della tragedia che si stava abbattendo sulla famiglia dispersa ovunque, Italia, Germania, Francia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, America del Sud, Spagna, Algeria, come se la grande bomba della Storia avesse lacerato le maglie del tessuto parentale e della rete di amici, facendone precipitare i lacerti a distanze inimmaginabili. Qualcuno si salva; molti altri sono destinati a diventare vittime innocenti.
Sono innumerevoli le testimonianze della Shoah, ma ciascuna ha una sua singolarità nell'aggiungere orrore all'orrore noto. Quel che colpisce qui è la temperatura della tragedia vissuta «in soggettiva», prima nel tempo normale di un'attesa quasi inconsapevole, poi nella sospensione ancora fiduciosa, infine nel progressivo precipizio. Le lettere conservano la forza resistente della quotidianità e, anche quando il persecutore sembra bussare alla porta, si intravedono sprazzi luminosi di normalità: una torta alle ciliegie, i lavori domestici, una gita in campagna, una lettura, il brindisi per un compleanno, un vestito nuovo. Il pacco con il corredino preparato dai nonni per il nascituro (è lo stesso corredo di Ilse e Walter, gelosamente conservato), in viaggio dall'Olanda a Milano, era dato più volte per disperso, ma dopo tre mesi e chissà quante vicissitudini postali sarebbe giunto a destinazione. Ultima epifania. In un'altra poesia, Montale mise in versi l'immagine di una cappelliera con un gatto portata via da una ragazza in precipitosa fuga. Diceva: «sovrasta i ciechi tempi come il flutto/ arca leggera e basta al tuo riscatto». Se la vita ha perso contro la follia mortale, la memoria trasmessa ai posteri vince contro il nulla. Come quel pacchettino che attraversa l'Europa in fiamme per essere consegnato al piccolo Giorgio.
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